pensiero libertario
Solitari e solidali
di Gabriella Putignano
“Mio padre Albert adorava
Georges Brassens” ha recentemente dichiarato Catherine
Camus. Il medesimo “sentire tragico” accomuna lo
scrittore e il cantautore, due spiriti libertari tra i più
noti e influenti dello scorso secolo (e non solo).
«Sì, c'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Per difficile che sia l'impresa, vorrei non essere mai infedele
né all'una né all'altra.»1
Una melodia comune congiunge due uomini, Albert Camus (Mondovi,
1913 - Villeblevin, 1960) e Georges Brassens (Sète, 1921
- Saint-Gély-du-Fesc, 1981), li afferra nel profondo
della loro esistenza e li unisce nel ritornello di un magico
cantico. È la melodia della libertà, è
l'attaccamento viscerale ad essa, ciò che lega queste
due teste pensanti del secolo scorso.
Nel seguente lavoro intendiamo mettere in correlazione la passione
libertaria di Camus, filosofo franco-algerino, Premio Nobel
per la letteratura nel 1957, uomo della Resistenza, con quella
di Brassens, poeta della canzone.
Non si tratta, certo, di un arbitrio personale o di una scelta
fantasiosa, perché è stata Catherine Camus, la
figlia di Albert, ad averci indirizzato su questa via. In una
recente intervista la donna ha dichiarato:
«Camus adorava Brassens. Ci ha portato Brassens e ce lo
ha fatto ascoltare quando avevamo dodici anni; all'epoca era
del tutto scioccante, era un libertario come Camus del resto.»2
Nella storia della musica Brassens ha costituito una vera e
propria rivoluzione, poiché egli è stato uno dei
primi a riempire di senso, di contenuto, il testo della canzone.
Prima di lui - ha rivelato anche Gino Paoli3-
la canzone era una specie di ipnotico stordimento, un momento
di semplice divertissement, un irrilevante passatempo.
Ma la musica è veramente tale solo se graffia, se scava
nelle viscere e penetra nella mente; solo se veicola un messaggio
e condivide l'inquietudine patica di una riflessione.
Per queste ragioni possiamo, senz'altro, definire la voce di
Brassens quale una voce etica, molesta come il celebre
tafano socratico, sincera come il cuore puro di un fanciullo.
È una voce che incarna a pieno l'ideale di Fabrizio De
André (Genova, 1940 - Ivi, 1999), il Brassens italiano,
il quale affermava: «Cantare, credo sia un ultimo grido
di libertà. Forse il più serio».4
Orbene, questo «grido di libertà» noi lo
ritroviamo tanto in Brassens quanto in Camus, lo scorgiamo nei
loro pensieri e nei loro gesti.
Entrambi prendono, invero, le mosse da un medesimo sentire
tragico, dalla comprensione di un divorzio assurdo
che abita l'esistere: «Questo divorzio tra l'uomo e la
sua vita, fra l'attore e la scena è propriamente il senso
dell'assurdo»5 - si legge
ne Il mito di Sisifo (1942). Con i versi di Brassens/Aragon:
«La vie est un étrange et douloureux divorce»6,
che si fa beffa del razionalismo beota di ogni stolto 'professor
Nimbùs':
Mais se touchant le crâne, en criant “J'ai
trouvé”
La bande au professeur Nimbus est arrivée
Qui s'est mise à frapper les cieux d'alignement,
Chasser les Dieux du Firmament
Aujourd'hou ça et là, les gens boivent encore,
Et le feu du nectar fait toujours luire les trognes.7
Georges Brassens ed Albert Camus sono pertanto uomini che
guardano anzitutto dentro il «fondo di malinconia»8
dell'esistenza, dentro la caducità e l'ineluttabilità
del tempo9, che «gioisce
soltanto se fa appassire le vostre rose»10.
Nel contempo, tutti e due non si fermano al foro interiore dell'assurdo,
poiché la loro è soprattutto una bruciante accusa
nei confronti di un certo tipo di società e di determinati
meccanismi politici. È un'insoddisfazione che cresce
e matura a partire dall'amara consapevolezza di essere immersi
in un sistema malato, corrosivo ed avvelenante.
Questa malattia ha - per dirla con Fabrizio De André
- un nome ben preciso: «borghesite»11
ed indica, cioè, un sedentarismo spirituale, un'inerzia
dello spirito, che porta a vivere una «vita da dilettanti»
e da «croquants»12.
Le canzoni di Brassens, nel loro stile irriverente e dissacrante,
sono infatti tutte pervase dalla critica alla cosiddetta «brava
gente», dominata da una morale beghina, da «un perbenismo
interessato e da una dignità fatta di vuoto»13.
Si ha qui a che fare con un gregge di esistenze senza responsabilità,
che soffoca la vera peculiarità dell'essere umano: il
suo atto di rivolta, la sua capacità di dire di “no”
ad una situazione umiliante e svilente:
“Che cos'è un uomo in rivolta? Un uomo che dice
di no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche
un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno
schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica
ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il
contenuto di questo “no”?
Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”,
“fin qui sì, al di là no”, “vai
troppo in là” e anche “c'è un limite
oltre il quale non andrai”.14
Ex-sistere vuol dire dunque rivoltarsi, staccarsi dalla
banalità e dalla serialità dell'essere: elevarsi,
ergersi, mettersi in piedi. Pena la polverizzazione in una biasimevole
ed alienante cosificazione.
In altri termini, per i nostri due Autori, ciò che va
di continuo preservato è la «costante resistenziale»,
perché essere libertari significa, in primis,
riconnettersi con se stessi, riacquisire la propria «centratura»15
e la propria irriducibilità: «Se vuoi che un pensiero
cambi il mondo, prima devi cambiare te stesso» - dice
Camus. Devi, insomma, ritrovarti come Diego, protagonista del
dramma Lo stato d'assedio (1948), il quale - con la strenua
rivendicazione della sua singolarità - riesce ad incrinare
un Sistema totalitario e pestilenziale.
Occorre ricordarsi sempre di Diego e del suo sguardo di libertà,
ma bisogna altresì non dimenticare mai la canzone La
mauvaise herbe16 (1955),
inno libertario ed invito alla non-convergenza; una canzone
che presenta, peraltro, una melodia molto interessante: alla
strofa scandita ironicamente su note solenni, quasi patriottiche,
risponde difatti un ritornello incalzante ed indelebile:
Je suis d'la mauvaise herbe
Braves gens, braves gens
Je pousse en liberté
Dans le jardins mal fréquentés
la la la la la la la la
la la la la la la la la17
Questo ostinato moto di rivolta non deve però degenerare
né in dismisura prevaricatrice, né in un lirismo
autoreferenziale ed egoistico.
Nel primo caso ci si rende schiavi del settarismo di una determinata
Potenza, che - proprio come avvenuto durante il socialismo reale
- si irrigidisce, si dogmatizza e si lascia andare ai clamorosi
messianismi, ai turpi giustificazionismi, dello storicismo.
In nome dell'uomo nuovo, in nome di un futuro edenico da venire,
si commettono nel qui ed ora crimini tremendi, ci si macchia
nel presente di azioni sconcertanti e reazionarie. Scrive, a
tal proposito, Camus: «L'avvenire è il solo tipo
di proprietà che i padroni concedono volentieri agli
schiavi»18.
Dobbiamo - invece di uccidere e morire per produrre l'essere
che non siamo - vivere e far vivere per quello che siamo; invece
di abbandonarci alle mistificanti rose dell'illusione della
Speranza, dobbiamo aderire - con tutte le nostre energie - all'orizzonte
finito del presente e far così davvero nostra la seguente
esclamazione di Brassens: «Domani è subito!»19.
E lo è nella misura in cui il tempo è vissuto
intensamente nell'hic et nunc, senza rimpianti
infernali, senza «occasioni lasciate ad aspettare»20.
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A Georges Brassens abbiamo dedicato
un dossier in “A” 371 (maggio 2012) |
Questa passione libertaria - lo si è rivelato prima -
non deve inoltre esaurirsi neppure in un egoismo ipertrofico
o in un individualismo ebbro di distruzione e gonfio di narcisismo21.
Alla radice della rivolta c'è infatti un moto sovrabbondante22,
che ci fa trascendere e ci fa passare dall' 'io' al 'noi'. Non
si tratta, certo, di rinnegare se stessi e la propria irriducibilità
(sarebbe, questo, un ritorno nella borghesite), bensì
di superare i propri marci interessi, il proprio gretto particolarismo:
“I valori individuali diventano concreti solo a partire
dal momento in cui l'individuo sa di essere poca cosa, ma comunque
qualcosa e dimentica se stesso per affermare nelle sue opere
e nelle sue azioni tutti gli altri individui. Allora, e soltanto
allora, afferma se stesso, se in questa rinuncia sa preservare,
a metà tra la negazione e l'orgoglio, quella parte irriducibile
di sé che simbolizza anche l'esistenza e la dignità
degli altri.23”
Il «noi» non ha, in tal caso, nulla a che fare con
una monolitica setta irreggimentata, poiché si identifica
con i «necessari sforzi collettivi»24
ed implica, invero, la presa d'atto di un compito ineludibile:
«C'è la bellezza e ci sono gli umiliati. Per difficile
che sia l'impresa, vorrei non essere mai infedele né
all'una né all'altra».
La melodia brassensiana-camusiana sembra dunque risolversi in
un unico, meraviglioso, ossimoro finale: quello di essere solitaries,
ma solidaries25. Tutto
si colora così di un tempo nuovo, l'esistere si impregna
di passione e di coraggio, mentre noi finalmente splendiamo
come quei «copains d'abord»26,
la cui sola litanie era «amarsi e stare in compagnia».
Gabriella Putignano
Note
- A. Camus, Ritorno a Tipasa, in L'estate e altri
saggi solari, Bompiani, Milano, 2013, p. 99.
- C. Camus, Mio padre: solitaire, solidaire, in P.
Flores D'Arcais, Camus filosofo dell'avvenire, eBook
di MicroMega/5, p. 14.
- «[Brassens] mi ha dato la possibilità di capire
che si potevano scrivere e cantare delle cose serie, cose
importanti e non soltanto far diventare la canzone una specie
di ipnosi senza senso. Fino a quel momento, [...] la canzone
italiana era semplicemente un momento in cui non dovevi pensare.»,
Io e Brassens. Intervista a Gino Paoli (di Gianfranco
Bravetto), in Georges Brassens. Una cattiva reputazione,
Aracne, Roma, 2007, pp. 67-68.
- F. De André, in Guido Harari (a cura di), Una
goccia di splendore. Un'autobiografia per parole e immagini,
Rizzoli, Milano, 2007, p. 72.
- A. Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 2008,
pp. 9-10.
- G. Brassens, Il n'y a pas d'amour hereux, in Les
amoureux des bancs publics (1954).
- «Ma un'Eureka di più ed ecco che arrivò/Il
professor Nimbùs con tutti i suoi robot/Il quale riordinò
i cieli con le righe/E ne cacciò gli dei e le bighe./Ma
nonostante ciò, le bettole, qua e là,/son piene
di orfanelli beoni ancora oggi», trad. di Salvo Lo Gambo.
G. Brassens, Le Grand Pan, in Les copains d'abord
(1964).
- G. Brassens, Les Passantes, in Fernande (1972).
- Cfr. G. Brassens: «Le temps est un barbare, dans
le genre d'Attila», Les Lilas, in Oncle Archibald
(1957).
- G. Brassens, Marquise (testo di P. Corneille e T.
Bernard), in Le Trompettes de la renommée (1962).
- In un appunto manoscritto De André descrive la borghesite
come un'«infiammazione acuta dello spirito». Cfr.
F. De André, scatola IV/31-111, in Centro studi De
André, presso la Facoltà di Lettere dell'Università
di Siena.
- «I bifolchi». Cfr. G. Brassens, Le croquants,
in Le pornographe (1958).
- F. Guccini, Dio è morto.
- A. Camus, L'uomo in rivolta, Bompiani, Milano, 2008,
p. 17.
- Si veda su questo anche F. Premi, Fabrizio De André,
un'ombra inquieta, Il Margine, Trento, 2009.
- Il termine mauvais/mauvaise, presente anche nelle
canzoni La mauvaise réputation e Le mauvais
sujet repenti, viene in genere tradotto con 'cattivo'
o 'pazzo', ma - come ha scritto Gianfranco Brevetto - andrebbe
reso con 'non conforme'. Cfr. G. Brevetto: «L'aggettivo
mauvais è una scelta di campo, non solo provocatoria,
ma anche di rottura. Una marginalità ed una devianza
che non è mai illegalità.», in Georges
Brassens. Una cattiva reputazione, cit., p. 14.
- «Io son l'erba cattiva,/brava gente, brava gente,/e
cresco in libertà/nelle tue sordide città./La
la la la la la la la/La la la la la la la la.», trad.
di Salvo Lo Gambo. G. Brassens, La mauvaise herbe,
in Chanson pour l'Auvergnat (1955).
- A. Camus, L'uomo in rivolta, cit., p. 214.
- G. Brassens, Le strade che non portano a Roma. Riflessioni
e massime d'un libertario, Coniglio Editore, Roma, 2009.
p. 44.
- G. Brassens, Les Passantes.
- Da questo punto di vista, l'anarchia di Brassens non ha
niente a che vedere con quella di Stirner (almeno per come
essa è intesa da Camus ne L'uomo in rivolta),
cioè con una forma di individualismo violento e distruttivo.
Cfr. A. Camus, L'uomo in rivolta, pp. 73-76.
- Cfr. A. Camus: «[...] la rivolta frange l'essere e
l'aiuta a traboccare. [...] Alla radice della rivolta sta
invece un principio di attività sovrabbondante e di
energia.», L'uomo in rivolta, cit., p. 21.
- A. Camus, Difesa de L'uomo in rivolta, in L'estate
e altri saggi solari, cit., p. 181. Si veda anche quanto
scrive Vito Mancuso: «Per essere autentico devo essere
fedele a me stesso, ma, nello stesso tempo, devo diffidare
di me stesso. Siamo dunque alle prese con una necessaria esigenza
di trascendersi, perché se è vero che non c'è
nulla di più triste di una personalità grigia
che quasi rimpiange di esistere, al contempo non c'è
nulla di più noioso di chi sa parlare solo di sé
in un monotono susseguirsi di io, io, io.», La vita
autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009, p.
110.
- Si legga uno stralcio della celebre intervista rilasciata
da Brassens ad André Sève: «Mi piace il
pensiero solitario, detesto il gregge, ma questo non ha niente
a che vedere con i necessari sforzi collettivi.», G.
Brassens, La mauvaise réputation, in Nanni Svampa
e Mario Mascioli, Brassens. Tutte le canzoni tradotte,
Muzio, Padova, 1991, p. 328.
- Sia Camus che Brassens definivano così se stessi.
- Cfr. G Brassens, Les copains d'abord.
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