Sahrawi
Il paese che non c'è
reportage di Moreno Paulon
Autodeterminazione dei popoli, discorso etnico e il campo minato più lungo del mondo.
Si dice che il diavolo nasconda
la sua coda nei dettagli. Ebbene: a guardare la cartina politica
dell'Africa nord-occidentale, decifrando tutte le linee rette
che i colonialisti, mappe alla mano, hanno tirato col righello
spartendosi terre non loro, si riconoscono a prima vista alcuni
stati, come Tunisia, Algeria, Mali, Marocco, Mauritania. Fin
qui tutte le carte sono concordi. Ma scendendo nei particolari,
se si fa più attenzione e si osserva da vicino la costa
atlantica, si noterà che sul versante meridionale del
Marocco si apre un'intercapedine, un dubbio, una certa zona
grigia. Alcune mappe in questo punto dichiarano un confine incerto,
tratteggiato, che taglia il Marocco dritto in due parti; altre
registrano invece una linea continua; altre ancora non mostrano
alcuna interruzione di superficie ed estendono lo stato marocchino
dal Mediterraneo giù fino alla Mauritania senza soluzione
di continuità.
Fra le fonti che sezionano il Marocco in due, c'è poi
chi non precisa ulteriormente cosa si trovi al di sotto della
riga e c'è chi invece, con più ardire, proclama
un nome: Western Sahara. Ma alla domanda “Che cos'è
il Sahara Occidentale?” molti marocchini rispondono che
“Non c'è nessun Sahara Occidentale, c'è
solo il Marocco”, mentre altri si spingono fino a dire
che “È un'invenzione di quei pazzi dei Sahrawi,
che odiano il Marocco e vogliono l'indipendenza”. Vero
è che una linea immaginaria esiste eccome, e visto che
idee e parole si fanno volentieri cose, a sud di Guelmim, lungo
la strada desertica che conduce verso Assa-Zag, si erge improvvisa
un'enorme frontiera marocchina alle porte del deserto. Poco
oltre la porta, sotto Zag, ecco che la linea si fa tutt'altro
che immaginaria, e a forza di scendere verso Al-Mahbes diventa
un oggetto vero e proprio: il Muro Marocchino, il muro più
lungo del mondo dopo la Grande Muraglia cinese, che separa l'ultimo
baluardo dell'odierno Marocco da un vasto deserto conteso.
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Frontiera del Sahara Occidentale |
Il muro
Il Muro Marocchino è il risultato storico della stratificazione
di otto diversi terrapieni difensivi, costruiti dal Marocco
lungo una linea che supera i 2.720 km di lunghezza e si estende
dal confine algerino sopra Tindouf giù fino al centro
portuale di Guerguerat, a un passo dalla Mauritania. Il muro
di per sé non fa un grande effetto, è una berma
alta sì e no un metro nel bel mezzo di un immenso deserto
di rocce e sabbia. Ad impressionare sono piuttosto i bunker,
le postazioni di controllo ogni 5 km, i 160.000 militari sparsi
lungo la serpentina e il fatto non trascurabile che tutto intorno
alla sua linea, come l'alone di una galassia, siano state sparse
oltre 5 milioni di mine anti-uomo, nota eccellenza made in
Italy. Così, ad entrare nel dettaglio, si scoprono
ben due confini all'interno dello stato marocchino: una frontiera
colossale alle porte del Sahara e una berma immersa nel campo
minato più lungo del mondo, come una spina dorsale che
riposa nel mezzo del deserto. Il re del Marocco nega l'esistenza
di un conflitto, soprattutto armato; ma allora perché
il muro? Chi c'è dietro la parete che mette tanta paura?
Ci sono i Sahrawi, il Polisario, gli indipendentisti del deserto.
E se i re del Marocco tacciono, sono le sabbie a parlare. Il
deserto, simile ai ghiacci, conserva memoria di ogni cosa, porta
pazienza e col tempo restituisce senza rancore ciò che
non gli appartiene. Nell'aprile 2013 otto corpi affiorano dalla
sabbia, li trova un pastore e antropologi forensi iniziano a
studiarli. A settembre il test del DNA e le ricerche di campo
riannodano il filo tagliato: gli otto sahrawi, fra cui due bambini,
erano stati arrestati da una pattuglia marocchina nel 1976,
ufficialmente scomparsi, concretamente freddati con armi da
fuoco e nascosti sbrigativamente sotto un lenzuolo di sabbia.
Sahrawi
Sahrawi significa di per sé genti “del
deserto”, un'etichetta che, vista l'estensione del Sahara
e le mescolanze storiche e culturali dell'Africa nord-occidentale,
indica un po' tutto e niente. Si concorda nell'affermare che
i Sahrawi siano una famiglia mista i cui territori si estendono
dal Sahara al Marocco, alla Mauritania e all'Algeria, ma fuor
di nazioni i gruppi contemporanei sono il prodotto degli incontri
e degli scambi nomadi e millenari fra arabi, berberi, yemeniti
e persino popoli dell'Africa nera, con un nucleo originario
che si fa risalire al XIII secolo ma con ascendenze rintracciabili
fino agli antesignani preislamici dell'VIII a.C. In tempi precoloniali,
tanto i sultani magrebini quanto i dey dell'Algeria ottomana
guardavano alle genti del deserto come popoli dissidenti e ribelli,
anarchici, raminghi e difficili da trattare, un'impressione
condivisa anche dai Mori dell'odierna Mauritania e dall'Impero
Songhai. La letteratura racconta di un dominio incerto e discontinuo
da parte dei governi centralizzati, fatto di influenze saltuarie
e accordi con capiclan carismatici e conniventi, più
che di conquiste e lotte armate per un potere uniforme e capillare
sulla popolazione. Tuttavia, poiché i vocaboli non sono
case ma alberghi per significati in viaggio, l'accezione corrente
del termine sahrawi è difficilmente concepibile
fuori dal panorama delle contestazioni politiche, stataliste
e nazionali del Novecento.
Le prime linee di demarcazione nette tra le famiglie e i loro
territori (il discorso del padrone parlerebbe di “etnie”)
emergono piuttosto con l'intervento dell'uomo bianco, in particolare
con il colonialismo francese e spagnolo. Infatti la maggioranza
dei territori dell'Africa nord-occidentale fu conquistata dalla
Francia della Terza Repubblica, ma anche la Spagna a suo tempo
si prese parte del Marocco: qualche frammento strategico e il
“Sahara spagnolo” (1884-1976), suddiviso in Rio
de Oro e Saguia el-Hamra, che in arabo significa canale rosso.
Allora come oggi, e come sempre, il padrone armato non conquistava
né sottometteva nessuno, figurarsi, ma si qualificava
piuttosto come mecenate del progresso, un generoso esportatore
di civiltà (democrazia) fermo nell'intento di istruire
e ed educare le popolazioni locali, arretrate e incivili (la
Cina raccontava le stesse storie mentre violentava i tibetani).
Così, per non fare la figura degli assassini predatori
e per risolvere qualsiasi dissonanza cognitiva a venire, gli
invasori chiamarono le colonie “protettorati”, che
dovette suonare molto più edificante.
Di fatto, Francia e Spagna si spartirono come al solito le terre
altrui, inventando stati e tassonomie inesistenti prima del
loro arrivo e creando con ciò confini netti fra popolazioni
e famiglie locali, alterandone gli equilibri, gli stili di vita
e le relazioni tradizionali. In più di un'occasione la
resistenza (politica) del neonato Sahara Occidentale si innervò
di assunti religiosi e fu vissuta quale guerra santa, jihad,
contro l'invasore europeo cristiano. Ma dietro la maschera della
fede possiamo leggere un espediente identitario innescato di
fronte alla violazione territoriale, politica e culturale da
parte delle potenze europee, le stesse che poi da canovaccio
accusano le vittime di fanatismo religioso non appena queste
si ribellano. Curiosamente, il famoso Ma al-Aynayn (condottiero
della Jihad del 1904) è oggi celebrato tanto dal Marocco
quanto dal Polisario: per il primo è un simbolo anti-colonialista,
per l'altro uno stemma indipendentista del popolo Sahrawi.
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Nomade nel Sahara Occidentale |
Anticolonialismo Sahrawi
Alcune fonti sostengono che l'astio sahrawi sia cominciato
nel 1975, ma la storia ha radici più remote e discusse.
Il 1975 fu un anno chiave per molte ragioni, tuttavia l'avversione
anticoloniale più popolare risale piuttosto al '34, quando
gli invasori spagnoli presero l'iniziativa di registrare e censire
tutta la popolazione del Sahara Occidentale distribuendo carte
d'identità negli insediamenti locali. Scaturì
così un primo nucleo di resistenza allo sfruttamento
coloniale e ai suoi dispositivi di controllo, che funse da esordio
per le rivendicazioni contemporanee.
Non molto tempo dopo, superata la guerra nel '45, il nord Africa
partorì molti movimenti indipendentisti antieuropei (vale
la pena di ricordare l'impegno dello psichiatra Frantz Fanon,
espulso dalla Francia nel '57 proprio per la sua militanza filoalgerina),
e fra le emergenti coscienze represse c'era anche quella “sahrawi”.
È qui che la popolazione inaugurò il discorso
etnico con propositi politici indipendentisti. La prima apparizione
pubblica di un vero e proprio Fronte di Liberazione, sotto la
guida di Mohammed Bassiri, avvenne nel 1970, e tre anni dopo
nasceva il Polisario (Fronte Popolare di Liberazione di Saguia
el-Hambra e Rio de Oro), inaugurando una guerriglia armata che
durerà fino al 1991. Negli anni Cinquanta il governo
francese concesse l'indipendenza al Marocco settentrionale e
anche la Spagna, un po' in ritardo, si era ormai persuasa che
tirava proprio aria di decolonizzazione. Dopo Tangeri, Tan Tan
e Tarfaya, nel 1969 si risolse di lasciare Sidi Ifni e solo
più tardi, nel 1975, sdoganò anche il Sahara Occidentale.
Per sancire la ritirata, il 14 novembre 1975 Marocco, Spagna
e Mauritania siglarono a Madrid gli Accordi Tripartiti, concordando
fra loro una cospicua buona uscita per la Spagna e la spartizione
delle terre sahariane fra Mauritania e Marocco, il quale, tutto
felice dei territori “recuperati”, intraprese la
Marcia Verde (il colore dell'Islam) su tutto il nuovo suolo
nazionale. Ma c'era qualcun altro che voleva “recuperare”
il Sahara: il Polisario, appunto, che il 27 febbraio 1976 proclamò
la nascita della Repubblica Democratica Araba Saharawi (RASD).
Durante la Marcia Verde circa 300.000 abitanti sahariani fuggirono
in esodo nel deserto fino a sconfinare nell'Algeria, per stabilirsi
nei campi profughi di Tindouf, dove tuttora risiede il governo
in esilio della RASD. Il Fronte Polisario, finanziato ed armato
tanto dall'Algeria quanto da al-Qaddafi (resterà sempre
un mistero perché la stampa italiana l'abbia trasformato
in “Gheddafi”), nel 1979 avanzò guerrigliando
per liberare i territori sahariani contro il Marocco (il quale
credeva di averli appena liberati), raccogliendo i consensi
e le simpatie di una settantina di stati fra Europa, Africa
e Sudamerica. In tutta risposta all'avanzata armata del Polisario,
il re del Marocco incrementò lo sforzo bellico e fra
1981 e 1986 fece costruire il Muro Marocchino, imbottendo la
sabbia circostante di ordigni americani, italiani e francesi
(ma si nega l'esistenza di un conflitto armato) arginando l'espansione
del Polisario (che sostiene di parlare ed agire nell'interesse
di tutti i Sahrawi).
Sollevata l'attenzione internazionale, nel settembre 1988 la
risoluzione n. 621 delle Nazioni Unite avviò un piano
di pace fra Polisario e Marocco. Il Sahara Occidentale è
un'area arida e desertica, ma il sottosuolo è ricco di
solfiti e il mare che ne lambisce la costa è particolarmente
pescoso (l'Europa versa annualmente al re del Marocco circa
400 milioni di euro per diritti di pesca nell'area), e nessuna
delle fazioni, a parte la Mauritania, era disposta a mollare
l'osso. Il 1991 fu l'anno del cessate il fuoco e la risoluzione
UN n. 690 istituì la missione MINURSO, con il proposito
di fermare le violenze e promuovere un referendum “per
l'autodeterminazione del popolo Sahrawi”, poi proseguita
dal piano Baker. La prima data di questo referendum fu fissata
per l'anno successivo, il 1992, ma da allora il re del Marocco
non fa che rinviare l'appuntamento, la cui ultima scadenza era
prevista per lo scorso 14 aprile 2014.
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Strada nel deserto verso Assa-Zag |
Autodeterminazione: luci e ombre
Torniamo al diavolo e alla sua coda nei dettagli. Gli esponenti
del Polisario sostengono di lottare per l'indipendenza “del
popolo Sahrawi” e della loro terra: il Sahara Occidentale.
Questa rivendicazione ci offre l'occasione di indagare alcuni
concetti antropologici e certe prassi del diritto internazionale,
per non cedere il passo agli esotismi, alla fiducia nelle istituzioni
interazionali e al mito del buon selvaggio. Domandiamoci dunque:
dove inizia e dove finisce questo popolo sahrawi? O meglio:
dove inizia e dove finisce un qualsiasi popolo? Si dice “Sahrawi”
credendo di riferirsi ad un tutto omogeneo, e “Polisario”
come sinonimo di “Sahrawi”. Ebbene, a frugare nei
particolari scopriamo che le milizie del Polisario, che parlano
a nome di tutti, non esauriscono affatto “il popolo Sahrawi”
nel suo insieme né le sue volontà dissonanti;
scopriamo anzi che esistono Sahrawi che non ne vogliono sapere
dell'indipendenza del Sahara, altri che odiano il Polisario
per il suo passato di gruppo armato e per le alleanze con al-Qaddafi,
altri ancora vogliono far parte del Marocco (sahrawi marocchini?),
o non vogliono far parte di nessuna nazione (nemmeno quella
che il Polisario vuole formare); vediamo che alcune famiglie
disilluse scappano dai campi di Tindouf per tornare indietro
e addirittura che il segretario in carica del Fronte Polisario,
Mohamed Abdelaziz, è originario di Marrakech e non del
Sahara Occidentale, senza contare che al momento la declamata
democrazia sahrawi è a partito unico.
Analizzando
a lucido la questione, potremmo dire che un'istanza nazionalista
anticoloniale ha assunto, ha incarnato, ha impugnato il discorso
etnico sahrawi per affrancarsi da un governo centrale non appena
l'invasore ha lasciato il campo aperto, o semichiuso. Ma ciò
che è scivoloso, ancora una volta, è proprio l'appiglio
ad un discorso etnico per perseguire un'autonomia politica statalista,
e questo per il semplice fatto che non si danno etnie se non
nelle parole che le affermano. Quella etnica è una prassi,
una costellazione di tratti che si attivano o inibiscono declinandosi
nelle situazioni e nella storia, un'identità performativa,
non una cosa. Non c'è etnia fuori dal discorso etnico
esattamente come non ci sono fatti privi di una narrazione che
li esponga. Pensiamo al miglior Derrida, all'inestimabile valore
della sentenza: il giornalismo non informa sui fatti, o dei
fatti, ma informa i fatti; ed estendiamolo al racconto in
senso lato.
Il racconto manipola, inventa, interpreta e con ciò definisce
i fatti narrandoli (Aristotele docet), per cui non contano
i fatti, ma il convincimento che l'oratore sa suscitare esponendoli.
Allo stesso modo il discorso etnico manipola i tratti etnici
propri e altrui, inventa l'omogeneità identitaria nel
descrivere e circoscrivere un'etnia, la quale viene spesso assemblata
arbitrariamente per genealogia familiare, per appartenenza territoriale
o per semplice opposizione ad un altro gruppo, poiché
ci si conosce solo in relazione a qualcos'altro. I criteri oggettivi
di comunanza “etnica” (lingua, geni, territorio,
psicologia comune...) sono crollati da decenni per svelare il
loro carattere fittizio e situazionale, poiché se esistono
certo geni e DNA che determinano infallibili filiazioni biologiche,
al contrario la storia comune di un popolo si scrive e riscrive
a partire da un “noi” di passaggio (il Marocco,
i Sahrawi, i nomadi arabo-yemeniti potrebbero scrivere la stessa
storia o tre storie diverse); le abitudini comuni cambiano e
così le idee; le lingue si somigliano e si differenziano
persino al loro interno e non c'è tratto che possa descrivere
ineludibilmente un'etnia meglio di quanto si possa fare con
una comunità religiosa o linguistica. I gruppi umani
vivono in un flusso che questi discorsi cercano di congelare,
di fotografare e istituire mediante un linguaggio simbolico.
L'etnia, cioè, si identifica con le parole dei soggetti
che di volta in volta pronunciano un essenzialismo, un “noi
siamo” contro un “loro sono”, con finalità
e contesti particolari, esattamente come con i Sahrawi. L'ineluttabile
identità statale si basa invece su un confine netto e
fuori discussione, sulla sottomissione al monopolio della violenza
e delle leggi e sull'appartenenza definitiva al recinto nazionale
mediante dispositivi biopolitici.
Il progetto del Polisario è di promuovere un brand etnico
per ottenere la sovranità statale. Inoltre, se la reificazione
e le rivendicazioni del discorso etnico assumono rilevanza politica
internazionale per gli stati, è perché la parola
etnia è stata oggettivata e investita di valore
niente meno che dalle Nazioni Unite in una delibera del 18 dicembre
1992, che associata al principio di “Autodeterminazione
dei popoli”, concepito del Capitolo 1 della Carta UN,
apre un percorso di legittimazione per l'indipendenza di un
qualsiasi “noi” locale che desideri emanciparsi
da un dominio, purché questo si presenti in tenuta etnica
e con prospettive statali.
A pensarci bene, non si può negare che l'autodeterminazione
in sé potrebbe anche essere un percorso auspicabile per
la fine degli stati – i sardi o i catalani o il Polisario
ne sarebbero certo felici – ma ci sono degli ostacoli
notevoli: da un lato le istanze progressiste devono vedersela
con i fucili degli stati centralizzati da cui vogliono sottarsi
(prima li ignoreranno, poi quando verranno alle mani li accuseranno
di terrorismo), dall'altro nel panorama militarizzato mondiale
il beneplacito etnico delle UN conta come il due di briscola
senza un esercito a sostenerlo, e infine come si è detto
le prospettive etniche appoggiate dall'unione degli stati UN
non possono che essere ancora rivolte verso un nuovo stato (con
l'interessante eccezione dei curdi). Che le alleanze giuste
facciano la differenza non è certo un segreto, le larghe
intese fra i discorsi etnicizzati e uno Stato forte sono garanzia
di tolleranza persino di fronte alla violenza più spudorata
(Israele non fu forse tollerato soprattutto perché gli
Stati Uniti ne auspicavano la fondazione in Palestina fin dal
1922?).
Insomma si ricorre alle rivendicazioni etniche perché
queste sono ancora le coordinate del discorso del padrone, delle
regole dettate in casa d'altri, e ci si attacca alla terra perché,
a differenza della fluidità del discorso etnico, questa
rappresenta un ancoraggio universalmente riconosciuto dagli
stati alle cui porte si va elemosinando attenzione. Ci si lega
alla terra per non essere assorbiti, integrati, per dare garanzie
di stabilità, perché la patria tascabile della
Bibbia, che è stata la sola casa degli ebrei fino al
'48, non bastava: serviva proprio la terra, promessa da Dio
e mantenuta dall'ONU (memento: nessuna delle infinite risoluzioni
UN sulla questione fu emanata ai sensi dell'articolo 7, quello
che innesca azioni coercitive contro le aggressioni, ma piuttosto
ai sensi del blando articolo 6, che prevede un dito indice che
oscilla e dice “birbantelli voi”). Ma se la differenza
fra un territorio occupato e uno stato, fra lotta terrorista
e violenza legittima, fra un branco di sfollati e un gruppo
di cittadini riposa sull'approvazione da parte dell'esterno,
allora è chiaro che gli aghi della bilancia nell'autodeterminazione
dei popoli restano il senso di colpa dell'Occidente, l'alleanza
con un potente o gli scheletri nell'armadio della storia.
Quindi, deposte le armi, quali sono gli strumenti concreti in
mano ad una minoranza che desideri autonomia da un governo centrale?
Si parla, si scrive, si legifera molto a proposito del diritto
di un popolo all'autodeterminazione, a disporre delle proprie
risorse, a definire il proprio territorio e regime politico;
ma allo stesso tempo l'enfasi posta sul concetto di “popolo”
manca di un correlativo oggettivo tanto nella prassi quotidiana
quanto nel diritto internazionale, che conosce soltanto gli
stati come suoi soggetti. Si spingono così i movimenti
autonomisti a pensarsi quali futuri stati. Inoltre, posto che
il diritto all'autodeterminazione di una minoranza lede la sovranità
dello stato da cui questa intende separarsi, quale nazione sarebbe
disposta a concedere l'indipendenza a tutte le minoranze religiose,
linguistiche, “etniche” di cui è formata?
Sarebbe la fine degli stati costituiti. Senza contare che, come
nell'esempio marocchino-sahrawi, il processo di unificazione
e identità (sempre fittizia, fatta di parole e generalizzazioni)
esclude i soggetti che pur considerandosi sahrawi non vogliono
l'indipendenza politico-territoriale, poiché il Polisario
dà per scontato l'allineamento delle loro intenzioni
(etniche?) con le volontà (etniche?) del Fronte. Siamo
ancora di fronte ad una maggioranza che si impone su una minoranza,
il canto del cigno dello stato-nazione.
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Uno scorcio del deserto roccioso |
Pensare oltre
Per inaugurare una concreta autodeterminazione delle persone,
dentro e fuori dai gruppi, occorre forse iniziare a pensare
oltre i popoli, fuori delle coordinate cognitive delle etnie,
delle nazioni, degli stati, delle famiglie, delle classi, delle
comunità religiose per come esse sono state tramandate.
Perché tutte queste omogeneità, osservate al microscopio,
poggiano i piedi sul nulla. Basta che un hmong laotiano
faccia un figlio con un'argentina di Buenos Aires a Oslo per
mettere in crisi qualsiasi identità etnica. C'è
senz'altro tanto da scoprire e da imparare nel considerare come
soggetti del diritto, della vita politica e degli aggregati
umani, singole e divergenti volontà da rispettare,
da armonizzare, da incoraggiare in un universo di differenze
globali, piuttosto che incoraggiare identità fittizie
volte a legittimare questo o quell'abuso di potere istituzionalizzato.
Occorre sconfiggere il desiderio stesso dell'identità,
la nostalgia di identità, a meno che non si tratti di
una comunione di intenti e di singole volontà.
Perché i muri cominciano nella nostra mente e qualsiasi
identità porta con sé il confine, l'altro e l'Altro,
e se non il Muro più lungo del mondo, di certo il più
alto e profondo.
Insomma, afferrato il diavolo per la coda, forse dopo aver subito
tante violazioni dei diritti umani il Polisario otterrà
il suo stato, forse no, ma un dubbio rimane: siamo certi che
inventare e sostenere un'essenza, una qualità identitaria,
la finzione verbale e ideale di unità (etnica, linguistica,
razziale, storica, culturale) sia la strada verso l'emancipazione
e l'indipendenza dell'uomo, prima ancora che del cittadino?
Non sarebbe ora di sviluppare piuttosto una cittadinanza internazionale
che mettesse in crisi gli abusi e ai soprusi degli stati-nazione,
la loro sovranità a confine, prefigurando il loro superamento?
Moreno Paulon
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