Il paese inesistente
Stamattina, tra i banchi del
mercato del paese di mare dove son nata e dove non vivo, ho
avuto un'esperienza illuminante sulla natura della globalizzazione
che orienta il lento processo di nascita di una mitica Europa
Unita senza confini.
Dovevo comprare una canottiera per la mia madre novantenne (impresa
complessa poiché la veneranda signora ha idee molto chiare
su quel che vuole e una comprensibile difficoltà a raggiungere
l'obiettivo con le sue gambette). Il venditore, un simpatico
Gabibbo in borghese, dopo avermi rimbambita di chiacchiere sulle
82 opzioni possibili, ha concluso la carrellata di prodotti
di ogni combinazione pensabile di materiali infilandomi in mano
la “madre di tutte le canottiere“, l'“intimo
definitivo“, l'acquisto irrinunciabile, spiegandomi con
enfasi che «Questo è garantito italiano».
Sulla scatola, c'era un tricolore in bella evidenza, con a fianco
una dichiarazione di appartenenza, espressa in versi da J-Ax,
che per i contenuti ricordava i tempi gloriosi di Garibaldi,
e Mazzini, e l'Unità d'Italia.
Non
era pazzo, il Gabibbo domestico, e non era neanche un caso strano.
Ho girato il mercato in cerca di altre testimonianze di questo
tipo. Ne ho trovate a bizzeffe, ma non volevo comunque rassegnarmi
a questo insano provincialismo. Alla fine, mi sono arresa quando
anche un venditore nordafricano, con un italiano stentato, mi
ha proposto come irrinunciabile un articolo che stavo guardando
perché «Tutto Italia, signora».
Ne ho dovuto concludere che non avevo capito nulla. Non avevo
capito quanto stesse diventando forte e radicata la necessità
di rivendicarsi, nel pensare comune, come parte di un paese,
membri di diritto di una cultura, esponenti purosangue di una
etnia che non vuole essere né europea né globalizzata,
ma che invece trova nell'essere italiana – e nel prodotto
di questa italianitudine – una rassicurazione tradizionale
durissima a morire.
E questo anche in un momento in cui gli intellettuali e non
solo quelli si vergognano mediamente di stare in questo paese,
e i giovani vanno a cercare da lavorare altrove, e gli scrittori,
i musici e gli artisti tutti – a meno che non siano completamente
cretini – si accorgono che il mondo della cultura sta
rotolando, e i professori di università o vanno in pensione
oppure sarà meglio che imparino il cinese, perché
di quella lingua è l'economia del futuro.
Insomma, in tutto questo casino, al mercato che un prodotto
sia italiano è una referenza irrinunciabile. La gente
semplice, in qualche modo, ancora ci crede, coccolando l'idea
di questa profonda, benestante, rassicurante italianitudine
che vogliamo pensare sia ancora qui, con noi, a tenerci compagnia.
Ci ho riflettutto e credo che questa crisi recente, questa specie
di tracollo inconsapevole dal quale l'ineffabile renziana politica
si vanta di starci tirando fuori, ha accentuato i due regimi
di pensiero, del tutto separati, che caratterizzano il nostro
paese. La spaccatura si è fatta più acuta e sostanziale,
rendendo ancora più evidente il modo in cui ci sia una
parte della nazione che vive in un paese di fantasia, nel quale
coltiva una serie di interessi immaginari – politici,
culturali, artistici, letterari – che nulla hanno a che
vedere col paese reale.
Entrate in una libreria e provate a vedere quanti dei successi
letterari italiani del momento affrontano questioni vagamente
spinose, sbilanciandosi addirittura a usare uno stile, magari,
persino impegnativo. Guardate quanti politici sono in grado
di parlare con competenza, per averla conosciuta, delle categorie
professionali che vantano di rappresentare. Mi ricordo bene,
ad esempio, una breve intervista di qualche anno fa a Occhetto,
già in pensione eppure, a sentire i giornalisti, fruitore
di un ufficio in centro a Roma, ad affitto bassissimo o nullo,
che nella sostanza e con autentica meraviglia, chiedeva alla
giornalista: «Ma perché, lei non crede che me lo
sia meritato, questo ufficio?».
All'epoca io avevo pensato: “Ma tu proprio non hai idea.
Proprio non lo sai come vive la gente normale. E dovresti essere
stato tu il rappresentante principale di quella gente“.
C'è poi un'altra parte di paese che fatica a vivere,
si arrabatta, magari si suicida a 40 anni perché non
trova un lavoro, magari rovista negli avanzi dopo il mercato
perché la pensione non gli basta a comprarsi da mangiare
di prima mano. Ora, questa parte del paese però –
e qui arriva la cosa bizzarra – invece di indignarsi e
strillare che la dignità è un diritto, che fa?
Cerca di imparare le regole della truffa da chi è ricco.
Ne ammira l'abilità. Se ne fa emulo ed elettore. Vorrebbe,
cioè, essere al posto del ricco – sia esso Berlusconi,
Briatore, Valentino Rossi, ma in fondo anche Grillo e i suoi
fratelli, che indigenti non sono. E dunque li vota, li sostiene,
li aiuta a scalare posti nel mondo politico o nell'opinione
pubblica – che poi alla fine è la stessa cosa –
tranne poi scoprire che le promesse son state tradite, le parole
date non mantenute, e la consueta distanza tra il principe e
il povero è stata, fatalmente e inequivocabilmente, resa
eterna.
Sono due paesi diversi, e ognuno va per la sua strada. Il varco
si allarga, la libertà non appartiene a nessuno, e non
è neanche contemplata come possibilità, a meno
che essa non si faccia forzatamente coincidere con l'atarattica
indifferenza a tutto quel che non si può cambiare.
Tra i due mondi, restano quelli come me i non adatti, intrappolati
nella terra di nessuno che è il buonsenso, con due canottiere
fabbricate in Italia. Qualunque cosa essa sia.
Nicoletta Vallorani
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