persone
Racconti a margine
di Gian Paolo Galasi
I trascorsi, le paure e i sogni di chi vive ai bordi della società.
Sette storie non convenzionali, per capire meglio cosa significa essere esclusi.
“Mainstream” è una parola inglese che in diversi campi delle arti e della cultura indica una corrente più tradizionale e convenzionale, che beneficia di un seguito di massa in contrapposizione alle tendenze minoritarie. Può avere significato positivo o negativo a seconda dei contesti. Considero questa serie di racconti “non-mainstream” perché nessuna delle persone da me narrate fa parte di una specifica sottocultura produttrice di propri valori. Senzatetto, alcoolizzati, malati psichiatrici, piccoli spacciatori, persone che vivono una vita “normale” seppure segnata da lutti personali e da proprie passioni artistiche prive di risvolti commerciali hanno una cosa in comune: vivono almeno una parte della loro vita in una “terra” che non è contemplata, vissuta, scelta e “parlata” dalla gente “normale” o “normata” (nessuno sceglierebbe di vivere senza casa). Non esiste una forma di pubblicità con target piccoli spacciatori, così come non esiste una pubblicità dedicata agli psicofarmaci. Anche una pittrice non ha modelli di merchandising di riferimento – pensate a trasmissioni televisive all'interno delle quali parlare dei piccoli imprenditori o dei lavoratori metalmeccanici, oppure pensate agli hamburger con l'incarto arcobaleno.
Esistono associazioni di alcoolisti anonimi, di self-help, ma non esistono associazioni attraverso le quali un alcoolista rivendichi una propria coscienza e dei propri controvalori come avviene ad esempio per la comunità LGBTQI. Se esistono persone prive di dimora che occupano uno stabile o un appartamento esse non si fanno portatrici di controvalori come i ragazzi che occupano i centri sociali, pur condividendo magari la stessa opinione sull'edilizia popolare o certe politiche urbanistiche. Ecco quindi che la mia scelta è caduta su soggetti che potrebbero formare una categoria di sottocultura o agire come fossero una sottocultura ma che, per un motivo o per l'altro, non hanno ancora creato tale tipo di struttura identitaria né tantomeno una prassi.
Soggetti eccezionalmente singolari
Si tratta quindi di soggetti eccezionalmente singolari, la cui singolarità può dirci forse qualcosa sulla socialità e sulla condivisione da cui si trovano a essere esclusi, sulle dinamiche di inclusione/esclusione stesse, e magari sulla “essenza” della socialità, oltre che sul che cosa voglia dire essere “marginali”. Inizio con Leonardo, perché nella breve intervista che mi concede è proprio la narrazione a essere “non-mainstream”. La sua non è una narrazione lineare, mancano spesso i nessi di causa ed effetto. Leonardo è un senza fissa dimora dal 1990, con problemi di abuso di eroina e altre sostanze. Inizia a vivere per strada perché non riesce a pagare le spese di condominio, e decide quindi di affittare la sua casa di Muggiò tenendo per sé una stanza. Alla domanda “Come hai fatto a finire a vivere per strada?” risponde con “Mi sentivo abbandonato... appena mi son trovato qui a Milano io mi mangiavo fuori tutti i soldi, però ho cominciato a ragionare”. E alla mia domanda sul come si fosse trovato in strada nonostante l'accordo preso con le persone cui aveva dato in affitto la casa, risponde con un “Io mi son trovato perso, andavo dal prete che mi dava un panino congelato”. Per Leonardo probabilmente singoli episodi di sofferenza o la percezione del perdersi sono più concrete che non una narrazione linguistica, che è una costruzione di senso e avviene ex post, come ci fa capire Victor Turner nel suo “Dal rito al teatro” quando parla di “circolo ermeneutico dell'esperienza”. Il sé, la percezione della propria continuità interiore, si sviluppa solo nell'attraversare la realtà in qualità di performer. Essere performer significa recitare, ovvero agire a partire da dei parametri identitari dati, come se si fosse un personaggio, aderendo a un copione. Saltate queste coordinate, che per Leonardo potrebbero essere le variabili casa-lavoro-affetti, anche la narrazione diventa non lineare, saltano quindi anche le catene di causa ed effetto in un ipotetico o reale racconto.
Leonardo ad esempio mi dice di essersi liberato dall'uso di cocaina ed eroina tramite il metadone, ma nello stesso tempo mi dice di “aver smesso di punto in bianco”, tanto che, continuando a frequentare “i tossici”, li prendeva bonariamente in giro per le eventuali reazioni dovute alla lontananza da certe sostanze. La sua narrazione del rapporto con la droga esce dalla narrazione consueta fatta di assunzione, crisi di astinenza, necessità di drogarsi di nuovo, eventuali cadute in situazioni di illegalità, che sono i discorsi comuni sulla droga. Quella di Leonardo non è una vera e propria contronarrazione, non si fa una narrazione che smonta un discorso preesistente sulle sostanze stupefacenti, ma si costruisce attorno a dei particolari che fanno parte della sua storia individuale e che in alcuni punti (la facilità del suo liberarsi dalle droghe) potrebbero dare vita a una contronarrazione. Che tipo di persona è dunque Leonardo?
Senza fissa dimora
Una persona che ha dormito per molti anni per strada, che ruotava attorno alla Stazione Centrale e a Piazza Duomo a Milano pur avendo una casa a Muggiò per la quale sta aspettando si risolva un contenzioso legale col fratello, che ha passato dei periodi vivendo in comunità o da dei parenti, fino a quando non inizia a frequentare l'associazione Cena dell'Amicizia, che organizza la cena del martedì sera, dove i senzatetto possono socializzare, che ha dei dormitori e che offre a Leonardo assistenza legale, e che coltiva il sogno di lavorare come falegname, attività che per ora svolge come volontario. Le persone che ha frequentato sono: “tossici”, sia a Muggiò che a Milano, e i volontari di varie associazioni che si occupano di persone senza fissa dimora incontrati magari di notte per la strada. Vive della sua piccola pensione, con la quale si procura il cibo e le sigarette. I nessi lineari di narrazione, con Leonardo, saltano. Probabilmente i tempi per il procedimento legale fanno sì che quando intervisto Leonardo ci troviamo dunque in un tempo di “sospensione”, di attesa. Tempi di passività, dove una performance cui ancorare un copione, una narrazione, è impossibile.
Dopo aver parlato con Leonardo passo un po' di tempo con due ragazze della associazione Cena dell'Amicizia, e parlo con loro di Weiner Moltheni, il fondatore di “Clochard alla riscossa”, associazione responsabile dell'occupazione di un edificio di Sesto San Giovanni, da anni abbandonato anche se di proprietà di un privato, che secondo Moltheni era lasciato ad uso speculativo, poi richiesto dai proprietari immediatamente dopo l'occupazione con tanto di denuncia e sgombero.
Persone ancora complete
Le ragazze mi spiegano che per persone che magari soffrono anche di un disturbo psichiatrico è difficile in generale organizzarsi in questo modo, ma mi rimane in bocca, oltre al sapore del pranzo che condividiamo con ospiti di Cena, anche quello di un racconto che mi lascia il senso di una “alterità” non cooptabile, a partire da quello della narrazione delle proprie vicende. Qualcosa, socialmente, si sta forse muovendo in senso mutualistico, ma non è così dappertutto e si tratta ancora di casi isolati. Questo senso di “alterità” sarà proiettato su alcuni degli incontri successivi, lasciandomi con la sensazione di avere a che fare con soggetti privi di un mercato di riferimento, di una loro identità, di parole condivise. State leggendo storie “crude”, come direbbe Lévi-Strauss. Persone che non sono ancora passate per il fuoco, che non sono state ancora plasmate per acquisire una determinata forma sociale. Freud avrebbe parlato di persone cui manca la castrazione, ovvero persone ancora “complete” cui manca il vuoto attorno al quale si costruisce il senso. Discorsi che fanno tilt. Pensereste mai, infatti, che un senzatetto ha qualcosa in più di voi? E potrebbero queste persone costruire una “società alternativa”, un'altra idea di società, a partire dai loro bisogni spesso socialmente disattesi? E se sì, perché non lo fanno? È solo una questione di patologia?
Il secondo soggetto che incontro si chiama Livio, e con lui la narrazione è molto più a fuoco. Livio ha 58 anni, ha lavorato per l'IBM girando il mondo, è stato insegnante di fisica ed ha lavorato per il Consiglio Nazionale delle Ricerche. È invalido dal 2000 a causa di un disturbo bipolare, anche se la prima crisi dissociativa acuta arriva nel 1988. In questi anni oltre che con la sua pensione si mantiene tramite lezioni private di musica: accompagnando con la chitarra la sua ex compagna Livio ha suonato in diversi locali, pur senza fare mai il “gran salto” nel mondo dello spettacolo, ed è anche pittore. Mi lascia inizialmente perplesso il fatto che nel raccontarmi di sé la prima cosa che Livio mi presenta è un elenco lunghissimo di farmaci, mentre solo verso la fine dell'intervista riesco a farlo parlare della sua arte e delle sue influenze come musicista. Ma Livio è prezioso sopratutto perché, in quanto fisico e ricercatore, mi fa il nome di Giovanni Degli Antoni, che dal 1977 al 1985 è stato direttore dell'Istituto di Cibernetica, che sotto la sua direzione è diventato Dipartimento di Scienze dell'Informazione; quella spinta all'innovazione oramai in Italia non esiste più. “È l'Italietta, l'Italietta di Giolitti” mi dice Livio, un Paese che ha smesso di fare ricerca ad alto livello mentre Stati Uniti per la chimica e Inghilterra per l'economia continuano ad aggiudicarsi premi Nobel. “Quel mondo è caduto”, mi dice. Se penso alla Fisica, penso al mondo così ben descritto da Leonardo Sciascia ne “La Scomparsa di Majorana”. Un mondo dove le scoperte scientifiche andavano di pari passo con un sentimento “oscuro”, un certo senso della propria finitezza e mortalità, che a leggere Sciascia sembra quasi discendere direttamente dalla tragedia greca e che, nel mondo di oggi, anche nel mondo letterario, sembra non esistere più.
Ho letto quel libro di Sciascia nel 1989, ai tempi del liceo, e la mia chiacchierata con Livio me lo ha fatto ricordare. Questo incontro assieme ai miei ricordi mi ha dato un'altra chiave di lettura. Il disturbo bipolare di cui Livio soffre in passato era conosciuto come psicosi maniaco-depressiva. Cesare Lombroso e altri studiosi avevano parlato di una vicinanza del genio alla follia, dato che personaggi come Nietzsche, Wagner, Van Gogh e Beethoven ne soffrivano. Ognuno di questi personaggi può colpire la nostra fantasia e sensibilità. Io ho avuto una particolare attenzione ad alcuni scritti di Nietsche, come la sua “Nascita della Tragedia”, e ai quadri di Van Gogh. Posso dire che oggi nessun artista o pensatore mi colpisce tanto quanto questi due nomi. Anche Livio, con la sua passione per Leo Kottke o Django Reinhardt, per la fisica, l'insegnamento, la pittura, mi è sembrato in un certo senso una figura riemersa da un lontano passato. Per certi aspetti schiacciato dalla sua malattia – i suoi medici dopo dodici anni di cure hanno preferito consentirgli di ottenere un piccolo emolumento per vivere esonerandolo dal lavoro – ma nello stesso tempo più forte di essa, mi ha aperto uno squarcio reale su un mondo che almeno qui, in Italia, non esiste più.
Ma anche se è forse impossibile stabilire con certezza che Nietsche avesse avuto, tramite i propri problemi personali, uno strumento potente per avere intuizioni su un concetto come quello di dionisiaco, nello stesso tempo è innegabile che oggi, come scriveva più di cinquant'anni fa Ernesto de Martino parlando del fenomeno della “taranta”, certi sintomi ci appaiono come cifrati, chiusi. L'unica direzione possibile è quella della cura medica, della chimica. E se tutto questo può comunque risultarci in qualche modo asettico, neutrale, il fatto di non avere più la possibilità di servirsi di un sintomo come fosse una bussola per aprirci al nostro mondo interiore mi ha dato il senso anche del “vuoto” che ho provato parlando con Leonardo. Anche il girovagare senza casa in fondo per secoli è stato percepito come corrispondente a un fatto metafisico, come nel mito dell'Ebreo errante, ma oggi non abbiamo più strumenti per stabilire un ponte tra il mondo delle idee e il mondo reale, tra il mondo degli integrati e il mondo dei dis-integrati. C'è veramente solo l'inclusione o l'esclusione da un mercato a definirci? Ci rimane davvero solo questo?
Questa frattura è anche più forte se prendiamo in considerazione altri soggetti da me incontrati per realizzare questo servizio. Penso ad esempio a Michela, una donna di 44 anni con problemi di alcoolismo e anoressia. Michela ha attraversato diverse comunità. All'età di 18 anni inizia a voler essere come Claudia Schiffer, e in poco tempo arriva a pesare 25 chili. “Ero più morta che viva” mi dice. “L'alcolismo è iniziato poco dopo l'anoressia, bevevo per riempirmi lo stomaco”. A nulla servono gli studi come corrispondente in lingue estere prima e di filosofia poi, e il lavoro in uno studio medico. Viene ricoverata in una struttura pubblica dai genitori, dove in pratica, a quanto mi racconta, non facevano altro che riempirla di cibo, che lei prontamente vomitava non appena possibile. Ogni tanto parlava con una psichiatra, e poi c'erano degli incontri dove venivano spiegati in teoria i legami tra anoressia e disturbi affettivi. Ma di base la terapia era: mangiate. Pensate a quello che scrivevo prima, a cosa significa per un essere umano rifiutare il cibo, bere alcool e sentirsi dire dallo psicologo: hai problemi con la mamma. Qualcuno ricorda quello che scriveva Gilles Deleuze a proposito del bere? Quel gioco d'azzardo e di fino con l'ultimo bicchiere? Da quando e perché esiste nel nostro mondo questa barriera, questa incomunicabilità del sintomo col suo relativo sapere?
Conoscenza non convenzionale
Ecco, l'essere “non-mainstream” di Michela era come bloccato in questa non comunicabilità, in questo non ricevere, informazioni, cure, quello che noi chiameremmo affetto. Ora Michela è diventata vegetariana, “e questo mi aiuta molto” dice, “perché posso decidere cosa mangiare, quante proteine ingerire, ho più controllo”. Michela ha creato un proprio sapere, una propria forma di conoscenza di sé che le dà il senso del proprio essere, e che le dà un ordine rispetto ai propri disturbi. Lo ha scoperto da sola. È anche astemia da un anno, da quando ha iniziato a frequentare gli Alcolisti Anonimi.
Ma un percorso simile a quello di Michela, coronato da un relativo successo perché le relazioni famigliari sono ancora difficili, è quello di Ciro. Ciro di anni ne ha 52, era un imprenditore che si occupava fino al 2006 della distribuzione dei farmaci in Lombardia. “Avevo ventidue autisti che dovevano essere molto puntuali alla consegna. Io ero il supervisore. Poi è sopraggiunta la separazione, io lavoravo tanto, era un vortice, non mi lasciava mai del tempo libero. Ero sempre all'erta per paura che qualche furgone si fermasse per strada, nel qual caso avrei dovuto chiamare un autista al volo per fare degli spostamenti; soffrendo di agorafobia era già da un pezzo che non guidavo più, era mia moglie a fare questi servizi. Poi mia moglie ha chiesto la separazione, è stato un processo lungo ma io non so ancora il motivo per cui si è separata da me”. Qualcosa si spezza quando la moglie di Ciro perde il padre, quattro anni prima, e lei col tempo si rende conto di non riuscire più ad amare. Ha perso anche i rapporti con una delle due figlie, che non sente più da cinque anni, mentre con l'altra ha comunque delle difficoltà. Ciro per un po' di tempo annega nell'alcool i propri problemi, ma arriva a gesti di autolesionismo e a soffrire di allucinazioni.
Entra ed esce da diverse strutture, alcune delle quali ricordano quella in cui era ricoverata Michela. Posti situati magari in montagna, isolati, dove quindi la tentazione di andare in un bar è una condizione che non si può verificare. Ma mi chiedo se sia una vera terapia questa, se invece non sarebbe meglio dotare Ciro e Michela di un sapere su di sé. Ora entrambi vivono temporaneamente in una comunità dove quasi ogni sera possono parlare con uno psicologo se vogliono, e progettano una “residenzialità leggera”, ovvero la possibilità di convivere con persone con storie simili alle loro in uno spazio dove farsi da mangiare autonomamente, e dove avere una vita simile a quella che avevano prima. Anche le difficoltà di Ciro a comunicare con la figlia più giovane vengono accolte da parte di chi ora si sta prendendo cura di lui. Ma prima, Ciro mi racconta di essere stato in posti dove il duro lavoro e l'isolamento erano le medicine per allontanare i demoni dell'alcool e le derive esistenziali alle quali, da quanto mi racconta, nessuno comunque prestava ascolto. “Lì - mi parla di una comunità in cui è stato per un po' di tempo - dovevi chiedere il permesso per sederti quando lavoravi, facevi lavori di pulizie in casa e nel parco, non potevi alzarti da tavola mentre mangiavi. [...] Dovevamo pulire la cucina a fondo. Alle due il responsabile che girava ogni settimana andava a controllare, se c'erano anche dei piccoli aloni sulle maniglie del frigo ti mettevano in punizione. Alla sera ci mettevamo in cerchio a fare delazione su cosa avevano sbagliato i compagni, lo chiamavano “mettersi in verità”, e dovevi dire ad esempio se avevi visto qualcuno fumare di nascosto”.
Ubbidienza e controllo
Né Ciro né Michela mi hanno parlato di abusi o violenze subite in queste situazioni, ma parlando con loro ho avuto la sensazione che per tanti anni si sia tentato esclusivamente di ancorarli con l'ubbidienza invece che sollecitare la loro intelligenza a cercare di capire come riprendere il controllo della propria vita. L'altro di Michela e Ciro, l'altro che cura, il “maggiore” che tramite il discorso veicola un sapere attraverso il quale nominare e dare un senso a un percorso umano “minore”, il linguaggio stesso, spesso è stato silente, esclusivamente normativo, non ha provato a risvegliare barlumi di soggettività e consapevolezza, non è stato corroborante o irrobustente. Anche se non è stato violento – mentre li intervisto in televisione si parla di abusi ai minori in alcune comunità per adolescenti del centro Italia però – non si è relazionato a loro in un regime di scambio simbolico. Ancora più illuminante è il caso di Elena. Trentanovenne, un passato lavorativo nel settore della moda – “facevo la buyer, mettevo i capi di abbigliamento in Times Square e Piccadilly Circus, lavoravo per Gucci e Armani, [...] andavo in showroom, sceglievo i capi, mandavo mail, sceglievo le collezioni” – Elena ha avuto problemi con l'alcool e con la cocaina. Mi dice che, finito il periodo che sta trascorrendo in comunità, le piacerebbe tornare a lavorare, “ma non in ambito di moda, perché non mi piace quel tipo di vita, se vado lì ci ricado”. Parliamo un po' di quel settore, delle persone che ci lavorano, e mi dice “secondo me ci sono dentro [parla della cocaina], è che io mi ero stancata, io ho detto basta, loro no. Solo che è molto difficile smettere”.
Eppure del mondo della moda a Elena piace “tutto, tutto quello che è la moda, i servizi fotografici, i vestiti, le scarpe, le scelte, il poter parlare in inglese, in francese, avere questo approccio con le altre persone, lavorare con quello che ho studiato”. Ma “non è pulito quell'ambiente. Se vado a lavorare in uno showroom per sei mesi, oppure in un negozio di abbigliamento, la scelta sarebbe quella [intende tornare ad assumere sostanze]. Il problema è che il sabato io voglio andare a trovare mia figlia”. Pulita, vuol dire Elena.
Il significato sociale delle dipendenze
Parlo di lei con un mio amico che di professione fa lo psicanalista. Col suo fare enfatico, che ogni tanto me lo rende un po' inviso anche se ci conosciamo da più di dieci anni, mi dice “quello che vuole dire Elena è che deve centrare il suo problema soggettivo con la droga, perchè dire che tutti nell'ambiente della moda si drogano, beh anche i musicisti si drogano tutti allora... certo, ci saranno anche quelli che si drogano, ma non sono tutti così”. Una psichiatra che invece lavora nel servizio pubblico al riguardo mi dice “no, è che in quell'ambiente si drogano tutti, tu potresti anche andare a intervistarli e ti direbbero magari di no, ma è un problema risaputo”. Io ovviamente non ho strumenti per dirvi dove sta la verità, non ho contatti diretti con quel mondo. Volevo però sottoporvi questi dialoghi incrociati sul soggetto Elena in modo da farvi immaginare quanto un eventuale approccio terapeutico potrebbe cambiare se Elena si trovasse di fronte a un terapeuta che la esorta a scovare il nocciolo del suo problema soggettivo con le droghe piuttosto che di fronte a un terapeuta che invece considera il suo problema condiviso con un determinato ambiente sociale o lavorativo, fermo restando che dalla soggettività dobbiamo passarci tutti, e fermo restando che a me inquieta vivere in un mondo dove se anche hai un problema di tossicodipendenza ma socialmente reggi, nessuno ti dice nulla – perchè allora il problema per chi non regge non è la tossicodipendenza, anche se poi viene emarginato “ufficialmente” per quel motivo. Io onestamente non so dirvi quale dei due approcci sia quello migliore, sta di fatto che entrambe le narrazioni prescindono da Elena e raccontano la sua storia in base a un approccio differente nei confronti del suo ambiente di lavoro.
È difficile da questi elementi scoprire una “verità” su Elena. Che ora sta bene, voglio tranquillizzare i lettori su questo punto. Ma sta di fatto che, per star bene, deve stare lontana da un lavoro che, comunque, ama. Una ragazza che fa la modella, anche se non nel settore fashion, mi scriveva ieri sera su Facebook che “ci sono tante cose che mi piacerebbe fare, ma purtroppo non mi fanno né mangiare, né pagare le bollette. Quindi nel mio piccolo strozzo sul nascere quello che mi cresce dentro e cerco di sopravvivere”. Mentre ancora questa primavera in televisione vedevo dibattiti sulle droghe leggere e la loro depenalizzazione per problemi di sovraffollamento delle carceri, devo notare che per questa uccisione delle idee e dei moti dell'anima non c'è un discorso condiviso socialmente. Non ci sono parole. E mi è venuta in mente quella scena di “Les Baisers de Secours” di Philippe Garrel dove una attrice dice al suo regista “tu non accetti di essere amato”. Certo, se sono costretto a far fuori una parte di me, difficilmente accetterò di essere amato monco. E se fosse proprio questo il motivo per cui Elena a un certo punto ha smesso di funzionare? Non so onestamente se a chi legge i miei passaggi mentali sembreranno astrusi, poco lineari, io vorrei però sottolineare che se non esiste un linguaggio e quindi un sapere condiviso per parlare di certe situazioni, ognuno di noi vi si avvicina come può, con un uso di metafore, similitudini, approssimazioni linguistiche o di senso che in un certo modo ci permettono di parlare di quanto può essere lungo il viaggio per incontrarci. Se esiste un fenomeno come l'emarginazione sociale, è proprio perché certe situazioni sono difficili per i più da “immaginare” innanzitutto, e spesso dover lottare contro l'emarginazione richiede una buona dose di creatività e fantasia. Del resto di cocaina non si parla molto, al contrario di quanto si fa con altri tipi di droghe. Forse perché certe situazioni e certi soggetti si è deciso di proteggerli, quando si divertono.
“Non si tratta di degrado urbano”
Intanto, il sabato sera, quando non esco, ho inizato a seguire le differite degli incontri di boxe che danno in televisione. Ve lo scrivo perché ogni tanto mentre guardo quegli incontri penso a Davide. Un giovane aspirante peso Welter che in questo momento sta trascorrendo tre anni di arresti domiciliari presso una clinica psichiatrica, perché in casa da solo coi genitori non riusciva a starci. È stato arrestato per piccolo spaccio nel quartiere popolare della periferia milanese dove viveva coi suoi e dove aveva tutti gli amici. Poca roba sul suo certificato penale, due arresti per marijuana e uno, l'ultimo, per sette o otto grammi di hashish. È uno dei tanti casi per i quali si è dibattuto a proposito della legge Fini-Giovanardi del 2006, che nel febbraio di quest'anno è stata dichiarata incostituzionale dalla nostra Consulta in quanto promulgata in tutta fretta assieme a un pacchetto di leggi sulle Olimpiadi. Un decreto che però fino a quest'anno ha riempito le carceri di ragazzi come Davide, e per questo motivo non mi sento di parlare delle sue storie di vita in periferia come di “racconti di degrado urbano”. Davide in realtà è un ragazzo normalissimo, e mi domando quanto senso abbia parlare nel suo caso di “periferia”. Studia taglio e cucito presso un istituto superiore milanese. Ha un figlio di due anni e mezzo, e per un certo periodo è stato a Londra. Tornerebbe volentieri all'estero per lavorare, anche se in America Latina, dove vorrebbe recarsi, mi dice che lo guarderebbero male per via dei tatuaggi. Qui in Italia ha lavorato come magazziniere, come sarto e come assistente geometra, ma ha anche spacciato: “ero un tossico di canne quindi ero sempre contento perché sapevo che ogni giorno prendevo cinquanta euro e non vedevo l'ora di andare a fumare, quindi me la vivevo abbastanza bene. Poi la sera andavo a farmi un giro in bicicletta, avevo l'amico con lo skateboard”. Diventare pugile professionista per Davide è un sogno, potrebbe smettere di fare incontri da dilettante una volta raggiunti i ventotto anni e avrebbe una decina d'anni da professionista. Ma si accontenterebbe, scontata la pena, di un lavoro qualsiasi.
Emarginazione/emancipazione
Davide, come tutte le persone che ho incontrato per questo servizio fotografico, ha il piede in due scarpe. Uno nel mondo “mainstream”, quello della quotidianità accessibile a tutti, almeno in potenza, e uno in storie che ne hanno in qualche modo frenato la crescita come essere umano. Non completamente emarginate, mai completamente ghettizzate, convivono con un “lato oscuro” per il quale spesso non si trovano parole. Penserete a questo punto che è difficile relazionarsi con qualcuno che non può o non ha gli strumenti per descrivere quello che sente, quello che prova. Un grosso aiuto ce lo dà, in questo senso, Maria. Lavora negli uffici di un istituto scolastico, dove ci incontriamo durante la pausa pranzo. Mi racconta delle sue difficoltà ad essere donna ed emancipata, lei che viene da un Sud d'Italia dove, da ragazza, non era così scontato che una donna potesse laurearsi e avere una vita indipendente da un uomo. Oltre che vivere del proprio lavoro, Maria dipinge. O meglio, dipingeva fino a cinque anni fa, quando è morto suo figlio. Ha provato un dolore devastante, da cui si è ripresa senza però toccare più i pennelli e le tele. È particolare il rapporto che Maria aveva col dipingere. “Magari guardo dei giornali, posso guardare qualcuno per strada, una cartolina, una trasmissione, mi restano nella mente le immagini, mi colpiscono e restano lì e magari faccio degli schizzi e li metto via, li conservo. È solo un'idea. Nel momento in cui mi sento triste incomincio a sentire l'attrazione verso il cavalletto ma non è un'operazione immediata. Penso al cavalletto, penso ai colori, penso ai pennelli e aspetto l'attimo giusto che mi porta al cavalletto stesso. A quel punto decido anche che cosa il mio stato d'animo ha voglia di disegnare.
Non è detto che decida una cosa e poi ne realizzi un'altra. Ad ogni modo mi organizzo col mio cavalletto, tiro fuori tutti i miei colori, i pennelli, gli strofinacci, mi preparo, dopo di ché traccio delle linee, faccio uno schizzo con la matita e poi parto con i colori, dando delle forme. A un certo punto io non sono più presente, è come se io mi perdessi. Non percepisco più il senso della realtà, non realizzo che io sono in casa, davanti al cavalletto, se suona il telefono non rispondo, non esiste più niente: esisto io con i colori e il cavalletto finché l'opera non prende forma, nel momento in cui l'ho completata ritorno alla realtà, guardo il lavoro e cerco di capire se quello che io avevo pensato sono riuscita a trasmetterlo sulla tela, indipendentemente dalla tecnica che posso usare. A quel punto ho la sensazione di non averlo fatto io, ma un'altra persona”.
Racconti personali di resistenza
Vedo alcune opere di Maria sul suo cellulare. Sono quadri molto
belli. Mostrano la forza piena del dolore, al lavoro. Quei volti
sofferenti, quella vecchietta con la schiena ricurva che si
appoggia al bastone con un pesante fardello sulla schiena. Difficile
collocare i suoi lavori in una qualche corrente della pittura
contemporanea. Sono immagini arcaiche, direi quasi archetipiche.
Se un dolore reale forte ha interrotto il rapporto di Maria
con la pittura, il dolore è comunque rimasto un motore
primo per la sua creatività artistica. “Il dolore
è la fine ma dopo la fine c'è un inizio, devi
ripartire dal dolore. Quando riparti dal dolore non parti più
come prima, perché vedi la vita in maniera diversa, pensi
e guardi in maniera diversa, senti in maniera diversa. Il dolore
mi ha fatto compagnia da quando sono nata. Da quando mi ricordo,
non mi ha mai lasciata e mi ha dato dignità, rigore,
trasparenza, lealtà, coraggio, emozioni, amore, bontà,
generosità. Mi ha dato la comprensione. Il dolore mi
dà la possibilità di guardare le cose con dolcezza,
mi ha insegnato a non giudicare, condannare, non ha tribunali,
ti sfida, tu come essere umano devi essere più forte
per portare avanti la vita, non ti puoi arrendere di fronte
al dolore, se accetti la vita devi accettare anche il dolore.
La morte purtroppo non è contemplata nella nostra società”.
Qualcuno parlerebbe di rimozione dunque, e forse la differenza
tra un ritratto mainstream e un ritratto che non è mainstream
è esattamente questa. Penso di aver incontrato persone
reali, la cui esperienza non è spesso contemplata dalla
“langue”, come direbbe Saussure, e per le quali
quindi spesso non si dà nemmeno “parole”.
La “langue” per il padre dello strutturalismo è
la struttura linguistica universale, la “parole”
è l'uso che ognuno di noi fa di quella struttura. Maria
da giovane è stata anche militante di sinistra, e mi
dice che oggi i tempi sono cambiati, che almeno in apparenza
c'è più libertà. Eppure non so se il mondo
è disponibile o ha tempo per raccogliere le storie di
questi sette soggetti, cosa ne farà. Se ne trarrà
un suo sapere. Non ci si può relazionare a loro come
fossero dei modelli, come si fa con una showgirl o con un uomo
di potere. Non si può nemmeno considerarli solo come
persone sofferenti, perché spesso la loro realtà
va oltre il mero dolore o la mera mancanza. Eppure chi di loro
è riuscito a sviluppare un linguaggio per parlare di
qualcosa di profondo, lo ha fatto in senso artistico. Sganciandosì
però dal mercato dell'arte: Maria mi dice che non ha
mai voluto vendere un quadro, perché la creatività
per lei non può avere un contraltare nel mondo dei soldi.
C'è qualcosa qui che si rifiuta di farsi assimilare al
mondo e alla socialità condivisa, al senso comune. Varrebbe
la pena, forse, parlare di Resistenza. In tutti e sette i casi
che vi ho sottoposto. E se la nostra essenza non fosse contemplata
dal linguaggio? Se queste persone fossero qui in mezzo a noi
per ricordarcelo?
Gian Paolo Galasi
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