Grecia/
Il grande inganno di Tsipras
Come da prevedibile copione il governo greco di Tsipras (Syiriza)
si inchina al volere dei poteri forti della UE e della Troika
e ben poco cambierà per un popolo ormai ridotto alla
miseria e alla fame da quegli stessi poteri con cui Tsipras
ha subito trattato una significativa e veloce resa cancellando
gran parte di quelle promesse elettorali che avevano determinato
la sua vittoria. Possiamo così riassumere gli accordi
tra governo greco e UE: i tagli e austerità imposti dalla
Troika al precedente governo non si toccano, così come
rimangono le vendite dei beni del paese e le privatizzazioni
e non si prevedono aumenti dei minimi dei salari del pubblico
impiego. Ridicola la parte sulla povertà perchè
le misure da adottare dovranno essere compatibili con la finanza
pubblica e, come per le misure pro equità e i contratti
collettivi, “in consultazione con le istituzioni europee”,
cioè sotto il controllo della Troika. I riferimenti su
riforma del lavoro (precarietà) sanità, pensioni
e buoni pasto ci ricordano maledettamente le scelte antipopolari
del governo Renzi e di quelli che in Italia lo hanno preceduto.
E intanto nella Grecia della Syiriza di “sinistra”
si governa insieme a un partito di destra, la presidenza della
repubblica è stata “donata” da Tsipras a
un esponente di destra (per scambio favori interni al governo)
e nelle piazze la polizia sta tornando a colpire chi lotta e
si oppone, primi tra tutti anarchici ed antagonisti. C'è
chi, come Syriza Manolis Glezos, il partigiano che nel ‘41
ammainò la bandiera nazista dal Partenone dando il via
alla rivolta contro Hitler, si scusa con i greci per aver sostenuto
Tsipras, condanna la svendita delle promesse elettorali e grida
nessun compromesso con la UE e con chi ci opprime, come lui
tanti greci stanno allontanandosi da un governo e da una “sinistra”
collusa con il potere dei grandi sfruttatori. Con buona pace
di chi, in Italia, attorno all'inganno Tsipras aveva raccolto
i resti di una “sinistra” allo sbando appoggiata
da settori sindacali e sociali (FIOM, centri sociali “disobbedienti”,
ecc.) compatibile con il sistema e su questa strada intende
continuare.
Una sinistra (in Grecia come in Italia) che si illude che il
neoliberismo e il capitalismo possa essere riformato e cavalcato
“a sinistra”. Un grande inganno, portato avanti
di proposito per poter gestire una fetta del potere (piccola
o grande, purchè ci sia). Il tavolo va rovesciato, non
ci si siede alla stessa tavola di chi sfrutta e affama.
La società è a un bivio o si trasforma in modo
autogestionario, federalista e libertario o precipiterà
nelle barbarie che sono già da tempo cominciate e forze
terribili sono lì ad aspettare il loro momento (le scelte
di Tsipras possono regalare la Grecia ai nazisti di Alba Dorata).
Va costruito, un mondo nuovo, libero e solidale, collettivista
e rivoluzionario, subito però perchè dopo potrebbe
essere troppo tardi.
Gruppo Anarchico “Malatesta”
Ancona
Anarchici italiani/
Dizionario 2.0
È ora online la più ampia banca dati storica
sugli anarchici di lingua italiana tra 19° e 21° secolo.
Circa dieci anni fa usciva il Dizionario biografico degli
anarchici italiani e Paolo
Finzi su “A” (n. 296, febbraio 2004) salutava
l'evento non nascondendo l'emozione e affermando che questa
ricerca «avrebbe segnato una pietra miliare nella storia
e per la storiografia» riguardante il movimento anarchico.
L'opera uscì sotto la direzione di Maurizio Antonioli,
Giampietro (Nico) Berti, Pasquale Iuso e Santi Fedele con la
collaborazione di oltre un centinaio di studiosi e ricercatori,
italiani e non, che in pochi anni riuscirono a realizzare un
progetto che solo un ventennio prima sarebbe stato inimmaginabile.
Un lavoro che coinvolse oltre che le persone anche le istituzioni
e i centri di documentazione che conservano materiali riguardanti
la storia dell'anarchismo, dall'Archivio centrale dello Stato
di Roma, all'International Institute of social history di Amsterdam,
dalle biblioteche libertarie fino al più remoto archivio
privato. Scopo principale del dizionario è stato quello
di restituire alla memoria comune la straordinaria ricchezza
di donne e uomini impegnati nei vari territori accomunati dall'appartenenza
a quel movimento politico/sociale andatosi costituendo dopo
la seconda metà del 19° secolo e che tanta parte
ha avuto nelle vicende storiche del 20° secolo: non soltanto
i nomi dei militanti più noti, ma anche e soprattutto
i protagonisti di tante vicende locali dalla cui intersezione
si è dipanata la storia del movimento libertario italiano.
Nell'articolo citato si auspicava una versione online dell'opera
che potesse accogliere le integrazioni e magari altre biografie
che per vari motivi erano state omesse dall'edizione cartacea.
Ora questo auspicio è diventato realtà: la Biblioteca
Franco Serantini con un lavoro durato due anni è riuscita
nell'intento di trasferire in ambiente web tutte le voci del
dizionario, comprendendo in questa operazione non solo la scheda
con il racconto della vita del biografato, ma anche tutte le
fonti di riferimento (archivistiche e bibliografiche), georeferenziando
i luoghi di nascita e aggiungendo, quando presenti, anche le
immagini (indirizzo web: http://bfscollezionidigitali.org/index.php/Detail/Collection/Show/collection_id/3).
Oggi, dunque, non abbiamo solo un dizionario che si presenta
come un laboratorio in progress, ma anche un'ampia fonte
di informazioni sugli archivi e i libri afferenti la storia
dell'anarchismo liberamente a disposizione di chiunque, cittadino,
militante e storico voglia conoscere da vicino la storia dell'anarchismo
di lingua italiana attraverso i suoi protagonisti, noti e meno
noti. Va aggiunto poi che la banca dati rispetto all'edizione
cartacea presenta già alcune novità nel senso
che sono state corrette e/o integrate varie biografie, ne sono
state inserite molte di quelle che erano state escluse per motivi
di spazio, e si stanno aggiungendo anche quelle del dizionario
biografico degli anarchici calabresi curato da Katia Massara
e Oscar Greco, uscito nel 2010 sempre per i tipi delle BFS edizioni.
Il totale delle voci finora inserite è di 2.500, con
diverse centinaia di immagini.
Il progetto del dizionario, inoltre, non ha più cesure
storiche come nella edizione cartacea dove erano compresi, a
parte pochissime eccezioni, solo i nati e attivi prima del Sessantotto
mentre ora vengono accolte tutte le biografie che abbiano una
base documentaria, archivistica e bibliografica, sufficientemente
strutturata da un punto di vista storico.
La redazione del dizionario, che è sempre sotto la responsabilità
scientifica dei quattro direttori dell'opera cartacea, è
un progetto aperto nel senso che chiunque può proporre
voci, integrazioni, correzioni o forme di collaborazione che
possano arricchire la banca dati (email: redazione@bfs.it).
Il dizionario degli anarchici italiani si affianca sul piano
internazionale ad altre esperienze che sono nate nell'ultimo
decennio in Francia, Svizzera e in altri paesi e con questi
progetti vuol mantenere un rapporto di collaborazione e integrazione.
Infine, va ricordato che il dizionario è inserito in
una piattaforma digitale della Biblioteca F. Serantini che offre
ai navigatori e ai ricercatori altre banche dati, da quella
relativa ai «documenti
di pietra» (un censimento di tutti i monumenti e le
lapidi presenti sul territorio nazionale che sono afferenti
alla storia dell'anarchismo; ne parleremo su uno dei prossimi
numeri di A); ai manifesti e fogli volanti, fino al catalogo
della biblioteca (oltre 45.000 record) e altre banche dati che
verranno implementate nei prossimi mesi. Tutte le banche dati
sono interrogabili da un'unica pagina.
Questo progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione
di diverse persone di cui sarebbe lungo fare l'elenco, voglio
però ricordare in particolare il giovane Fabio Tiana
che ha dedicato ben due anni al progetto, curando la scelta
del software open-source e creando l'architettura della piattaforma.
L'articolo del 2004 terminava affermando che «solo con
il trascorrere del tempo si potrà cogliere fino in fondo
la profondità e l'importanza di questo lavoro collettivo»
che oggi, giorno dopo giorno offrirà nuovi spunti alla
ricerca, allo studio e alla passione per la più intrigante
storia del movimento politico e sociale che da oltre due secoli
lotta per una società di liberi e uguali.
Franco Bertolucci
Parma/
La Torre Libertaria
Lo scorso lunedì 19 gennaio l'esperienza della Torre
Libertaria occupata, iniziata il primo novembre 2014, si è
conclusa.
L'occupazione, o meglio ancora, la liberazione, di una Torre
medievale abbandonata da anni nonostante fosse stata ristrutturata
da poco, di proprietà comunale, situata di fronte al
Parco Ducale, in pieno Centro Storico, è stata portata
avanti dal gruppo Anarchico Antonio Cieri-FAI e l'USI-AIT Parma,
con l'aiuto del gruppo di ragazzi di Azione Proletaria. L'obiettivo
era denunciare la situazione di ormai insostenibile attesa rispetto
ad un'amministrazione comunale che da troppo tempo è
bloccata circa l'approvazione del regolamento di assegnazione
di sedi, e per l'USI Parma la sede è un diritto di riappropriazione
di parte del suo patrimonio storico, distrutto dal fascismo.
La necessità di una sede che non fosse più quella
distante e un po' fatiscente di S. Prospero è divenuta
impellente dato il crescente radicamento in città. Mai
come in questi ultimi tempi, la lunga, estenuante, generosa
attività sta iniziando a dare qualche frutto! Nella sede,
oltre alle consuete attività politiche, sindacali e culturali,
dovrebbe trovare uno spazio adeguato l'Archivio-Biblioteca Sociale
Furlotti, col suo patrimonio librario e archivistico ora non
utilizzato.
Nella Torre si sono svolte in questo periodo parecchie attività,
interne e pubbliche, che raccontarle tutte nel dettaglio ci
vorrebbe un articolo apposta: presentazioni di libri, mostre,
assemblee di movimento (in un periodo particolare per Parma,
con la venuta di Salvini, Renzi e Moroni, in distinte occasioni),
incontri con registi, concerti, mercatino del baratto; info-point,
assemblee sul pensiero libertario, sportello autogestito di
lotta sindacale, ecc. Ma soprattutto, abbiamo dato la possibilità
a tanti parmigiani di visitare uno spazio di alto prestigio
e bellezza, cosa che la burocrazia e l'incompetenza dei nostri
politici stava impedendo. Non erano rituali le lacrime che ci
scendevano una delle ultime sere in Torre, quando dal panorama
più bello della città, abbiamo brindato alle nostre
idee accompagnati dal bellissimo Coro dei Malfattori.
Fin qui la parte della cronaca, che è raccontabile ancora
meglio sfogliando Umanità Nova o guardando i vari profili
facebook (Gruppo anarchico A. Cieri, USI Parma, Torre Libertaria).
Ma altrettanto importante è anche il momento della riflessione,
che attorno a questa esperienza si può fare. Innanzitutto,
per noi era importante affermare la centralità di un
“modo” di intendere l'anarchismo, quello comunemente
definito “sociale”, che se è vero che non
può avere il monopolio di un'idea tanto poliedrica come
quella anarchica, è anche vero che noi lo rivendichiamo
con orgoglio, perché ci sembra il più credibile.
Quindi, senza equivoci, noi non volevamo uno spazio generico
(magari molto estetico negli slogans e negli atteggiamenti,
ma poco interagente con il contesto in cui viviamo e forse poco
realmente consapevole nella realtà della specificità
della storia, dei valori, degli obbiettivi libertari), ma una
sede di USI e FAI. E anche questo passaggio è importante:
noi non crediamo nel valore dell'occupazione di per sé,
ma ugualmente questa è una pratica che può avere
anche significati importanti, e perché anarchici della
FAI o sindacalisti dell'USI non possono farlo? A volte, anche
nel panorama libertario si cristallizzano opinioni e pregiudizi,
ma è la prassi la vera discriminante.
Altro aspetto importante, in parte accennato prima, è
la critica all'anarchismo puramente “estetico” e
ribellistico, che è vissuto come sfogo temporaneo, ma
non ci fa avanzare di un passo verso il nostro ideale. Nell'anarchismo
contemporaneo italiano, questa tendenza, un po' di comodo (vuoi
mettere la difficoltà di provare a confrontarti, a coordinarti
con altri anarchici sparsi per la penisola?), un po' genuina
(la ribellione al sistema gerarchico è quasi istintuale
e prepolitica, e quindi da coltivare con intelligenza), è
quella che maggiormente s'impone. Per cui si deve fare la faccia
cattiva, si devono urlare slogans, ci si deve abbigliare in
un certo modo, si devono avere gli stessi pregiudizi verso ogni
forma di organizzazione libertaria. Da noi invece i contenuti,
prima ancora dell'apparenza, devono avere la priorità.
Per intenderci: noi siamo gente che se serve prende in mano
un bastone contro i fascisti o per fronteggiare una carica poliziesca,
ma sappiamo bene che il mito della violenza fine a se stessa
non ci porta da nessuna parte. Detestiamo l'assetto economico
e politico in cui viviamo, ma proprio per questo riteniamo doveroso
che gli sfruttati si autorganizzino cercando forme non gerarchiche
e libertarie di confronto. Non ci piace come pensa gran parte
della gente “comune”, ma sono i nostri amici, i
nostri familiari, i nostri colleghi, i nostri compagni di curva,
con cui, volenti o nolenti, dobbiamo entrare in relazione. Anche
dura e conflittuale, se serve, ma mai nichilistica. Poi, è
inevitabile, attorno ad un progetto certo consapevole ma portato
avanti da persone in carne ed ossa, ci sono ugualmente contraddizioni
e problemi: dall'occasionale (a volte con problemi suoi personali)
che viene pensando che “dagli anarchici si possa fare
quel cavolo che gli pare” (e come diciamo, da noi c'è
una buca, tutti i buontemponi vengono a noi, sarà che
dagli altri prenderebbero due schiaffi e noi invece...);
da chi non regge la tensione e s'incazza anche per niente ad
ogni parola; da chi prima predica, predica, predica e poi...
sparisce; dai “compagni” che s'ingelosiscono perché
gli rubi visibilità e perché gli anarchici vanno
bene, ma se si accodano e non se sono protagonisti e credibili;
dal dover ripetere dieci-cento-mille volte chi sei, come la
pensi, quali sono i tuoi metodi, quando pensavi ormai fosse
chiaro; e via dicendo. Ma questa è la realtà in
cui viviamo.
Per noi l'anarchismo si fa in primo luogo cercando di diffondere
le nostre idee. Per noi l'anarcosindacalismo si pratica consapevolizzando
i lavoratori della loro condizione. Tutto il resto viene da
sé.
Massimiliano Ilari
Rubbiano (Pr)/
Inceneritori e diossina
Laterlite è la maggiore azienda italiana per la produzione
di argilla espansa e altri premiscelati per edilizia. Lo stabilimento
di Rubbiano, situato nel comune di Solignano (Parma) è
uno dei tre impianti del gruppo Laterlite operativi in Italia.
Il quarto impianto, quello di Bojano (Campobasso), è
stato chiuso nel 2012 dopo essere stato coinvolto in vicende
giudiziarie per cui l'azienda fu accusata di disastro ambientale.
A Rubbiano, Laterlite brucia rifiuti speciali pericolosi per
alimentare il proprio processo produttivo di cottura dei materiali
edilizi. Fino al 2000 il combustibile utilizzato era il gas
metano, successivamente la provincia di Parma ha autorizzato
l'utilizzo prevalente di “reflui industriali costituiti
da oli esausti ed emulsioni oleose esauste”, nella quantità
di 65 mila tonnellate all'anno, limite tuttora concesso e mai
ridotto nonostante le proteste di associazioni e cittadini.
La combustione dei rifiuti tossici è molto eterogenea,
i codici autorizzati in Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale)
sono decine, e gli inquinanti emessi in atmosfera sono centinaia.
Dal camino fuoriescono 100.000 metri cubi/ora di
emissioni contenenti, tra gli altri, metalli pesanti, diossine,
furani, Ipa (Idrocarburi policiclici aromatici), ossidi di zolfo
e azoto, cloro, fluoro, polveri sottili (fonte Arpa). Molti
dei rifiuti bruciati presentano alcune caratteristiche decisamente
preoccupanti: si tratta di rifiuti tossici, cancerogeni, corrosivi,
teratogeni (possono produrre malformazioni congenite o aumentarne
la frequenza), mutageni (possono produrre effetti generici ereditari
o aumentare la frequenza).
È appurato a livello scientifico che, nonostante i limiti
stabiliti dal legislatore nazionale e/o comunitario, per sostanze
come gli Ipa e le diossine non esistono ragionevoli livelli
di sicurezza al di sotto dei quali esse non provochino danni
alla salute umana e all'ambiente.
Laterlite è situata in adiacenza al centro abitato di
Rubbiano, nel raggio di alcuni chilometri sono situati diversi
centri abitati (Ramiola, Fornovo, Varano, Viazzano, Felegara,
Riccò), sui quali ricadono gran parte degli inquinanti
emessi dal camino.
Gli impianti di co-incenerimento sono dotati di sistemi di abbattimento
che dovrebbero garantire un rilascio ridotto di inquinanti,
anche se permangono dei dubbi sull'effettiva efficacia della
misurazione di tale impatto, poiché le altissime temperature,
anche superiori ai 1.000 gradi, producono nanoparticelle finissime
che sfuggono al controllo.
Attualmente nessun sistema di filtraggio è in grado di
trattenere le particelle inquinanti con diametro inferiore ai
2,5 nanometri. Questo è il principale problema degli
inceneritori, la causa di un inquinamento “sconosciuto”,
che desta allarme presso i cittadini e la comunità scientifica.
Come dimostrato da una letteratura scientifica ormai corposa,
la pericolosità delle particelle è direttamente
proporzionale alla diminuzione della loro dimensione. Quindi
il particolato ultrafine risulta essere infinitamente più
aggressivo e pericoloso, anche se la legislazione vigente non
ne considera il monitoraggio.
Nel 2005 si è costituito un comitato di cittadini, “Rubbiano
per la Vita”, e nei mesi successivi è stato istituito
un Osservatorio ambientale con la partecipazione di Arpa, Ausl
e provincia di Parma. Nel 2006 l'Osservatorio commissionò
ad Arpa un'indagine sulle matrici ambientali. I test di mutagenesi,
analisi che verificano la capacità di indurre mutazioni
genetiche da parte di agenti fisici o chimici, furono tutti
positivi, “[...] evidenziando una prevalenza di sostanze
che agiscono sul Dna inducendo sostituzione di coppie di basi
[...]”.
Si ha la sensazione che l'attività di incenerimento dei
rifiuti costituisca il business principale per Laterlite. Un
business che la comunità paga a caro prezzo in termini
di contaminazione ambientale (3 tonnellate di particolato, ad
esempio, rilasciate in atmosfera ogni anno). In una delle zone
più inquinate d'Europa, quale risulta essere la Pianura
Padana, l'autorizzazione a tali attività concesse a multinazionali
private appare come una insulsa e sconcertante superficialità
da parte degli enti locali.
Le campagne di monitoraggio dell'aria effettuate negli ultimi
mesi da Arpa hanno confermato come i livelli degli inquinanti
controllati a Rubbiano siano superiori a quelli registrati in
alcune centraline di Parma città. Questo nonostante Rubbiano
sia in una zona molto meno antropizzata, alla confluenza di
due fiumi, con la presenza di un'autostrada (Autocisa Fornovo-La
Spezia) che ha negli ultimi anni registrato oltretutto un notevole
calo del traffico veicolare.
Il Comitato Rubbiano per la Vita, spesso additato di volere
la chiusura dell'azienda, propone sostanzialmente di ripristinare
l'utilizzo del gas metano come combustibile per il funzionamento
del forno, in modo da attenuare l'impatto emissivo ed eliminare
l'immissione in atmosfera di sostanze cancerogene come le diossine
prodotte dalla combustione eterogenea degli oli esausti.
Questo comporterebbe una diminuzione del profitto per Laterlite,
ma, di certo, un miglioramento delle condizioni ambientali e
sanitarie. Il Comitato si propone anche di sensibilizzare ed
informare rispetto ad una realtà che, per volumi e impatto,
ha pochi eguali in Italia. Laterlite è uno dei 25 stabilimenti
di questa tipologia in Europa e la quantità di rifiuti
inceneriti è pari a quella dell'inceneritore di Parma,
ma suscita molto meno clamore e pare una situazione tanto acclarata
quanto accettata supinamente dalla maggioranza dei cittadini
e delle amministrazioni locali.
Comitato Rubbiano per la Vita
www.comitatorubbiano.it
comitatorubbianoperlavita@gmail.com
https://www.facebook.com/comitatorubbianoperlavita
Si ringrazia Michele Salsi per la collaborazione
Expo 2015/
L'appello della FAI
Il Primo Maggio, giornata di lotta e di festa della classe
lavoratrice, sarà in questo 2015, la giornata inaugurale
della massima espressione del paradigma capitalistico del 21°
secolo: la fiera espositiva Expo prende il via.
Expo non è una semplice fiera, un'esposizione delimitata
nel tempo e nello spazio. Expo 2015 travalica qualsiasi funzione
storica, ha natura invasiva e si erige a modello, a paradigma
di un sistema sociale caratterizzato da un progressivo e inarrestabile
processo di privatizzazione.
Privatizzazione che parte dalle speculazioni sui terreni su
cui si erigono i padiglioni della fiera internazionale, si estende
in modo tentacolare a vaste zone della metropoli riproducendo
meccanismi di espropriazione a discapito di settori sempre maggiori
di popolazione proletaria soggetta a violenti sgomberi coatti.
Expo è massima espressione della cosiddetta “grande
opera”, ovvero drenaggio di soldi pubblici a solo vantaggio
di soggetti privati gestori di una devastante e inutile rete
veicolare e di viabilità all'insegna di cemento e catrame.
La rete stradale e autostradale lombarda modificherà
in modo irrimediabile il paesaggio extraurbano della regione.
Il sistema capitalistico, nella sua mortifera corsa devastatrice,
ha però anche bisogno di ripulirsi l'immagine –
non certo la coscienza di cui è privo – ed è
per questo motivo che Expo e la stragrande maggioranza di Paesi
e aziende multinazionali presenti, per questa edizione giocano
la carta dell'alimentazione con toni e slogan propagandistici
relativi alla volontà e capacità di nutrire l'intero
pianeta.
Ne scaturisce la volontà di rappresentare un mondo pacificato
all'interno del quale, nel rispetto delle gerarchie strutturali,
possano convivere modalità di produzione e consumo spacciate
un tempo come alternative le une alle altre, ma in realtà
solo concorrenti nello stesso mercato capitalistico. Vi è
quindi la possibilità di vedere multinazionali come Monsanto
– maggiore responsabile di produzioni alimentari ogm –
con aziende fautrici del cosiddetto mercato biologico. Mc Donald's
e Nestlé a braccetto con Slow Food. In questa sorta di
villaggio globale i vari conflitti e contraddizioni devono essere
banditi e in primis quella relativa a capitale e lavoro.
I processi realizzativi e di gestione dell'evento nei suoi sei
mesi devono essere laboratorio di sperimentazione legislativa
e giuridica di forme di lavoro schiavizzanti. Con accordi padronali,
istituzionali e sindacali si sancisce la volontà di rendere
completamente asservita a logiche di mercato – con i suoi
tempi e spazi – la figura del singolo lavoratore. Lavoratore
che non è più, nella sua forma contrattuale, anche
soggetto collettivo ma bensì soggetto atomizzato, separato,
in rapporto individuale asimmetrico con il proprio datore di
lavoro, nella fattispecie, rappresentato da una agenzia di caporalato
interinale incaricata di effettuare selezioni in cui, primo
requisito richiesto è la propria capacità di resilienza
ovvero l'adattamento alle mutevoli condizioni richieste. Il
lavoro quindi non è più considerato nella sua
dimensione di scambio di vendita di prestazione d'opera in cambio
di adeguato salario: con la scusa di opportunità formative
attraverso collaborazioni volontarie, di stages, ecc. si torna
a forme di schiavitù, il lavoro senza salario. Un esercito
di forza lavoro gratuito quindi anche richiesto e ottenuto dal
mondo della formazione scolastica ed universitaria.
Questi, molto brevemente ed in sintesi, solo alcuni dei motivi
per cui ribadiamo il nostro rifiuto e contrarietà allo
svolgimento di Expo 2015. Un rifiuto e contrarietà che
non si dovrà esaurire nel contrasto alle giornate inaugurali,
ma che sia capace di disegnare un percorso altro rispetto ai
diktat socio economici del sistema.
Partire da queste giornate di maggio con la propensione ad interconnettere,
a saldare tra loro, i vari scenari di conflitto sociale: la
lotta intransigente contro la devastazione ambientale con quella
della salvaguardia del diritto ad un lavoro e ad un reddito
degno. La volontà di anteporre una modalità di
formazione dei saperi libera e critica a quella asservita alla
logica d'impresa così come oggi si delinea nel mondo
della scuola e dell'università, con la volontà
di ridisegnare modelli di relazione sociale alternativi a quelli
imposti da culture religiose, patriarcali, gerarchiche e autoritarie.
Le anarchiche e gli anarchici della FAI invitano pertanto le
realtà federate a dare la massima diffusione alle iniziative
di opposizione all'Expo 2015, sia nelle e iniziative locali
del Primo Maggio che in occasione dei vari appuntamenti previsti
a Milano: corteo studentesco nazionale del 30 aprile; giornata
di lotta internazionalista del 1 maggio con un corteo pomeridiano
comunicativo in centro, attraverso i simboli esemplificativi
della natura predatrice e sfruttatrice di Expo; nei due giorni
successivi azioni dirette di blocco e contrasto all'apertura
ufficiale della kermesse; proposte di mobilitazione nei mesi
successivi decise in modo assembleare.
Il convegno nazionale della Federazione
Anarchica Italiana
Milano, 23 marzo 2015
La rivoluzione comoda/
Sedere è sovversivo
Come in quel gioco di ragazzi, alla fine della musica ci si
lancia sulla sedia più vicina e chi resta in piedi ha
perso. Ben saldi sulle loro poltrone gli amministratori locali
negli ultimi venti anni di gestione liberista e autoritaria
della povera cosa pubblica hanno lasciato col culo per terra
i cittadini. Letteralmente.
Il divieto di sedere o semplicemente di stare, vero divieto
di sosta pedonale, è diventato uno dei parametri del
peggioramento della qualità della vita e delle relazioni
sociali in regime capitalista. Già vietate le panchine
a Vicenza e i gradini a Firenze: misure deliziosamente bipartisan,
dalla Lega al Pd. Fermarsi, restare, occupare lo spazio pubblico
per qualcosa più che qualche secondo è socialmente
poco accettabile, sconsigliabile perché magari pericoloso,
sintomo manifesto di inattività, malattia, vecchiaia
e renitenza alla produttività. Chi siede è fuori
e, forse, contro.
La classe dirigente ha il terrore, la fobia della possibilità
dell'occupazione dello spazio pubblico urbano da parte di masse
non semplicemente, rapidamente e continuamente in transito.
Perché accomodarsi, o comunque stare, vuol dire esserci,
più o meno consapevolmente, rivendicando la propria esistenza,
con annessi diritti, e la propria potenzialità di cittadinanza.
Attendere, rilassarsi, contemplare, oziare e socializzare fermi
all'aperto in tre o più senza consumare nulla è
sovversivo, lo è diventato via via per sottrazione di
spazi e di diritti. Le categorie sociali improduttive, marginali
e cosiddette deboli, dunque quelle potenzialmente pericolose
o comunque da gestire in anticipo attraverso il controllo, siedono
o sostano: al muretto i giovani disoccupati del quartiere; all'angolo,
ingombranti e chiassosi, gli immigrati stranieri; sulle poche
panchine residue in piazza o al parco gli anziani; siedono poveri
ed esclusi di ogni nazionalità alle fermate del tram,
quando ci sono sedili, sennò stanno in piedi, ma stanno.
Chi non corre, escluso dalla catena di produzione e consumi,
e siamo sempre di più, diventa un problema, rappresentazione
fisica, statica, plastica della cattiva coscienza di chi comanda.
Nelle periferie di Roma fioriscono sedie. Con la bella stagione
ma non solo, spontaneamente. Prima una, due. Poi sempre di più.
Queste disegnano crocchi di socialità diffusa e spontanea,
spazi instabili e incontrollabili di incontro, luoghi autonomi
abitati da chi li inventa insieme, creandoli e disfacendoli,
mutandoli in continuazione, liberamente e gratuitamente.
Prati, aiuole, incroci sono abbelliti da pavesi di seggiole
e poltrone di ogni foggia, epoca, colore. Storie che tornano
all'aria alla rinfusa: quelle di questi vecchi sedili usciti
da case, cantine e discariche e quelle raccontate da chi ci
si siede. Sedere insieme chiama la parola, il racconto, magari
perfino il confronto. Minuzie, facezie, partite, pettegolezzi
e problemi di vita, di lavoro, commenti su cosa ci succede intorno.
Un modo di cercarsi e trovarsi, sedere: gesto semplice tra i
più semplici, accessibile a tutti, nel vuoto di senso
e relazioni di una società invasa da segni e simboli
nei quali senza soldi è sempre più difficile riconoscersi.
Ci si autorganizza, spesso senza saperlo, pensando magari
di avere solo portato una sdraio, per migliorare lo spazio pubblico
urbano sottraendolo al degrado. Si raccolgono i rifiuti, propri
e altrui, si taglia l'erba, ci si cura di allontanare ratti
e serpi anche per la sicurezza dei bambini e dei cani che scorrazzano
intorno, si decorano i luoghi di volta in volta prescelti con
oggetti disparati, spaiati e curiosi, recuperati chissà
come, scovati chissà dove. Spazi pubblici metropolitani
temporaneamente occupati e autogestiti, riappropriazione di
ciò che è di nessuno e di tutti. Ha davvero tutto
il sapore e il valore di un sobrio sit-in permanente in cui
c'è sempre posto per tutti.
Che fioriscano allora ancora mille e mille seggiole e inizi
finalmente da qui la minima rivoluzione comoda ma non passiva,
certamente e inconsapevolmente libertaria, dagli esiti imprevedibili,
che ci riporta a stare insieme in pubblico smettendola di essere
pubblico.
Paolo Papini
Patagonia argentina/
Mapuche in lotta contro Benetton
Nei paraggi di Vuelta del Rio, nel nord-est della provincia
del Chubut nella Patagonia argentina, lungo la strada 40, tra
Cholila e Esquel, ha preso vita un'iniziativa di recupero del
territorio ancestrale mapuche.
I partecipanti, che avevano tutti il volto coperto, denunciano
da molto tempo una persecuzione politica da parte della polizia.
Ci raccontano che durante le prime ore della mattina del 13
marzo scorso, un gruppo di uomini, donne e bambini di distinte
comunità mapuche della zona hanno deciso di attraversare
il filo spinato e dare inizio al recupero delle terre recintate
dall'azienda di Luciano Benetton. Ci riferiscono che appena
arrivati, e mentre iniziavano a preparare il luogo dove fermarsi,
c'è stato un tentativo di sgombero da parte della polizia
che ha anche sparato alcuni colpi di arma da fuoco.
Gli attivisti hanno resistito all'interno del campo, reclamando
la presenza di qualche responsabile politico che si incaricasse
di stabilire un dialogo per poter arrivare ad un accordo in
merito alla restituzione della terra. Hanno denunciato anche
il dislocamento storico delle comunità mapuche verso
zone aride e inadatte al pascolo degli animali, al fine di smantellare
le comunità incentivando le migrazioni verso i centri
urbani.
Riportiamo il comunicato del gruppo che ha effettuato l'azione
di recupero territoriale.
Michele Salsi
Di
fronte alla situazione di povertà delle nostre comunità,
la mancanza d'acqua, la desertificazione, il dislocamento forzato
in terre improduttive (pietrose e sabbiose) e il saccheggio
che è stato realizzato dalla mal denominata “conquista
del deserto”, la presenza di grandi proprietari terrieri
sommata all'immensa quantità di famiglie senza una terra
dove poter sussistere dignitosamente e svilupparsi, affermiamo
che:
il territorio è di vitale importanza per la nostra esistenza
come popolo, soprattutto nel contesto attuale, in cui grandi
proprietari terrieri winka (bianchi, stranieri) posseggono la
maggior parte del nostro territorio ancestrale (territorio che
nella sua grande maggioranza venne dato come “moneta di
scambio” per ripagare chi finanziò la campagna
militare genocida della “conquista del deserto”).
Mentre noi mapuche continuamo ad essere un'immensa maggioranza
senza terra, con l'unica alternativa di essere peones
(contadini), impiegati domestici e operai, sarebbe a dire manodopera
a basso costo e sfruttata, per l'oligarchia creola e l'impresario
internazionale.
Per tutto questo, noi comunità in resistenza, vogliamo
comunicare che iniziamo un nuovo processo di recupero di territori
produttivi dalla multinazionale Benetton, nel settore Leleque-Ranguilhuao-Vuelta
del Rio, intendendo questa come l'unica soluzione concreta per
far fronte alle nostre necessità insoddisfatte [...].
Questo processo è legato anche alla nostra lettura della
logica espansiva del modello estrattivo capitalista che, con
imprese minerarie e petrolifere, pretende di distruggere il
poco che ci resta; l'unica maniera per frenare “l'assassinio
pianificato” da parte del potere economico e dello Stato
(ecocidio e etnocidio) è mediante il controllo territoriale
effettivo delle nostre comunità in mobilitazione, affermando
tutte le forme di lotta fino ad ottenere tutto il territorio
ancestrale libero e recuperato per il nostro popolo.
Fuori Benetton, le imprese minerarie, petrolifere e idroelettriche
dalla Wallmapu!
Pu Lof in resistenza del dipartimento
Cushamen, Argentina
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