Insipienza ed errore nella manipolazione della storia
1.
La “Revue des deux mondes” del 1 gennaio 1836 pubblicava una noticina in cui si poteva leggere che “Alexandre Dumas torna a Parigi dopo un soggiorno di otto mesi in Italia e in Svizzera, dal quale – se ne parla negli stessi termini in cui si parla di un famoso cacciatore – ha riportato tre drammi, una traduzione in versi della Divina Commedia e delle Impressioni di viaggio”. Quest'ultime – intitolate ad una sorta di calessino tramite il quale Dumas si scarrozzava curiosando per Napoli e dintorni- vennero poi pubblicate come Il corricolo (Rizzoli, Milano 1963, in due volumi) e, pur costituendo una piacevolissima lettura, sono state sottoposte al vaglio critico di vari studiosi fra cui spiccano i nomi di Gino Doria e di Benedetto Croce che di “cose napoletane” sapevano parecchio. Leggerle senza l'aiuto di coloro che ne hanno messo in evidenze le pecche, pertanto, sarebbe pericoloso. Faccio qualche esempio. Quando Dumas vuol far raccontare un apologo da un famoso frate questuante, padre Gregorio Ruocco (1700-1782), direttamente alla famiglia reale di Ferdinando IV di Borbone, detto “Re Nasone”, pur di raccontare l'incontro non esita a falsificare la storia, perché, quando i Borboni tornarono la prima volta dalla Sicilia – dove si erano rifugiati dal dicembre del 1799, allorché venne dichiarata la breve Repubblica Partenopea promossa dai francesi –, padre Ruocco era già morto da diciassette anni. Quando Dumas vuol dimostrare quanto “jettatore” fosse un noto principe napoletano non esita ad anticipare di altri diciassette anni l'incendio del teatro San Carlo. Allo stesso scopo, fa durare un viaggio da Parigi a Roma qualcosa come quattro mesi e, pur di addossare allo jettatore anche il colera, manipola un po' di date. Ancora: per conferire sensazionalità storica alla liquefazione del “sangue di San Gennaro” la data ai quindici secoli che lo precedono, ma, a dire il vero, la prima notizia del “miracolo” la dobbiamo a Enea Silvio Piccolomini nel 1456. Prima di allora nessuno aveva mai parlato del fenomeno, tanto è vero che nessuna ampolla era mai apparsa nell'iconografia del santo. Mi fermo qua.
2.
Gli esempi precedenti costituiscono un repertorio ben diverso da quello degli errori e da quello delle sempre possibili autocontraddizioni. Se Dumas ci racconta che a Napoli, quando lui c'è stato, si vendevano anche pizze di otto giorni è a causa di un semplice errore ben comprensibile: a Napoli, all'epoca, si vendeva la pizza “a oggi a otto”, il che voleva dire che la mangiavi oggi e che, con il tasso d'usura, la potevi pagare dopo otto giorni. Se Dumas dice prima che ad accompagnare il re in Sicilia era stato uno e dice poi che era stato l'altro è in palese autocontraddizione. “Va a braccio”, evita la fatica di controllare, e si è dimenticato di quanto aveva affermato in precedenza.
Ora, mentre errori, omissioni più e meno volontarie, autocontraddizioni possono essere continuamente corrette e ricorrette – e in ciò consiste buona parte del lavoro dello storico –, gli esempi precedenti tendono a collocarsi in un limbo particolarmente nefasto. Da un lato sono presentati come storia, ma, dall'altro, storia non sono, perché in essi la storia viene per così dire modificata a fini prettamente estetici. Le manipolazioni di Dumas – le sue vere e proprie falsificazioni volontarie – svolgono la funzione di abbellire il racconto, di renderlo letterariamente più gradevole, hanno l'intento di far quadrare i conti ideologici al costo di sparigliare i conti storici. L'atteggiamento di Dumas in proposito, d'altronde, è chiarissimo: “chi legge la storia”, dice “se non gli storici quando correggono le loro bozze?”. Che questo scetticismo di fondo conduca dritti dritti al qualunquismo politico è evidente
3.
Mentre la storia è un racconto vincolato al massimo di coerenza raggiungibile – né più né meno dell'attività scientifica – e come tale sempre “aperto”, il prodotto estetico, per sua stessa natura, è svincolato da checchessia che non sia liberamente scelto dal suo autore – “liberamente”, beninteso, nella misura in cui, come diceva il fisiologo ottocentesco Claude Bernard, l'artista, come tutti noi e il “grand'uomo” siamo “sempre e necessariamente più o meno funzione del nostro tempo”. Il prodotto estetico non risponde del “vero” da coerenza, ma del “bello” e di tutti gli altri valori (compresa la negazione del “bello”) che sono evoluti nella storia dell'arte almeno a partire da quel particolare momento ben analizzato da Darwin in cui l'evoluzione culturale ha preso il sopravvento sull'evoluzione culturale.
La proposta di Dumas – che ho scelto come caso paradigmatico da una gamma a disposizione purtroppo amplissima – è “pericolosa” per il lettore perché è un ibrido non dichiarato come tale o, almeno, la cui dichiarazione è rimasta implicita, sacrificata alle ragioni economiche di un rapporto di autorità in cui l'autore si eleva nei confronti del suo lettore. Come a dire: posso imbrogliarlo come mi pare, perché l'importante è divertirlo. Se, poi, costui prende lucciole per lanterne, ovvero conferisce storicità al prodotto della mia fantasia, tanto peggio per la storia – lui, il lettore, d'altronde, è mero suddito, lì apposta per essere ingannato e la storia è il campo della libera invenzione e, soprattutto, della dimenticanza; la correzione estetica della storia non solo è permessa ma va incoraggiata. E pensare che, in uno dei suoi rari momenti di onestà politica, Dumas afferma che “la sensibilità è un'invenzione moderna”. “Speriamo che duri”, aggiunge, ma è lui stesso – che gli tocca fa pe' magnà – a darsi da fare per dissolverla.
4.
A proposito di errori. Debbo a Delio Salottolo, curatore dei
saggi di Claude Bernard, l'evidenziazione di un brano dei Fratelli
Karamazov in cui Dostoevskij fa chiedere ad uno dei suoi
personaggi: “Chi era, dì un po', Charles Bernard?”. “Charles Bernard?”, annaspa l'altro, “No,
non Charles, aspetta”, si corregge il primo, “Ho
sbagliato: Claude Bernard. Che roba è? Chimica, mi pare?”.
Ci si pensi su: non è un errore di Dostoevskij, ma, invece,
è uno stratagemma per porre un'analogia e suggerirci
qualcosa di più di quanto non sia reso esplicito nel
testo. Charles è il nome di Darwin, non di Bernard, ma
la confusione è possibile – ha un senso in chi
la compie – perché entrambi, a loro modo, sono stati
gli artefici di un pensiero “rivoluzionario” nei
confronti del vivente – l'uno per avergli restituito una
storia, l'altro per aver cercato di definire rigorosamente un
metodo con cui descriverlo.
Felice Accame
Nota
Anche l'informazione relativa alla traduzione in versi della
Divina Commedia ha un che di irrimediabilmente falso.
In realtà, Alexandre Dumas si limitò a un tentativo
di tradurre il primo canto dell'Inferno, ma sia lui che
il giornale su cui scriveva necessitavano di un certo grado
di enfasi. Diciamo che, anche qui, le esigenze del commercio
predominavano quelle della correttezza storica.
La citazione di Claude Bernard è tratta da Il progresso
nelle scienze fisiologiche, oggi ristampato, a cura di Delio
Salottolo, in C. Bernard, Un determinismo armoniosamente
subordinato, Mimesis, Sesto San Giovanni 2014, pag. 68.
Charles Darwin si è occupato della questione estetica
in L'origine dell'uomo e la selezione sessuale pubblicato
nel 1871. |