Egle Sommacal. Il cielo si sta oscurando
A volte, anche senza bisogno di parole, succede che un musicista
riesca a raccontare delle belle storie attraverso il suo strumento
e a segnare un punto nuovo sulle mappe, allungando un percorso,
tracciando una strada nuova, spostando il confine un po' più
in là. Ci riesce ancora Egle Sommacal, che ha da poco
realizzato “Il cielo si sta oscurando”, terzo lavoro
da solista. Avevo segnalato il suo debutto “Legno”
su “A” 334
(aprile 2008) come pure il successivo “Tanto non arriva”
su “A” 346
(estate 2009), parlandone come di opere capaci di accendere
attenzione e far riflettere, entrambe importanti e fuori posto
quasi fossero lavori adatti ad altri luoghi e tempi, come se
nel nostro paese non potessero succedere oggi certi miracoli.
Dove il primo era bello ed ombroso e malinconico, e il secondo
bello e maturo e consapevole, il terzo è bello di una
meraviglia devastante. Se con i precedenti l'aveva messo in
discussione, con questo lavoro Egle distrugge il suo ruolo sociale
di chitarrista muto, intrappolato nella propria arte e destinato
ad esecuzioni perfette. Egle regala sogni, proprio come certi
poeti. Te li fa toccare. Ti spinge ad allungare le dita, a immaginare.
Difficile muoversi nel vocabolario per trovare le parole giuste,
tante sono le emozioni, la sorpresa, l'appagamento, che giungono
a ondate su questa spiaggia.
Quando ho ascoltato il cd per la prima volta avevo la sensazione
che la musica fosse fisicamente già presente nella stanza
e stesse aspettando me. La chitarra di Egle racconta canzoni
senza tempo, anzi che il tempo lo hanno afferrato tra le mani
e stretto forte, e addirittura fermato. Sono tutte composizioni
originali e recenti, non sono né blues né folk
ma a volte pare abbiano addosso secoli, ciascuna indecisa se
essere una storia di ieri oppure una pagina di diario scritta
di fresco, con l'inchiostro ancora che brilla al sole. In più
occasioni durante l'ascolto ci si sorprende dell'assenza della
voce umana, per arrendersi all'evidenza di questa voce, voce
insolita, voce differente da tutte, voce che passa per strade
inusuali e raggiunge comunque il centro perfetto della testa.
Amo queste corde di metallo che vibrano tese, questo legno semplice
che avvolge ed amplifica, il riverbero dell'aria tutt'attorno.
Non so voi, ma io trovo meravigliosi i suoni che escono da certi
strumenti acustici, poveri, vecchi, addirittura antichi, suoni
così curiosi proprio per nostra scarsa abitudine alla
curiosità, suoni così altri dal magma irriconoscibile,
liberi dalle manipolazioni tecnologiche di tendenza e dalla
compressione obbligatoria per riuscire a farli passare, omologati,
attraverso la radiolina prima, il walkman poi, lo smartphone
adesso. Ogni ascolto ripetuto si rivela un'ora di illuminazione,
un accadimento, un'esperienza. Quando passa sotto il laser l'ultimo
brano (ti risveglia dal viaggio una pioggia veloce di risate,
sempre imprevista), senti addosso tutta la viscosità
pesante del silenzio e il solo modo per continuare a respirare
è far ricominciare tutto daccapo.
Il cd è stato pubblicato senza far troppo chiasso dall'indie
bolognese Unhip (www.unhiprecords.com).
Le tre opere di Mike Watt
“Metti insieme il tuo gruppo musicale. Dipingi il tuo
quadro. Scrivi il tuo libro, la tua poesia”. Segnalazione
auto-pubblicitaria, anche se solo per metà (è
una coproduzione/collaborazione tra Dethector e stella*nera).
Esce a fine marzo “Le tre opere”, testi originali
inglesi e traduzioni italiane dell'americano Mike Watt. L'autore
dovreste già conoscerlo, o almeno lo spero: è
uno di quelli che c'erano in California ad accendere la miccia
sotto il culo del rock tra la fine degli anni Settanta ed i
primi anni Ottanta. Suonava il basso coi Minutemen e anche grazie
a lui e al suo gruppo il punk di lì aveva preso quella
sua certa piega impegnata e problematica, la loro era una vena
creativa bizzarra, piuttosto diversa dalla politicizzazione
estrema che si usava sbandierare volentieri dalle nostre parti
su palchi e copertine.
Erano in tre (D. Boon chitarra, Watt al basso, George Hurley
alla batteria), ragazzi semplici che, fossero nati nel nostro
quartiere invece che in America, sarebbero senz'altro stati
nostri compagni di giochi. Facevano pezzi brevissimi e contorti,
canzoni sghembe e spesso ironiche, stilisticamente più
affini alle sperimentazioni del Pop Group e di Captain Beefheart
che all'hardcore. L'attività dei Minutemen si interrompe
alla fine del 1985, quando D. Boon rimane vittima di un incidente
stradale. Watt e Hurley sono distrutti, ci mettono un po' a
tornare sulla scena: spinti dagli amici formano i fIREHOSE e
si lasciano invischiare volentieri in dozzine di progetti diversi,
da allora non li hanno fermati più niente e nessuno.
Del primo periodo restano una manciata di album che fanno sospirare
di nostalgia (il mio preferito è “Double nickels
on the dime” del 1984, un disco davvero curioso e innovativo)
e le sequenze raccolte nel documentario “We jam econo”,
tre parole che spiegano proprio tutto, reperibile a facile portata
di mouse. Curioso, anche se non sempre, l'album del 1995 “Ball-hog
or tugboat?” realizzato da Watt con la collaborazione
di amici musicisti misti tra vecchia nuova e nuovissima leva
(membri di Pearl Jam, RHCP, Sonic Youth, Nirvana, Meat Puppets,
Dinosaur Jr., Henry Rollins dei Black Flag, Pat Smear dei Germs,
Mark Lanegan, Carla Bozulich, Petra e Rachel Haden, etc.).
Il libro curato da Dethector si concentra su tre “opere
punk rock” di produzione recente, ed una raccolta di poesie.
Ciascuna delle opere di Watt è molto fortemente caratterizzata.
In “Contemplando la sala macchine” (1997) egli setaccia
scrupolosamente il rapporto col padre, ed esamina più
in generale i meccanismi che regolano i gruppi, sovrapponendo
la vita in mare del genitore alla sua vita in strada, mettendo
in evidenza gli intrecci, le complicità e gli scherzi
del destino che legano gli uomini tra loro, siano essi membri
di un equipaggio a bordo di una nave oppure musicisti stipati
dentro un furgone diretto al prossimo concerto. In “La
fermata intermedia dell'assistente” (2004) Watt racconta
di una improvvisa quanto grave malattia che lo ha colpito e
quasi ucciso, dalla quale è uscito solo dopo cure ed
una lunga convalescenza, in una sorta di viaggio d'ispirazione
dantesca. I toni del discorso cambiano completamente, influenzati
per certo dal delirio e dalla febbre, dal rimbalzare frenetico
dei pensieri in testa nelle ore immobili su un letto d'ospedale,
dalla deriva dei farmaci. In “Uomo-con-il-trattino”
(2010), esplicitamente ispirato ai quadri apocalittici di Hyeronimus
Bosch, sono raccolti trenta pezzi in cui Watt racconta il modo
in cui “gli uomini diventano uomini”. Ancora, lo
stile cambia: qui si fa visionario, strisciante come serpe,
le parole usate come giochi di specchi, come enigmi, come profezie.
Quasi la seconda metà del volume è occupata da
una raccolta di poesie, non esplicitamente datate ma complessivamente
recenti, che spesso rivelano il lato più intimo dell'autore.
Un paio sono inni d'amore smisurato ai monumenti (John Coltrane,
John Entwistle degli Who), molte altre sono invece un'occasione
per fermarsi a sedere sul ciglio della strada, guardarsi intorno
e riflettere. Detta così è francamente detta male:
il libro, specie in questa quarta parte, è molto più
complesso e meditativo di quanto io possa avervi descritto in
queste poche righe.
La traduzione italiana a volte non smette di tenersi stretto
tra le braccia il testo originale, così che serve un
certo impegno investigativo da parte di chi legge. Va detto
che Watt ha letteralmente inondato Dethector di aggiunte, spiegazioni,
commenti, aneddoti, curiosità che il curatore ha in massima
parte evitato di riportare nelle note: a volerci ficcare tutto
sarebbe stato necessario altrettanto volume e, azzardo, il risultato
sarebbe stato meno interessante.
Il libro, 160 pagine belle piene, non è distribuito commercialmente:
si può richiedere a Dethector (dethector.wordpress.com)
oppure a stella*nera (e-mail: stella_nera@tin.it)
in cambio di un'offerta libera/consapevole.
Marco Pandin
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