anarchismo
L'avanzata degli uomini-macchina
di Giacomo Borella
Recentemente ripubblicato dalla casa editrice Elèuthera, con prefazione di Giacomo Borella - che qui presentiamo -, il volume di Pëtr Kropotkin Campi, fabbriche, officine propone soluzioni al problema del crescente dominio della tecnica e della divisione delle attività umane. Che rendono gli esseri umani dei semplici inservienti delle macchine.
A ben oltre un secolo dalla sua
prima stesura e quarant'anni dopo il lavoro di sintesi e commento
svolto da Colin Ward, Campi, fabbriche, officine rimane
un testo indispensabile e profetico. Il sistema economico e
sociale che trasforma gli esseri umani in «semplici inservienti
di una determinata macchina» (p. 28), dal cui riconoscimento
l'intero saggio di Kropotkin prendeva le mosse, se da un lato
si è liquefatto, è evaporato, è stato esternalizzato,
dall'altro a ben vedere si è esteso e perfezionato fino
a un punto mai prima raggiunto.
Le parole con cui Kropotkin descrive l'inversione tra mezzi
e fini nel rapporto uomo-macchina riprendono ed elaborano in
una direzione autonoma le celebri pagine di Marx sul «lavoro
estraniato», e anticipano e propiziano quelle di molte
variegate critiche radicali alla civiltà delle macchine
e delle tecnoscienze prodotte nell'arco del ventesimo secolo,
dal suo dichiarato ammiratore Lewis Mumford a Günther Anders,
da Gandhi a Jacques Ellul e Ivan Illich, solo per citare, tra
le molte, le ricerche che mi sono più familiari. Ma l'estensione
più radicale del dominio della tecnica doveva ancora
avvenire: se il lavoro estraniato produceva «idiotaggine
e cretinismo»1 nei soli
operai, trasformandoli in «elementi di carne e ossa di
un qualche immenso macchinario» (p. 28), sarà prima
con le comunicazioni di massa e la televisione, e poi con l'avvento
delle tecnologie informatiche compiutosi negli ultimi decenni,
che questi effetti si allargheranno ed estenderanno, abbattendo
il recinto del lavoro salariato e portando il rovesciamento
dei mezzi tecnici in fini in se stessi dentro alla vita quotidiana
di tutti.
Con la «bomba informatica», come la definisce Paul
Virilio, non sono più solo gli operai durante il tempo
di lavoro a essere trasformati in «semplici inservienti»
della macchina: tutti gli esseri umani, in ogni momento della
vita, diventano tendenzialmente sempre più subalterni
a computer, internet, telefoni, navigatori e ogni tipo di dispositivi
mobili. Si producono nuove dipendenze, nuove disabilitazioni,
nuove povertà, nuovi analfabetismi e discriminazioni,
in un quadro di sistematico ricambio coatto del sapere e della
strumentazione tecnica, di obsolescenza programmata delle merci
informatiche, giunto a livelli di rapidità e pervasività
mai immaginati.
Così, il corrispettivo dell'uomo «inchiodato per
tutta la vita» a produrre «la diciottesima parte
di uno spillo» (p. 28) descritto a fine diciannovesimo
secolo da Kropotkin, è nel nostro tempo l'uomo «inchiodato
per tutta la vita» davanti a uno schermo, parlando ora
non solo di vita lavorativa ma di vita tout court.
Obiettivo delle critiche di Kropotkin non è però
la macchina – che anzi in quanto uomo di scienze del diciannovesimo
secolo egli difende con un certo entusiasmo – né
la fabbrica in sé, ma piuttosto la divisione del lavoro
e i molteplici livelli di separazione della società del
suo tempo: separazione tra consumatori e produttori, nell'ambito
dei secondi tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, in quest'ultimo
di nuovo tra agricoltura e industria, e nell'industria (ma anche
nell'agricoltura praticata industrialmente) in una serie di
mansioni uniche e ripetitive.
Da queste rigide separazioni, che nascono dall'«angusta
concezione esistenziale che consiste nel pensare che il profitto
sia il solo motivo conduttore della vita umana» (p. 29),
discendono per Kropotkin le principali ingiustizie e infelicità
del suo tempo. Oggi quelle divisioni sono in parte cambiate,
si sono diversamente articolate, ma non si sono certo abbassati
gli steccati che le delimitano, e ancora più eretico
di allora appare chi si azzardi a metterle in discussione.
Integrazione delle attività umane
L'intera proposta di Campi, fabbriche, officine consiste
in un ribaltamento di queste separazioni in una prospettiva
di integrazione e compresenza tra le differenti attività
umane. Contrariamente a quanto si può aspettare chi abbia
un'idea stereotipata del pensiero anarchico, Kropotkin non sviluppa
affatto la proposta nella forma di un manifesto composto da
assiomi astratti, ma al contrario la sostanzia in una miriade
di esempi dettagliati di tendenze alternative già in
atto, incontrati e studiati personalmente nel corso dei suoi
proverbiali e frequenti sopralluoghi, appresi da resoconti che
riceveva da una rete di corrispondenti, o ricavati da uno studio
attento dei dossier statistici.
Sia questo volume che Il mutuo appoggio, l'altro capolavoro
kropotkiniano, scritto nell'arco di tempo compreso tra la prima
e la seconda edizione del primo, sono opere di grande portata
teorica, ma sono anche in primo luogo inchieste svolte sul campo,
in gran parte costruite su materiali ricavati dall'esperienza
diretta, proprio quell'esperienza diretta che egli riteneva
molto scarseggiare presso i «sedicenti economisti»
(p. 61). Nelle opere di Kropotkin, l'insieme di questa sterminata
collezione di esempi concreti va a configurare un livello di
lettura parallelo di impagabile ricchezza, un inventario stupendamente
minuzioso delle attività umane (in Il mutuo appoggio
anche animali), dei frutti dell'inventiva e della fatica di
moltitudini anonime, che entra con competenza nel merito di
tecniche, ruoli, trucchi, lavorazioni e che testimonia di una
passione per la vicenda umana su questo pianeta che è
forse il vero fulcro della figura del geografo russo.
Anche nella versione ridotta che viene qui finalmente ristampata
e che Colin Ward aveva giustamente alleggerito di un notevole
numero di pagine, per farne un testo più agile e più
riferibile all'oggi, quest'opera può essere letta come
un meraviglioso inventario quasi alla Georges Perec dei mestieri
in uso in Europa tra diciannovesimo e ventesimo secolo: coltellinai,
posatieri, carradori, bottai, ciabattini, canestrai, carbonai,
sellai, produttori di ancore, catene d'ancora, marmellate, rocchetti,
stivali, bobine, macinapepe, merletti, biciclette, chiodi, viti,
coltivatori di alberi da frutta del tipo a «piramide»
o a «cespuglio», di uva, fiori, ortaggi primaticci,
fichi, uvaspina, ribes...
Contro il culto del gigantesco
Questa passione di Kropotkin per la dimensione concreta del
fare umano, e questa capacità di cercare e di trovare
in esso – come avrebbe poi sostenuto Colin Ward con una
metafora siloniana a lui molto cara – i «semi sotto
la neve» di una prospettiva libertaria già in atto
nella vita quotidiana, costituisce un vero e proprio topos
di una certa tradizione anarchica che prosegue con Orwell, lo
stesso Ward e Paul Goodman, che ne darà una spiegazione
di stringata semplicità: «Vedo che comprendo ciò
che non mi piace solo per contrasto con qualche proposta concreta
che mi sembra abbia più senso»2.
L'osservazione del lavoro degli orticoltori parigini contrapposto
al latifondo inglese (l'elogio della culture maraîchère
è un'attualissima prefigurazione dell'agricoltura di
prossimità), così come la lunga teoria di mestieri
e attività minute nel quale l'umano si realizza, tanto
diverse dalle celebrazioni delle masse al lavoro nella grande
industria che caratterizza molte teorizzazioni coeve e successive
della sinistra ortodossa, ci introducono a una delle questioni
che mi sembra rendano oggi la lettura di Campi, fabbriche,
officine particolarmente necessaria. È il tema della
soglia dimensionale come questione politica fondamentale.
L'intero libro è una documentata difesa delle attività
di dimensione piccola e intermedia: officine, piccola industria,
laboratori artigiani, piccole aziende agricole, produzione domestica.
Esse stimolano «la capacità mentale», «l'intelligenza»,
«l'inventiva del lavoratore» (p. 163): l'artigiano
ricava «godimento estetico dall'opera delle sue mani»,
il contadino può trovare «sollievo... nell'amore
dei campi e in un intenso rapporto con la natura» (p.
28). Kropotkin critica le discipline economiche stabilite e
la sinistra marxista per aver condannato e ritenuto obsoleto
«tutto ciò che non somigliava alla grande fabbrica»
(p. 140), e l'avversione dei socialdemocratici tedeschi per
l'artigianato, colpevole di ostacolare la concentrazione capitalistica
e con essa l'avvento del socialismo. Egli ne dimostra invece
l'immenso potenziale produttivo, confrontando i raccolti per
ettaro dei piccoli poderi con quelli della grande proprietà
agricola. Propone e registra l'esistenza già in atto
di forme di integrazione e ibridazione tra piccola industria
e agricoltura – anche in funzione di differenziazione
delle attività umane e di contrasto alla monotonia e
all'alienazione – molto simili a quelle che Gandhi proporrà
per i villaggi rurali dell'India3
(esempio oggi più difendibile di quello delle comuni
maoiste cinesi: uno dei pochi svarioni nel bellissimo commento
di Ward). Non semplifica, non traccia un quadro idilliaco dell'officina
artigiana e della piccola azienda agricola, ne evidenzia le
durezze e le difficoltà, individuando in particolare
nella questione della commercializzazione e distribuzione dei
prodotti un punto decisivo, indicando nell'autorganizzazione,
nella cooperazione e nello spirito comunitario – spesso
ostacolati dalle istituzioni – le vie per l'affrancamento
dall'intermediazione che tiranneggia e strangola la piccola
attività.
La rivendicazione dell'efficacia e dell'umanità della
piccola dimensione, e lo spirito pragmatico e inventivo con
cui Kropotkin la sostiene, è uno dei grandi tesori di
questo libro. Questa rivendicazione è oggi ancora più
necessaria di un secolo fa, in quanto quello che nel suo commento
del 1974 Ward definisce il «culto per il gigantesco»
(p. 182) è in continua e crescente adorazione, e con
i suoi effetti soverchianti di paralisi dello spirito civico
e i suoi corollari di moltiplicazione burocratica è una
minaccia a ogni principio democratico. [...]
L'etica delle dimensioni
Nel suo lavoro di attualizzazione di Kropotkin, su questo tema
Colin Ward fa più volte riferimento allo stupendo pamphlet
di Schumacher Piccolo è bello, a suo tempo divulgato
in Italia da Carlo Doglio, con così grande successo da
arrivare alla pubblicazione negli Oscar Mondadori, e oggi ingiustamente
quasi dimenticato. Ma negli stessi anni Settanta è stato
soprattutto Ivan Illich, introducendo il concetto di «controproduttività»,
a porre con grande chiarezza la questione della dimensione come
tema etico e politico, sostenendo che oltre una certa soglia
dimensionale ogni strumento o intervento comincia a sortire
gli effetti opposti a quelli per il quale era stato concepito,
e analizzando poi questa dinamica nei campi della salute, dell'energia,
dei trasporti, dell'educazione, dell'abitare.
C'è oggi molto bisogno di ricostruire una seria cultura
dell'attività di piccola dimensione, indipendente ed
eticamente motivata: la piccola impresa è sempre più
risucchiata da sottoculture e retoriche di diverso segno, che
hanno tendenzialmente come esito comune la sostituzione della
passione civica per il mestiere con il valore dell'accumulazione
del denaro. La mentalità del business fagocita le nuove
forme possibili di piccola impresa e agricoltura anche attraverso
le retoriche delle start up, dell'artigianato digitale, delle
famigerate stampanti 3D, che oggi riempiono le pagine dei giornali
dedicate alla cosiddetta «innovazione» (termine
ormai divenuto sospetto, tutto da ridiscutere), esportando nella
piccola dimensione le logiche della grande concentrazione e
i suoi mefitici modelli: ricerca e sviluppo, investimenti, comunicazione,
grandi attrezzature tecnologiche, indebitamento bancario, ecc.
È una sottocultura megalomane che svuota le basi stesse
della piccola iniziativa, in quanto la vede solo come gradino
iniziale per arrivare al grande business. La crisi di questi
anni ha falcidiato in primo luogo l'enorme quantità di
attività che si era avviata su questo cammino letale
(e con un po' di cattiveria si potrebbe dire che ciò
sia stato uno dei suoi non pochi effetti positivi). Si tratta
invece di ricostruire in forma contemporanea la tradizione e
la cultura millenaria della piccola iniziativa a investimenti
quasi zero, la piccola attività di sussistenza con attrezzatura
minima indispensabile che non ha alcuna mira di espandersi e
che investe il più possibile solo in termini di impegno
ed energia metabolica: riattualizzare l'arte popolare di fare,
come dice Goffredo Fofi, «le nozze coi fichi secchi».
Questo testo classico di Kropotkin, in questa prospettiva, contiene
un immenso patrimonio etico e pratico.
Lavoro manuale e intellettuale
Tra le molte questioni cruciali per l'oggi che questo libro
propone c'è quella riguardante un aspetto specifico dell'organizzazione
del lavoro e dell'educazione: la divisione tra lavoro manuale
e lavoro intellettuale. Per Kropotkin la rigida separazione
tra queste due sfere, prodotta dal disprezzo per il lavoro manuale
e dal discredito per la dimensione pratica, e sistematizzata
dal sistema educativo, impedisce la possibilità di realizzazione
di una società realmente equa e di un'economia umana,
compromette la fioritura delle arti e la stessa pienezza di
vita delle persone. Il fatto che questa critica radicale alla
specializzazione appaia oggi quanto di più anacronistico
si possa pensare è il segno della profondità a
cui è giunto il baratro che separa queste due dimensioni,
e di quanto la struttura di questa separazione si sia consolidata,
al punto da renderne impensabile ogni messa in discussione.
Eppure la condizione umana nel tempo dell'informatica sta raggiungendo
livelli di rimozione della dimensione corporea, pratica, manuale
che sono quelli di una vera e propria mutazione; nell'esperienza
delle persone quello che Anders chiamava «fantasma di
mondo»4, attraverso lo
schermo, si va sostituendo al mondo reale: si compie quel processo
di «perdita dei sensi, della carne e del mondo»5,
di disembodiment6, che
Illich aveva descritto alla fine del secolo scorso. In questo
contesto, l'impensabile riconquista di un'integrazione tra lavoro
manuale e intellettuale predicata da Kropotkin ci appare così
né più né meno che una condizione indispensabile
per la sopravvivenza dell'umano. Oggi ancor più di allora,
coloro che osano tentare di ricucire questo divario, i pochi
individui sfuggiti «alla tanto decantata specializzazione
del lavoro... sono gli irregolari, i cosacchi che hanno
rotto le righe e sfondato le barriere tanto laboriosamente erette
tra le classi» (p. 197). Nell'ultimo capitolo egli rimanda
tra l'altro alle posizioni di John Ruskin, in merito al rapporto
tra arte e lavoro manuale.
Nel quadro della mutazione attuale, le idee di Ruskin su questi
temi, per esempio sulla necessità e umanità dell'imperfezione
o sull'«ornamento rivoluzionario» in architettura,
che erano state un po' imbalsamate dagli storici dell'arte,
vanno riconsiderate e ritrovano una carica radicale che ha molto
in comune con il pensiero di Kropotkin: «Al giorno d'oggi
facciamo di tutto per separare le due cose: vogliamo un uomo
che pensa sempre e un altro che lavora sempre; uno lo chiamiamo
gentiluomo, l'altro operaio. Invece l'operaio dovrebbe spesso
pensare, e l'intellettuale spesso lavorare, e sarebbero entrambi
gentiluomini, nel senso migliore. Così come stanno le
cose, li rendiamo cattivi entrambi: l'uno invidia, l'altro disprezza
il fratello; l'insieme della società è fatto di
intellettuali malsani e di operai miserabili»7.
Ma cos'è oggi il lavoro manuale? Non è quasi sempre
l'essere ridotti a «semplici inservienti di una determinata
macchina»? Forse oggi, quando ci è ormai spesso
negato il diritto di scegliere se impiegare una macchina o no,
proseguire il discorso di Kropotkin significa mettere in discussione
la macchinizzazione indiscriminata, l'automazione estensiva
di tutto, anche alla luce delle profetiche implicazioni ecologiche
che percorrono quest'opera e che Colin Ward rende a più
riprese esplicite. Si tratta quindi di rimettere in questione
quello che Illich chiamava il «monopolio radicale dell'industria»
e, sfidando l'anacronismo, chiederci di nuovo se essa non debba
ritornare in una posizione ausiliaria; rivalutare le posizioni
di Gandhi contro l'automazione che crea disoccupazione; ripensare
in chiave contemporanea le «tecnologie intermedie»
di Schumacher, gli «strumenti conviviali» di Illich,
addirittura riconsiderare se la condanna di Marx per i movimenti
luddisti non sia stata un errore.
Giacomo Borella
Note
- Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844,
Einaudi, Torino, 1949.
- Paul Goodman, Preface, in Utopian Essays and Practical
Proposals, Random House, New York, 1962.
- Mohandas K. Gandhi, Villaggio e autonomia, Libreria
Editrice Fiorentina, Firenze, 1982.
- Günther Anders, L'uomo è antiquato, 1. Considerazioni
sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale,
Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
- Ivan Illich, La perdita del mondo e della carne, in
Id., La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze, 2009.
- Ivan Illich, I fiumi a nord del futuro, Verbarium-Quodlibet,
Macerata, 2009.
- John Ruskin, La natura del gotico, Jaca Book, Milano,
1981.
I
contorni di una società più equa
L'importanza di questa riflessione a tutto campo sull'integrazione
tra città e campagna e tra lavoro manuale e intellettuale
sta nell'aver anticipato di oltre un secolo molti dei
problemi con cui ci confrontiamo oggi. Dietro le soluzioni
proposte da Kropotkin, che sfidano con ironica semplicità
il pensiero totalitario e la sua costruzione piramidale
dello spazio e dell'immaginario sociale, c'è una
concezione dell'uomo e del vivere in società che
delinea i contorni di una civiltà ecologica quanto
mai attuale dopo il dissennato saccheggio del mondo e
dell'animo umano cui abbiamo assistito. Come ben evidenzia
Colin Ward nel suo ingegnoso lavoro di attualizzazione
della visione kropotkiniana, la forza di questo classico
anarchico sta nel fornirci gli strumenti teorici e pratici
che ci consentono di prefigurare una società più
equa e sostenibile, capace di riappropriarsi del suo futuro.
Pëtr Kropotkin (1842-1921) è considerato
uno dei padri fondatori dell'anarchismo. Ma al contempo
è stato un noto scienziato e le sue ricerche sono
ancor oggi considerate fondamentali per discipline come
la geografia sociale, l'urbanistica e l'ecologia.
Dalla quarta di copertina del volume Campi, Fabbriche,
Officine di Pëtr Kropotkin a cura di Colin Ward
(Elèuthera, 2015, pp. 240, € 15,00).
Il libro uscì per la prima volta (in inglese)
nel 1898. Nel 1974 per Freedom Press Colin Ward curò
una versione accorciata e commentata che venne in seguito
pubblicata dalle Edizioni Antistato nel 1975.
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