persone
Non bambinologo né pedagogista
contributi di Giacomo Pontremoli, Celeste Grossi, Angelo Petrosino, Filippo Trasatti e due scritti di Giuseppe Pontremoli
Così si autodefiniva Giuseppe
Pontremoli, al quale è stata dedicata recentemente una
giornata di studi all'Università degli Studi di Milano
- Bicocca. Pontremoli è stato una delle figure più
interessanti e stimolanti del “mondo pedagogico”
negli ultimi decenni. Di segno profondamente libertario. A lui
abbiamo già dedicato un dossier su “A” 310
(estate 2005) dal titolo Dalla
parte dei bambini (e della libertà).
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Giuseppe
Pontremoli (1955-2004) |
A mio padre
di Giacomo Pontremoli
Essere “nonbambinologi; nonpedagogisti”.
Vedere i bambini nella loro realtà individuale. Questa una delle caratteristiche dell'approccio e della pratica educativa di Giuseppe Pontremoli, nel ricordo del figlio Giacomo.
Le persone non muoiono: restano incantate.
João Guimarães Rosa
Scrivere di mio padre è misurarsi con il grado di conoscibilità e di verità che le parole possono o non possono dare. Restituirlo senza mistificarlo, e senza eludere la mia realtà di figlio, e, infine, saperlo comunicare a chi legge senza perdere la realtà di lui, di me stesso e di chi legge. È stata questa la ragione della mia difficoltà di fronte alla proposta di introdurre il suo ricordo su queste pagine. E la ragione per cui non parlerò qui di lui direttamente; di quello che ha significato per me la sua morte, la ricchezza della sua presenza nella mia infanzia, la centralità della sua memoria, la mia ricerca della sua vita e della sua storia dopo averlo perduto, dieci anni fa, nell'aprile del 2004, otto mesi prima che compisse cinquantanove anni, sei prima che io ne compissi undici.
La paura di dire qualcosa che possa impoverirne la verità riguarda anche il suo lavoro e i suoi scritti. L'agiografia persuade o respinge? L'analisi capillare illumina o annebbia? I riassunti dànno nell'essenziale o riducono? Come è stato ricordato in una recente, generosa giornata autunnale all'università Milano-Bicocca (di cui riferisce qui Celeste Grossi della rivista école), ma anche nel bellissimo ricordo di Alfonso Berardinelli, e di Cesare Pianciola sul n. 25 della rivista “Gli asini” (che pubblica un suo scritto del 1992), mio padre è stato maestro di scuola per scelta. Scelta priva di falsa coscienza e di feticci, quotidianamente interrogata e animata dal problema inquietante dei fini e dei mezzi e della quota di mistificazione attuata dalla “Principessa Pedagogia” a danno della variegatissima e irripetibile realtà dei bambini: “Avendo a che fare ogni giorno con loro se ne vedono tanti, ma mai un Bambino, e si scoprono in loro mille bisogni, e poi desideri, folate impetuose di voglie. E avere a che fare ogni giorno con loro non è senza eco, e insegna qualcosa. Ad esempio, che forse i nemici più grandi sono il Mito e la Mistica, quando invece sarebbe sufficiente guardarli, i bambini. E infatti le cose più chiare su loro le han viste e le han dette coloro che hanno guardato i bambini e le cose d'intorno. Il più delle volte fuori dei luoghi deputati; o anche dentro, ma lavorando fitto per intrecciarlo al fuori, questo dentro.” (Bambini e bambinologi. La triste spocchia della Principessa Pedagogia e la necessità di ridiscutere le immagini generiche e di comodo dell'infanzia, “Linea d'ombra n. 33, dicembre 1988).
Essere dunque “nonbambinologi; nonpedagogisti”. Vedere i bambini nella loro realtà individuale. Rispondere vivamente, in prima persona, alla loro esistenza, in un duplice atto di coraggio: la costruzione di un argine all'indifferenza, l'ignavia, l'accettazione, l'umiliazione, l'abbrutimento; il rifiuto del compiacimento oracolare per un ruolo di potere assunto secondo una missionaria vocazione manipolativa e correttiva (rifiuto lucido, responsabile, attento). Sapere che i bambini non sono “piccoli adulti”, esseri umani a metà da completare, percorritori di uno stadio transitorio e inferiore della vita umana; che sono già persone intere. Evidentemente il contesto è tale da costringere a pronunciare delle costernanti ovvietà. Anche perché “ancora una volta, oggi più che mai, i bambini sono soli. Eppure si potrebbe forse proprio imparare da loro”.
Il tempo (per leggere) rosicchiato qua e là
La letteratura, la lettura, aveva senso nel suo lavoro di insegnante
perché l'aveva nella sua vita. Era un “fatto personale”.
Non ero un suo alunno, non conosco la sua quotidianità
scolastica, in cui leggeva ad alta voce in classe; ma so perfettamente
cos'è stato per me sentire, vedere, nella sua voce, Long
John Silver e Jim Hawkins, Tom Sawyer e Mowgli, Bilbo Baggins
e Pinocchio, Atreyu e il GGG, Medardo di Terralba e Amnon Feierberg.
Imporre la letteratura ai bambini senza amarla, per principio
o per dovere scolastico, nel migliore dei casi è solo
il triste segnale di una rimozione del lettore libero e autonomo
che si è pure stati prima di preferirvi le intimidazioni
dei “logotecnocrati”... Viceversa far partecipare
i bambini ad essa come al proprio amore, come qualcosa che riguarda
la nostra vita e la loro, che può fargliela e farcela
comprendere e aprire, è l'unica cosa che la vivifica
e rispetta. Se non si ama la letteratura personalmente,
è allora utile chiedersi non solo come insegnarla,
ma perché; perché mai.
Se “la lettura è un atto anarchico” (Hans-Magnus
Enzesberger), se “fa pensare, può farti libero
e ribelle” (Heinrich Böll), leggere a scuola, leggere
ai bambini, era una “azione spregevole”, una deviazione
dal programma e dai doveri scolastici: per leggere una storia
– non una storia a caso, s'intende; non qualsiasi libro
– era necessario “rosicchiare il tempo qui e là”.
Farlo con i bambini, prima ancora che per loro.
Questo può essere detto: non trovo differenze tra quel
che ha scritto e lui stesso. Il rapporto fra le parole dei suoi
libri, e ciò che è stata la mia infanzia, è
radicale. Penso a quanto ancora oggi conservano i suoi ex alunni.
Sono i miei coetanei. All'universitario ricordo pubblico d'autunno
la loro presenza e la loro testimonianza è stata un regalo
straordinario. Siamo tutti stati, diversamente, bambini presso
di lui; ora siamo cresciuti. Se aveva ragione Alioscia Karamazov,
se per salvarsi è necessario avere dalla propria infanzia
“buoni e santi ricordi”, questo ha lasciato mio
padre sul mio e sul nostro futuro. Non tutto è perduto,
anche se molto è perduto.
Giacomo Pontremoli
Il maestro che suonava i libri
di
Celeste Grossi
Nella sua rubrica sulla rivista école, Giuseppe
Pontremoli sottolineava l'importanza della lettura per lo sviluppo
dei bambini. Perché crescessero liberi e ribelli.
Con la sua rubrica “Leggere negli anni verdi” su
école, Giuseppe Pontremoli ha guidato maestri
e maestre dentro un bosco di storie e ha creato percorsi di
lettura con i quali accompagnare le bambine e i bambini nel
crescere, accompagnarli a diventare delle donne e degli uomini
liberi, delle donne e degli uomini di pace.
Giuseppe Pontremoli era venuto a sapere da Heinrich Böll
che «leggere fa pensare, può farti libero e ribelle»
e questo per Giuseppe era assolutamente essenziale. Giuseppe
diceva (cito da Elogio delle azioni spregevoli): «[...]
raccontare storie ai bambini, aiutarli a crescere, aiutarli
a imparare a vivere. Vivere. Crescere. Non: sopravvivere; non:
trascinarsi; non: adeguarsi all'esserci consentendo comunque».
Per Giuseppe le bambine e i bambini sono dotati di qualità
diverse, speciali, sono esseri umani interi; l'infanzia non
è un transito verso il futuro, uno stadio inferiore dell'essere
umano. La passione per la letteratura e per l'insegnamento che
si trova in tutto ciò che Giuseppe ha scritto, è
una passione travolgente e contagiosa.
Giuseppe è stato un maestro elementare da quando aveva
vent'anni, è stato maestro per passione, non per ripiego,
e come scelta di impegno civile, come scelta di impegno esistenziale,
è stato un maestro di libertà e di pace. Giuseppe
pensava, e lo scriveva, che fare scuola è un compito
globale. Aveva una convinzione assolutamente ferma, fermissima:
«per le bambine e i bambini l'essenziale è che
possano vedere qualcuno che ascolta, parla, legge, scrive, dubita,
riflette, si emoziona, scava e non si accontenta e non si basta
e scruta e scruta e racconta e racconta e cammina cammina; e
tutto dentro la situazione, quella lì, con tenerezza
e furia, con passione».
Giuseppe in école non è stato solo il rubrichista
di “Leggere negli anni verdi”. È insieme
a Giuseppe che abbiamo scelto che la nostra rivista avrebbe
avuto uno stile narrativo che privilegiasse il racconto di chi
la scuola la abita, delle relazioni tra le persone che nella
scuola si intrecciano.
Giuseppe, anche quando in redazione parlava di una circolare
ministeriale, raccontava una storia. Giuseppe ci manca molto,
fortunatamente ha scritto tanto e possiamo ancora averlo con
noi.
Nel decennale della scomparsa di Giuseppe noi di école
abbiamo voluto ricordarlo con la pubblicazione di Giuseppe
Pontremoli, maestro1. L'e-book
(a cura di Celeste Grossi, Cesare Pianciola, Giacomo Pontremoli,
Andrea Rosso, Gianpaolo Rosso, Stefano Vitale, Idee per l'educazione/école,
novembre 2014) è stato presentato a Milano il 24 novembre
2014, nel giorno in cui Giuseppe avrebbe compiuto 59 anni, nel
corso dell'incontro La nonpedagogia di Giuseppe Pontremoli.
Bambini e bambinologi, promosso da Ivano Gamelli all'Università
Bicocca2.
Celeste Grossi
direttrice di école
www.ecolenet.it
Note
- All'indirizzo https://ecoleedit.wordpress.com/2014/11/24/giuseppe-pontremoli-maestro/
l'e-book si può scaricare o leggere on line.
- All'indirizzo https://ecoleedit.wordpress.com/2014/11/27/giuseppe-pontremoli-alla-bicocca/
si possono trovare i video di alcuni interventi svolti nell'incontro
del 24 novembre 2014.
Uno che sapeva schierarsi
di Angelo Petrosino
L'insegnante, l'uomo, il poeta e tante altre cose nel ricordo
di un collega.
Negli anni Novanta del secolo scorso, oltre a scrivere libri
per bambini, scrivevo saggi, articoli, storie in cui parlavo
di infanzie difficili. Un giorno mandai una di queste storie
alla rivista Linea d'Ombra, della quale Giuseppe era
uno dei principali redattori. Credevo che fosse una rivista
inaccessibile per me. Invece quasi subito dopo l'invio del mio
testo, mi arrivò una telefonata di Giuseppe. Mi disse
che la storia era piaciuta, che volevano pubblicarla e mi invitò
ad andare a trovarlo nella redazione della rivista a Milano.
Fu l'inizio di una bella e lunga amicizia. Scoprimmo subito
di avere in comune tante cose. Prima di tutto un'idea precisa
di infanzia. Giuseppe, oltre che raffinato lettore, giornalista
e critico, era soprattutto un maestro. Uno che, come me, si
misurava giornalmente nell'aula di una scuola con bambini dalle
storie complicate, con piccole vite che chiedevano all'adulto
di aiutarle a realizzarsi e a non essere schiacciate da noia,
pregiudizi e stereotipi.
Parlavo
spesso con Giuseppe del nostro lavoro di insegnanti, del nostro
proposito di schierarci dalla parte dei bambini come adulti
lucidi, concreti, affidabili. Ci dicevamo come fosse importante
ascoltare i bisogni dei piccoli, liberare le loro menti, difenderli
dalle manie e dalle ossessioni dei grandi che aspiravano a farne
docili esecutori in casa e nella società.
Il rispetto per i bambini, per la loro intelligenza, per la
loro voglia di vedere il mondo con occhi curiosi e non velati
da luoghi comuni erano per me e Giuseppe dei punti fermi sui
quali ragionavamo con passione.
Sia lui, sia io sapevamo come fosse essenziale allargare gli
orizzonti mentali dei bambini nutrendoli con vaste letture.
Le letture di Giuseppe ai suoi alunni erano per me sempre una
sorpresa. Lui era molto audace nelle proposte che faceva alla
sua classe. I libri che leggeva ai bambini erano quelli che
parlavano di piccoli eroi assetati di conoscenze, di avventure,
di libertà. Libri nei quali si mettevano alla prova senza
paura, scontrandosi con adulti meschini, ma entusiasmandosi
per altri con i quali potevano entrare in trepida complicità.
Come L'isola del tesoro di Stevenson, per esempio, uno
degli autori più amati da Giuseppe. Attraverso libri
come questo, Giuseppe coltivava una infanzia inquieta, avida
di futuro. Non mi ha mai parlato direttamente della sua infanzia,
forse per pudore, per una riservatezza tipica del suo carattere.
Ma per me era facile intuirla attraverso i suoi discorsi sull'infanzia
altrui. Voleva per i suoi alunni e per i bambini ciò
che aveva sicuramente desiderato per sé da piccolo: insofferenza
di vincoli, di impacci mentali, capacità di sognare.
Silvio d'Arzo, Elsa Morante erano due dei suoi autori prediletti
per la loro capacità di guardare lontano e di schierarsi
dalla parte dei più deboli.
Giuseppe era uno che sapeva schierarsi, senza chiasso, ma con
severità e rigore. E i suoi scritti, nati da un impegno
quotidiano per capire come cambiava la società e come
i cambiamenti influivano sull'infanzia, restano ancora oggi
una preziosa testimonianza. Sono nello stesso tempo un'espressione
di resistenza e di coraggio. Sui principi Giuseppe non transigeva,
non era per gli accomodamenti di convenienza, che possono salvare
se stessi ma finiscono sempre per danneggiare qualcuno.
Assumersi le proprie responsabilità
Gli scritti di Giuseppe erano sempre ben pensati e a lungo
e meditati: la superficialità non è mai stata
nelle sue corde e si adontava quando la vedeva praticata dagli
altri. Le sue parole erano un invito a tutti ad assumersi le
proprie responsabilità, a non rinchiudersi nel proprio
guscio.
I testi usciti nella rubrica Gli anni verdi per rossoscuola
si leggono ancora oggi con grande piacere.
Giuseppe conosceva la forza della scrittura, la capacità
delle parole di cambiare prima se stessi e poi il mondo. Perciò
la praticava costantemente in classe.
Ho letto molti dei testi creati dai suoi alunni. Giuseppe era
orgoglioso di quei testi. I bambini non scrivevano per compiacere
il maestro, come spesso accade, ma per dar voce alla loro irrequietezza
interiore e al loro empito di libertà. Il suo compito
di maestro era proprio questo: restituire i bambini a se stessi
per farne un giorno adulti senza catene. Il lavoro diuturno
del maestro, quello che gli altri non vedono, con i suoi gesti,
le sue parole, i suoi comportamenti, contava tantissimo nella
vita di Giuseppe.
Sapeva che sarebbe rimasto a lungo nella memoria dei piccoli,
come traccia di giorni preziosi: quelli dell'incontro con un
adulto che seppe accoglierti e rispettarti per come eri.
Giuseppe amava molto anche la poesia. Il giorno in cui mi fece
leggere le poesie che scriveva, rimasi incantato dalla loro
leggerezza, dalla loro ironica irriverenza, dalla lieve malinconia
che sembrava riverberarsi sul senso profondo della vita.
Ne parlai con Gabriella Armando, che aveva pubblicato un paio
dei miei libri, e fui felice quando decise di far uscire le
poesie di Giuseppe nel volumetto Rabbia Birabbia, illustrate
da Franco Matticchio, un illustratore che Giuseppe venerava.
Quante volte le ho lette e rilette ai miei alunni…Tra
quelle poesie ce n'è una che è quasi il ritratto,
per me, di Giuseppe: un uomo libero, franco, generoso. La poesia
si intitola Canzonetta d'amore per il vento e le ultime
due strofe dicono:
È libero e sorride
entra in ogni avventura
compie mille magie
non ha alcuna paura.
Fa parlare le foglie
porta voci e canzoni
non si cura del tempo
ed è senza padroni.
Angelo Petrosino
Quella passione di lettore straordinario
di Filippo Trasatti
Così il nostro collaboratore ricordava Giuseppe Pontremoli
all'indomani della sua scomparsa.
In ogni libro letto, c'è un libro da
leggere che nessuno leggerà. Ogni morte è prematura.
/ Spiagge sono le pagine del libro. / L'oceano è stupore
del vento. / Umidi sono i bordi dell'infinito
Edmond Jabès
Ho conosciuto Giuseppe Pontremoli molti anni fa, in occasione
della preparazione di un numero di Volontà dedicato
all'educazione, “Il bambino tra autorità e libertà”.
A dimostrazione che le prime impressioni ingannano, al primo
incontro mi è sembrato difficile, quasi scontroso, quasi
come la sua scrittura irruente un po' scabrosa. Mi avevano colpito
nell'articolo scritto allora, “Cattivi maestri”,
l'attenzione per i bambini e l'amore per i libri che leggeva
e citava come doni per il lettore. Non ci voleva poi molto a
scoprire la sua generosità e la sua cura per le persone
che incontrava.
Era allora nella redazione di Linea d'ombra, diretta
da Fofi. Più tardi ci siamo rincontrati e mi ha invitato
ad entrare nella redazione di école, dove siamo
stati insieme per anni. Teneva una rubrica di libri, “Leggere
negli anni verdi”, che era una miniera di tesori: trovavi
scrittori classici, insieme a sconosciuti, tenuti insieme dalla
sua passione di lettore straordinario.
Ma soprattutto Giuseppe era un maestro e in particolare un maestro
di lettura. Girava per le scuole, e dovunque lo chiamassero,
per mostrare, con la sua voce profonda e straordinaria, che
leggere può diventare sempre di nuovo un'avventura, che
le storie sono boe essenziali per la navigazione nella vita,
e che cosa vuol dire veramente amare i libri, non come oggetti,
ma mondi viventi.
Il 9 aprile del 2004 è morto a Milano, dopo una malattia
che l'ha distrutto in pochi mesi. Era appena uscito il suo libro,
Elogio delle azioni spregevoli, per le edizioni L'ancora
del Mediterraneo, dove accanto a squarci autobiografici, ci
sono tutte le sue passioni, il suo mondo, i libri, personaggi,
bambini, maestri.
Filippo Trasatti
Originariamente apparso in “A” 300, giugno 2004
Il nuovo feticcio del bambino cognitivo
di Giuseppe Pontremoli
In questo scritto del 1989 Giuseppe Pontremoli destruttura una
nuova moda psico-educativa. E oppone il proprio approccio “dalla parte dei bambini”.
Ormai si chiude, il secolo. E ne ha visti cadere, di miti e
di mode, di fasti e di gesti, di ruoli e di voci, che magari
a loro tempo sembravano eterni. Eppure qualche cosa, e non delle
migliori, sembra piuttosto intenzionata a sopravvivergli. Più
d'una, ma qui voglio dirne una sola.
Proprio nel 1900, quando nasceva il secolo, Rilke scriveva le
Storie del buon Dio (ripubblicate ora nella TEA, nella
traduzione di Vincenzo Errante e con una bella introduzione
di Fabrizia Ramondino), e in una aveva messo un maestro che
“diceva, aggiustandosi di continuo gli occhiali sul naso:
'lo non so chi abbia raccontato questa storia ai bambini.
Ma ha fatto, comunque, malissimo a sovraccaricare e a tendere
la loro fantasia con simili mirabolanti invenzioni. Si tratta
d'una specie di fiaba...' “Questo nel 1900. Oggi, quando
il secolo chiude, è ancora così. Largamente. Certo,
con vari distinguo e varie eccezioni, però largamente
così. Tra i tanti di oggi che sono così alcuni
lo sono per perfidia e paura; altri invece lo sono con un bell'animo
lieto tutto impregnato dell'ultimo culto - ch'è un modo
comunque di avere paura. Da riviste, convegni, università,
IRRSAE, case editrici, sedi di partito, sindacati, si strilla
con concitazione: “Basta con l'educazione! Primato dell'istruzione!
Viva il bambino cognitivo!”. Qualcuno è solamente
in buona fede, giusto perché s'è accorto che i
vecchi programmi della scuola elementare parlavano di qualcosa
che proprio non esiste: Il bambino tutto intuizione, fantasia,
sentimento. Altri in fede non altrettanto buona. A mancare è
invece, chi abbia il coraggio di dire che si tratta d'un altro
prodotto del fertile ventre dell' impero, eppure non sono pochi
coloro che dovrebbero sapere - ma forse aveva davvero ragione
Pasolini nel suo Gennariello (in Lettere luterane,
Einaudi, 1976) quando parlava della “invincibile ansia
di conformismo”.
Trovare un rimedio vero
Il segno è lo stesso che caratterizzava l'idea del bambino
tutto intuizione, fantasia, sentimento: schematizzazione riduttiva,
nel migliore dei casi; ideologia, falsa coscienza, comunque.
Ma i bambini, per loro fortuna - e per quella di tutti - sono
un po' più variegati, e dentro questi schemi non ci stanno.
Forse ci sta il Bambino, ma i bambini veri no, perché
sono fatti anche di fantasia, ragione, riflessione, sentimento,
corpo, passioni. E tutti in misura diversa, perché intervengono
in loro - così è per tutti - mille cose. E ci
sono quindi bambini ricchi e bambini poveri; bambini assediati
e bambini abbandonati; quelli che hanno la colf e quelli che
hanno l'assistente sociale; alcuni hanno dei fratelli, altri
dei televisori, altri fame, altri la puzza sotto il naso. E
così ci sono bambini tristi, allegri, noiosi, antipatici,
saggi, saccenti, arguti, crudeli, teneri, costruiti, affettuosi,
spontanei, ricci, estroversi, fantasiosi, appassionati, silenziosi,
cocciuti, parolai, simpatici... - ognuno può proseguire,
basta guardarsi intorno.
La rivendicazione “tecnicistica” a me pare una spia
significativa d'una crisi e di un vuoto; ma la necessità
di fare fronte a un vuoto non dovrebbe portare semplicemente
a cercar di coprire il buco, quanto piuttosto a cercare di trovare
un rimedio vero, di riempire il vuoto con il quanto di meglio
- il meglio di sé, della propria storia. E quindi innanzitutto
con le proprie passioni e le proprie storie. Succede invece
che, in assenza di un progetto sociale ed esistenziale, si mettano
pezze, e magari anche di raffinata eleganza, di suggestiva forbitezza,
scientificamente (?) fondate. Allettanti, quindi, ma pezze,
nient'altro che pezze; che puzzano, in ogni caso, d'ansia di
conformismo, d'ansia di potere e consenso.
Nelle Storie del buon Dio la “dimensione pedagogica”
è insistita: Rilke le dedicò alla pedagogista
Ellen Key; contengono diversi bambini; riferiscono a più
riprese del fatto che i bambini quelle stesse storie le hanno
risapute, trasmesse, capite, apprezzate, cambiate, amate, vissute;
avevano come sottotitolo “Ai grandi perché le raccontino
ai bambini”. Fabrizia Ramondino, nell'introduzione, interrogandosi
sul senso di quel sottotitolo, scrive: “Alla luce anche
delle numerose critiche di Rilke alla scuola e alla pedagogia
del suo tempo (e, a mio avviso, del nostro), io lo intendo così:
solo i grandi che hanno mantenuta viva in sé la rivelazione
di Dio, che come tutti i bambini hanno ricevuto nell'infanzia,
anche se non sapevano che era lui, saranno in grado di raccontare
storie ai bambini, cioè di aiutarli a crescere; e mantenere
viva in sé questa rivelazione altro non significa che
disseppellire il bambino che è in loro.” Raccontare
storie ai bambini, cioè aiutarli a crescere, aiutarli
a imparare a vivere - e che raccontare sia essenziale per vivere
lo si impara per esempio anche da Shahrazàd, che, per
mille e una notte, salva la propria vita raccontando.
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école, la rivista dell'associazione Idee
per l'educazione, è uno spazio telematico che si apre
con A scuola di libertà, un breve testo per presentare
la nostra idea di scuola. Vi sono riportate le “parole”
su cui converge la redazione di un'impresa culturale “senza
linea”, di voci plurali, che coltiva il dubbio come modalità
di approccio ai saperi.
L'indirizzo dello spazio telematico, strutturato in una trentina
di blog tematici, è www.ecolenet.it.
La produzione editoriale di école è a disposizione
di tutti in forma completamente gratuita. I lettori possono
aderire all'associazione Idee per l'educazione che è
proprietaria della testata. L'indirizzo della redazione è
via Magenta 13, Como, tel. 339.1377430, mail coecole@tin.it. |
Ma i bambini sono bambini
Vivere, crescere. Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non:
adagiarsi all'esserci consentendo comunque. Vivere e crescere
- cambiare, quindi; magari guardando e prendendo in mano il
Qui, per progettare un Altrove che non si trovi altrove ma sia
qui, che sia il Qui trasformato. Allora però è
necessario che dietro il raccontare, prima del raccontare, ci
sia qualcosa di enorme, come il senso stesso della propria esistenza.
Una passione vera, almeno, che muova ed accompagni - che perseguiti,
forse; che non lasci respiro al respiro affannoso, all'arrancare,
e che aliti invece il proprio respiro ampio. Si può chiamare
amore, dolore, Dio - ognuno ha la propria storia -; non è
il nome che conta, quel che è essenziale è che
la rivelazione ci sia e sia mantenuta viva e alimentata: con
passione, con disponibilità a stupirsi e a rinnovare
lo stupore.
Si oscilla spesso - maestri, genitori - tra due modi di porsi
in rapporto ai bambini. Da una parte sta la schiera dei burrosi
che, in un' orgia di diminutivi e leziosaggini, bamboleggiano
tristamente e ridicolmente e comprimono i bambini in un preteso
“mondo dell'infanzia” intollerabilmente falso; dall'altra
sta l'armata dei seriosi pontefici, torrenziali e cupi elargitori
di sentenze che non sanno vedere altro che sé - un sé
imperiale, invasore, cui l'altro deve solo assoggettarsi. Eppure
l'infanzia è un tempo non eludibile della vita di ogni
uomo e dovrebbe essere considerata come tale. E si dovrebbe
acquisire come qualcosa ben provvista di senso quella che solo
apparentemente è una sciocca tautologia: i bambini sono
bambini. Questo, però, avviene soltanto raramente: tra
i due blocchi valoriali e comportamentali costituiti da pigrizia-cinismo-razzismo
da una parte e conoscenza-solidarietà-apertura dall'altra,
è oggi sempre il primo a prevalere. Eppure, davvero,
i bambini sono bambini e nient'altro. Non sono adulti; non sono
piccoli adulti; sono solo (solo?) esseri umani che percorrono
un tempo specifico del loro essere, camminando camminando, esseri
umani. E questo loro tempo specifico è un tempo in cui
i confini tra quel che si vuole e quel che si respinge sono
davvero netti, e maggiori che in ogni altro tempo sono la permeabilità
e la disponibilità, grandi almeno quanto lo è
la severità nel giudicare. Chi fosse disposto a accantonare
pregiudizi, cecità e intenti colonialistici vedrebbe
che i bambini sono tutt'altro che impermeabili e impenetrabili;
si potrebbe anzi dire che siano in generale piuttosto spalancati
e spugnosi, pronti a lasciarsi riempire e impregnare - con ingordigia,
anche, avidi di tutto. Per le “rivelazioni” è
un tempo in cui la luna è nella fase giusta. È
dopo, è dopo aver avuto che rigettano, che espellono
il superfluo e il flaccido, l'informe; è dopo che lasciano
cadere le aperture, che la spugna rinsecchisce e s'aggrinza.
“Vivere è una faccenda molto pericolosa”,
dice ripetutamente il narratore di Grande sertao di Guimaraes
Rosa; e lo si scopre tutti” e non solo per gli inevitabili
inciampi nelle insidie, nei trappoloni biologici e storici,
più e più volte. Anche i bambini. Malattie, sbucciature,
ferite, schiaffi, sgridate, maniglie irraggiungibili, silenzi;
e poi il buio, la pioggia, l'arrivo di un fratello che si ruba
la mamma, e la biglia caduta nella grata, l'amico che non viene,
le figurine perse, la paura, le strade impraticabili, minacce
di vicini, amici che ti “staccano la pace”, parole
inascoltate, solitudini, complicità negate. La congiura
di natura e cultura comincia molto presto e non si ferma più.
E non c'è solo questo. Anche il “bene”, il
gioioso del vivere, il “pieno” del sentire e del
godere, contiene i suoi bei rischi, le sue insidie: l'immane
difficoltà di capire e sapere come vivere. Dal ripetuto,
insistito richiamo sull'imparare a vivere, non è difficile
essere storditi e sentirsi spossati; si cerca allora un'ombra,
ci si mette a sedere, e si sente più nulla.
Le antenne dei bambini
Spesso, quando un bambino piccolo cade, succede che da terra
guardi verso la madre restando un po' come in sospensione, quasi
a cercare in lei qualche indizio - di serenità o di ansia
- sul quale modulare il proprio andare oltre oppure soffermarsi,
la ripresa o lo sfogo, qualche spia che indichi se è
il caso di chiedere attenzione e conforto. E dopo questa esplorazione
che decide di rialzarsi e riprendere il gioco, la corsa, oppure
di piangere per chiedere così alla madre di andare ad
aiutarlo. Molte volte, per fargli riprendere forza e fiducia,
è sufficiente uno sguardo, qualche parola quieta, un
fiato di rassicurazione; per avere efficacia, però, sguardo
parola e fiato devono essere mossi, non dati una volta per sempre
e ripetentisi in un manifestarsi prevedibile quanto lontano.
Soprattutto devono essere come modellati sulla situazione -
non sulla condizione generalissima e quindi astratta di “bambino
caduto”, bensì su quella lì, di quel momento
e in questo modellarsi alla situazione di un bambino specifico
è necessario che si metta nel conto anche l'eventuale
inespresso, desiderio o paura che sia. Insomma, quel che conta
è che sguardo parola e fiato siano dentro la vicenda,
appartenenti davvero al rapporto di quel momento - tra il bambino
e la madre, tra bisogno e risposta al bisogno, tra disponibilità
e disponibilità, tra sfida e abbandono.
I bambini non hanno solo orecchie o solo occhi; hanno anche
antenne, e possono anche essere prodigiose, che usano per captare
e filtrare, fagocitare o respingere quel che gli ronza intorno.
E se il bambino piccolo caduto osserva e spesso agisce proprio
in conseguenza di quello che ha potuto captare con gli occhi
e con le antenne, il bambino più grande non è
che sia da meno - le antenne si perdono più tardi, quando
ci si comincia a ritenere “grandi”. E in tutto il
tempo dell'infanzia che le antenne funzionano, e questa è
una delle peculiarità; una tra le preziose, perché
consente di fare un pieno ben denso di memoria, dotarsi di uno
scrigno cui attingere poi anche in futuro. Ma qualora il captabile
altro non sia che il calcolo meschino, l'indifferenza cieca
e preventiva, il trascinarsi snervato tra malumori muti e strilli
isterici, l'attingere allo scrigno sarà poi solo una
pena rinnovata, e sarà ingurgitata magari contrabbandandosela
come beatitudine. Dice un bambino di una delle Storie
di Rilke: “E i nostri genitori, come si comportano invece?
Guardateli! Vanno intorno coi visi arcigni e imbronciati. Nulla
va loro bene. Urlano. Strapazzano. E, nonostante ciò,
eccoli lì, indifferenti a tutto.”.
Serve una piattaforma (per spiccare il volo)
Indifferenti a tutto, privi di passioni profonde, non sono soltanto
molti genitori; per esempio nelle scuole, d'ogni ordine e grado,
insegnanti così ce n'è quanti si vuole. E questo
è un dato piuttosto disperante, perché quello
dell'insegnante è un mestiere che offre molti spazi per
le “rivelazioni” - e questo non ha nulla a che fare
con la “missione”, ha molto a che fare invece con
il fatto che sono in ballo persone, persone vive, che hanno
voglia di vivere davvero e lo dicono forte tutti i giorni. A
questo riguardo c'è invece molta reticenza. Ragioni,
e responsabilità, ce ne sono diverse: dello Stato, del
sindacato, dell'istituzione, della categoria, delle persone:
tagli economici, formazione inesistente, stipendi sconfortanti,
boicottaggi morali e professionali, parole vuote, dolori privati,
burocrazia mortale, ingerenze concordatarie, mentalità
meschine, frustrazioni sistematiche, opportunismi, campagne
elettorali, falsi nemici, bambini di plastica, misconoscimenti,
latitanza dell'inventiva, “sociale” asociale, assenza
di progetti, genitori miasmatici, pavidità di generi
svariati... Già questo non è poco, e non è
tutto. E certo, pur non essendo tutto, è più che
sufficiente a scoraggiare; ma siamo qui, e questo essere qui
dovrà pur darsi un senso, sennò sarà insensato
anche il fatto di esserci. E allora direi che qualcosa si potrebbe
cercare di farla fin da subito: oltre che respirare sul collo
di qualunque ministro, e magari piantarci anche i denti, darsi
una piattaforma - nel senso sindacale e nel senso dello spazio
da cui spiccare il volo -; una piattaforma donchisciottesca,
da perseguire e praticare donchisciottescamente, che si ricava
dal Gennariello di Pasolini: “negli insegnamenti
che ti impartirò (...) io ti sospingerò a tutte
le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto
per ogni sentimento istitutivo. Tuttavia il fondo del mio insegnamento
consisterà nel convincerti a non temere la sacralità
e i sentimenti, di cui laicismo consumistico ha privato gli
uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di
feticci”.
Non sono qui a strillare reattivamente, o missionariamente,
“per l'educazione, contro l'istruzione”; voglio
solo dire che il “bambino cognitivo”rischia di non
essere altro che un nuovo feticcio. Adorarlo? No, grazie, non
è il caso, abbiamo già dato. Istruzione ce ne
vuole tanta, ai bambini è giusto far apprendere molto,
e facendolo si risponde positivamente a un loro bisogno, a una
loro richiesta; ma è necessario assumerli interi, perché
possano cominciare ad essere sapienti e non saccenti, perché
possano cominciare ad essere artefici appassionati del proprio
stare nel vasto mondo e non artifici appassiti ancor prima di
fiorire, perché possano capire e sentire il proprio sentire
e il proprio capire, perché possano cominciare a capire
e sentire che il proprio sapere può portare non soltanto
a consentire ma anche a divergere.
Però, ancora una volta, come il bambino piccolo caduto,
i bambini si guardano attorno. Si guardano attorno e imparano,
dai loro modelli. E possono imparare che si può ascoltare;
che si può parlare; che si può leggere; che si
può scrivere; che si possono avere e comunicare sensazioni
convincimenti e dubbi; che si può spaccare in quattro
un capello ma si può anche - ed è più divertente
- essere almeno in due o, meglio ancora, in quattro, ognuno
con almeno quattro diversi capelli da spaccare - in quattro,
e poi in quattro - e poi da intrecciare insieme; che un punto
di vista non è mai un punto ma almeno una montagna; che
si può capitare a Lilliput ma anche a Brondingnag; che
il vasto mondo è “grande. Ma tutto era ancora più
grande quando si ascoltava una cosa raccontata” (Guimaraes
Rosa, Una storia d'amore, Feltrinelli, 1989); che immaginare
e cambiare appartengono alle possibilità umane e sono
cose magiche proprio perché possono avvenire davvero;
che... mille e una altra cosa. L'essenziale è che possano
vedere qualcuno che ascolta, parla, legge, scrive, dubita, riflette,
si emoziona, scava e non si accontenta e non si basta, e scruta
e scruta, e racconta e racconta, e cammina e cammina. E tutto
dentro la situazione, quella lì, con tenerezza e furia,
con passione.
Un nuovo entusiasmo
Bisogna fare qualcosa, contro il maestro di cui parlava Rilke,
contro le sue tante reincarnazioni dei nostri tempi - perfide
o paurose che siano. Bisogna contrastare, contrapporre. E si
può contrapporgli, per esempio, una donna della Storia
d'amore di Guimarães Rosa: “Gianna Xaviel si
entusiasmava tutta. Una capacità, che nessuno regolava,
s'impadroniva di lei, in certi momenti. Il re, il vecchio re,
si teneva la barba, le mani piene di brillanti di oro di anelli;
il principe amava la fanciulla, recitava affettuosità,
esclamava e sospirava; la regina filava alla rocca e diceva
il rosario; il taf-e-zaf delle spade dei guerrieri indiavolava
nell'aria lì davanti: la gente vedeva il brandire delle
spade, che tintnivano, sfavillavano; sentiva tutti cantare le
loro battute, il suono quella voce dell'uno e dell'altro. Gianna
Xaviel diventava un'altra. Al chiarore della lanterna, c'erano
momenti in cui lei era vestita con abiti sontuosi, il volto
mutava, ingentiliva i lineamenti, anticipava le bellezze, diventava
sembiante. Uno si distraeva, aereo dal contenibile della figura
di lei, di quella - che era una bifolca di riva di fiume, grossa,
scura, con una salienza di gozio nel collo, donna piazzata
nei suoi quarant'anni, nessuno di meno, senza educazione. Ma
che ardeva ardore, si trasformava. Gli occhi prendevano di più,
emettevano lucori cupi, aggredivano. (...) Gianna Xaviel dimostrava
una forza per dentro, un'inclinazione selvaggia. Quando lei
cominciava a raccontare le storie, al chiarore della lucerna,
la gente riceveva un imbalordimento di illusione, quella ringiovanendosi
in bellezza, di colpo, una diavoleria di bellezza. (...) Cominciava
a raccontare storie - produceva uno strano incanto. Uno arrivava
ad eccitarsi, a sentir calore di andare con lei, di abbracciarla.”
A fronte di questo appassionarsi, forse, si può trarre
energia per un nuovo entusiasmo, un nuovo appassionarsi, per
dare vita e nutrimento adeguato alle urgenze interiori. Diceva
qualcuno che la forza di un uomo (e di una società) consiste
tanto nella capacità di inventare e progettare quanto
in quella di coltivarsi la memoria: e le storie altro non sono
che un crogiuolo di questa forza, perché in esse il prefigurato
e il sedimentato si saldano e si fondono, lasciando spazi ampi
tanto ai bisogni quanto ai desideri e operando fra questi e
quelli commistioni e scambi ben più che significativi.
E sono così, al tempo stesso, il percorso e la meta,
utili per attraversare tutto e arrivare dovunque. “Anche
questa è una storia?”, chiede ad un certo punto
un personaggio di Rilke. “No”, risposi. “È
un sentimento”. “E si potrebbe comunicarlo, in qualche
modo, ai bambini?”. Riflettei. “Forse...”.
“Ma come?” “Per mezzo di un'altra storia”.
Quale storia? E quali storie, in generale, per i bambini nostri?
C'è molto da dire, in merito, ma - come direbbe il Kipling
“senza trombe” delle Storie proprio così
e di Puck delle colline, e questo è già
un riferimento, seppur parziale e tendenzioso - ... ma, appunto,
questa è un'altra storia.
Giuseppe Pontremoli
Da “Linea d'ombra” n. 43, novembre 1989
Una vita tra i libri
Giuseppe
Pontremoli nasce a Parma il 24 novembre del 1955, ma cresce
nel paese di Varsi. Dopo una giovanile vicinanza, progressivamente
critica, all'area del PdUP (testimoniata da un lungo carteggio
con il filologo, saggista e critico Sebastiano Timpanaro,
conservato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa,
in cui emergono anche le ragioni biografiche e letterarie),
ed una generale attività politico-culturale in
Emilia, dagli anni '80 è insegnante in una scuola
elementare di Milano, svolge una attività di lettura
ad alta voce per bambini, e collabora con alcune riviste
(fra cui rossoscuola, école, Linea
d'ombra) per le quali si occupa di educazione, di
infanzia, di letteratura, e di letteratura per l'infanzia.
A Milano vive con la compagna Lia Sacerdote e il figlio
Giacomo, nato nel 1992.
Nel 1991, per le Nuove Edizioni Romane di Gabriella Armando,
pubblica il suo primo libro, la raccolta di filastrocche
Rabbia birabbia, cui seguiranno la curatela con
Cesare Pianciola della raccolta di autori italiani Leggere
gli anni verdi (e/o 1992), il romanzo per ragazzi
Il mistero della collina (Giunti 1994), la cura
de Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina
e altre storie di Elsa Morante (Einaudi Ragazzi 1995),
e i versi della Ballata per tutto l'anno e altri canti
(Nuove Edizioni Romane 2004).
Nel gennaio del 2004 pubblica presso la casa editrice
napoletana di Stefano De Matteis, L'ancora del Mediterraneo,
il saggio Elogio delle azioni spregevoli, apprezzato
da Alfonso Berardinelli, Francesco M. Cataluccio, Antonella
Tarpino, Paolo Lagazzi e Luigi Monti, e divenuto poi nel
corso del tempo un testo di riferimento per una particolare
area del pensiero pedagogico e culturale italiano.
Muore a Milano, per malattia, il 9 aprile dello stesso
anno, a quarantanove anni. Giocando parole, seconda
parte dell'Elogio delle azioni spregevoli, esce
postumo l'anno successivo, con una introduzione di Roberto
Denti, ancora per L'ancora del Mediterraneo. Sussiste
oggi la volontà di una ripubblicazione di entrambi
i titoli in un unico volume.
Giacomo Pontremoli |
Elogio delle azioni spregevoli, ovvero cinque anni di storie
di Giuseppe Pontremoli
Raccontare il raccontare.
E poi: le levatrici del paese, il libro più bello e tante
altre cose.
Vorrei, senza fare tante storie, raccontare una storia. «Vorrei»
nel senso che mi piacerebbe farlo, ma non la racconterò.
Non la racconterò perché, trattandosi della mia
storia di lettore forsennato, sarebbe troppo lunga. Infatti
essa dovrebbe necessariamente partire da alcune incantevolmente
stregonesche narratrici che ho avuto la ventura di ascoltare
nella mia infanzia. Inoltre dovrebbe includere la spregevole
azione che ho cominciato a compiere a sei anni. E dovrebbe altresì
articolarsi nel dire diffusamente dell' altrettanto spregevole
azione iniziata a vent'anni e poi dai vent'anni in avanti ribadita
con pervicacia crescente: crescente fino al punto di farmene
un vanto. Eviterò allora di raccontare quella mia lunga
storia e -giusto in nome del vanto - dirò solo, e di
corsa, di quelle due azioni spregevoli; poi racconterò
un' altra storia.
Per dire delle mie azioni spregevoli mi servirò però
delle parole d'un altro: il direttore del «Premiato Collegio
Minerva», il signor Tobia Corcoran. Questi, come racconta
Silvio D'Arzo in Una storia così, racconto risalente
alla fine degli anni Quaranta e pubblicato ora, per la prima
volta, in appendice a un importante libretto di saggi di Paolo
Lagazzi (Comparoni e l'«altro». Sulle tracce
di Silvio D'Arzo, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia), dirigeva
appunto il «Premiato Collegio Minerva»e non aveva
nulla di strano se non questo fatto: «aveva in testa soltanto
un'idea. (E non una alla volta, intendiamoci: no, il signor
Tobia Corcoran sotto il suo vecchio cappello aveva quella e
poi quella soltanto. [...]) Ed ecco qui la sua idea: «Uno
studente dai sei anni in avanti non può compiere azione
più immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante
che leggere libri che non siano i tre libri di testo. E a sua
volta un maestro dai vent'anni in avanti non può compiere
azione più infamante, allarmante, pericolosa, spregevole,
malvagia, immorale che far leggere libri che non siano i tre
libri di testo».
Sì, dai sei anni in poi ho letto ben altro che i libri
di testo. E poi, dai vent' anni in avanti - giacché è
da allora che ho cominciato a insegnare - ho fatto leggere libri
che non erano proprio i libri di testo.
È così. E così innesto qui l'altra storia.
Quella che non è poi neanche una storia, ma soltanto
un frammento di essa, di quella stessa storia: per la precisione
quel suo capitolo che si intitola Come e perché un
lettore forsennato cerchi di far coesistere questa propria essenza
libertaria con il proprio essere un normale insegnante di normali
bambini di normale scuola elementare.
Racconterò questo capitolo perché esso esiste,
e si snoda nel mio andare a scuola ogni giorno sempre tenendo
ben presente il convincimento che - poche storie - quel che
più conta per me sono le storie. Con tanti saluti al
signor Corcoran.
Certo, un ruolo decisivo nel formarsi di questo mio convincimento
l'hanno svolto quelle stregonesche narratrici - soprattutto
la levatrice del paese - ma poi si è via via consolidato,
ed è arrivato alla misura attuale anche per gli apporti
di altri, illetterati e non, raccontastorie. Da alcuni di essi,
oltre al grande piacere che ne ho preso per le vicende e le
voci, ho anche ricavato fondamenti, per così dire, teorici.
Uno di questi, per esempio, riguarda il quotidiano di ognuno,
in ogni tempo e paese, e proviene da un racconto di Isaac Bashevis
Singer, Naftali il narratore e il Suo cavallo Sus (Salani
1992). Dice infatti Reb Zebulun: «Quando un giorno è
passato, non c'è più. Che cosa ne rimane? Niente
più che una storia». Ma poi ce n'è un altro,
e riguarda qualcosa come la storia dell'umanità, e ne
parla Ursula K. Le Guin ne Linguaggio della notte (Editori
Riuniti 1986), là dove afferma che «ci sono state
grandi culture che non usavano la ruota, ma non ci sono state
culture che non narrassero storie» .
Ma non ce n'è solo per l'umanità e i suoi giorni:
ce n'è anche per Dio. Dice infatti il commissario de
La tempesta di Emilio Tadini (Einaudi 1993): «Io
credo che Dio abbia creato gli uomini perché lui adora
i racconti. Che cosa se ne farebbe, siamo sinceri, Dio, non
dico delle formule di un fisico, ma anche dei discorsi di un
professore che venisse a parlargli dell'ente o addirittura dell'essere?
Ma se qualcuno gli si alzasse da vanti dall'abisso della propria
miseria incominciasse a dire con un filo di voce «C'era
una volta», io credo che persino lui, l'Onnipotente, si
metterebbe comodo, e si disporrebbe ad ascoltare.»
Mille e mille potrebbero essere le testimonianze a riprova del
fatto che quello che più conta sono le storie, ma in
fondo forse potrebbe anche bastare il pensare a Sheherazad,
che salva la propria vita raccontando. E poi a me sembra che
- Misteri della Pedagogia - avendo a che fare con bambini si
impari più che mai che i c onti veri e profondi vanno
fatti, anzitutto e dopotutto, con la paura e la gioia. E dentro
il mio cuore pedagogico è il continuo pulsare di una
frase di Heine (”Da ragazzo lessi tanto che non ebbi più
paura di nulla”) e una di Elias Canetti: “Senza
libri le gioie marciscono”. Inoltre sono venuto a sapere
da Henrich Boll (Terreno minato. Saggi - Bompiani 1990)
che “leggere fa pensare, può farti libero e ribelle”,
e solo questo a me potrebbe bastare.
Racconterò allora una cosa che ho fatto a scuola negli
ultimi cinque anni, coi bambini della mia classe, limitandomi
a parlare delle narrazioni che si sono lette insieme. «Narrazioni
che si sono lette insieme» significa qualcosa di molto
preciso e definito: significa libri di racconti e romanzi, soprattutto.
Libri che io, insegnante, ho letto ad alta voce ai miei alunni;
non includo, quindi, tutto quel che si è letto in classe
né tutto quello che ognuno ha letto per proprio conto,
di propria iniziativa o dietro suggerimento, mio o di altri.
Sconfinata complicità
E dunque noi a scuola si leggeva. E siamo stati bene, molto
bene. Si rosicchiava il tempo qui e là, ci si sedeva
in circolo e io leggevo la storia. (Uso il tempo passato perché
parlo degli anni trascorsi, ma potrei usare il presente perché
anche con il nuovo ciclo si sta ripetendo l'attività.)
Io leggevo la storia, inevitabilmente a puntate, sussurrando
e gridando, emettendo rantoli di moribondo e grida incontenibili
di gioia, singhiozzi e risate, balbettando e cantando: infilavo
la voce nelle innumerevoli pieghe dei personaggi e degli eventi.
Alla
fine dei cinque anni ci siamo così ritorvati ad avere
letto un certo numero di libri (ottantatre), ai quali andrebbero
aggiunte le poesie e filastrocche pescate da moltissimi libri,
nonché un'infinità di singole fiabe popolari,
favole, leggende, narrazioni di miti.
Quali siano i libri si può leggere nell'elenco qui a
fianco, e potrebbe forse bastare, ma voglio aggiungere anche
qualche altra parola. E stata un'attività di sconfinata
complicità, un'iniziativa appassionata contro la solitudine
e contro la noia. È vero, ho sicuramente imposto le mie
scelte, ma devo anche dire che se è vero che i bambini
erano molto fiduciosi e disponibili fin dall'inizio, è
altrattanto vero che la fiducia è andata sempre costantemente
crescendo, ed è cresciuta non su basi fideistiche ma
a partire dall'accumulo di «buone esperienze». Inoltre,
spesso, le letture sono state fatte in conseguenza dell'emergere
di interessi specifici scaturiti per le più diverse ragioni.
E dirò anche di avere proposto diverse letture pensando
(paternalisticamente? colonialisticamente?) che non avrebbero
potuto affrontarle da soli in quel momento, e magari non avrebbero
più avuto l'occasione di farlo. È ovvio che a
questo proposito mi rimangano degli interrogativi, anche se
accompagnati dal rasserenamento derivante dalle «risposte»
dei bambini.
Una cosa invece potrei dire di essere «orgoglioso»
di non avere mai fatto: usare quei libri per attivare qualsivoglia
esercitazione scolare. Se ne è però parlato tantissimo,
nei momenti più disparati, e mi sembra che i bambini
abbiano sempre dimostrato di capire molto. E non ho dubbi che
se avessi organizzato un qualunque lavoro con tutte le sue brave
articolazioni avrei potuto assistere a esiti molto più
banali di quelli cui ho assistito, per non fare che un esempio,
nella discussione seguìta all'affermazione molto estemporanea
di una bambina che un giorno interruppe il proprio lavoro e
mi venne vicino dicendomi che la sera precedente, prima di addormentarsi,
aveva pensato, con piacere e paura, che Silver, il pirata de
L'isola del tesoro, le piaceva molto, e si arrovellava,
perché secondo lei era contemporaneamente un rappresentante
del Male e del Bene, e aveva il sospetto che proprio questa
fosse la ragione per cui le piaceva tanto.
Dire che questa attività è piaciuta è affermazione
abbondantemente eufemistica. Per rendere davvero pienamente
l'idea avrei bisogno di molte pagine, e dovrei dire degli sguardi,
delle suppliche a non interrompere, delle richieste di replica,
delle richieste di - «almeno una volta, ti prego, almeno
oggi» -leggere per tutto il giorno. Non tutto, ovviamente,
è piaciuto in eguale misura; ognuno ha avuto precise
preferenze che ha caparbiamente sostenuto a fronte delle allettanti
preferenze altrui.
Il più-più bello
Se dovessi dire un titolo che più di altri ha ottenuto
la definizione di «più bello di tutti» sarei
abbastanza in difficoltà, ben sapendo quanti - e con
quanta forza - si siano innamorati de L'isola del tesoro,
di Harun e il Mar delle Storie, di Ronja,
di Tom Sawyer; e ben sapendo anche quanti abbiano ripetutamente
insignito Cion Cion Blu della propria «menzione
d'onore» con la motivazione struggente che «è
stato il primo». Sì, sarei in difficoltà,
però potrei forse dire che il «Più-più
bello» sia stato quel capolavoro piuttosto misconosciuto
che è il libro di Frances H.Bumett, Il giardino segreto.
Mi preme sottolineare che i miei alunni erano tutti bambini
senza particolari stranezze: amavano i giochi, i fumetti, la
televisione, andare al parco e quan t'altro.
Voglio solo aggiungere, in conclusione, che ogni tanto mi arriva
una lettera, una telefonata: mi si racconta della scuola media,
di un braccio rotto, di una vacanza, mi si chiede un consiglio
di lettura. E qualche sera fa, marzo novantaquattro, cioè
a due anni di distanza dalla lettura del libro di Rushdie, uno
di loro mi ha telefonato e m'ha detto fra l'altro: «Domani
vado a comprare Harun: ho convinto mia mamma a farmi un regalo».
Giuseppe Pontremoli
Da “école”, aprile 1994
Leggere
Giuseppe Pontremoli
a cura di Celeste
Grossi
libri
Rabbia birabbia, Nuove Edizioni Romane, Roma 1991.
Leggere gli anni verdi. Racconti di letture sull'infanzia
e l'adolescenza di Arlorio, Bellocchio, Berardinelli,
Bettin, Cases, Ceserani, Cherchi, Consolo, De Federicis,
Fofi, Giudici, Grimaldi, Lamarque, Masi, Ramondino, Sereni,
Starnone, Turchetta, e/o, Roma 1992 (a cura di; con
Cesare Pianciola).
“Storie per bambini”, in Per Elsa Morante,
Edizioni Linea d'ombra, Milano 1993 (AA. VV.).
Il mistero della collina, Giunti, Firenze 1994.
“Le bellissime avventure di Caterì dalla
trecciolina e altre storie” di Elsa Morante, Einaudi
Ragazzi, Torino 1995 (a cura di).
“Silvio D'Arzo e la cosiddetta letteratura per l'infanzia”,
in Silvio D'Arzo scrittore del nostro tempo, Aliberti,
2004.
Ballata per tutto l'anno e altri canti, Nuove Edizioni
Romane, Roma 2004.
Elogio delle azioni spregevoli, L'ancora del mediterraneo,
Napoli 2004.
Giocando parole (introduzione di Roberto Denti),
L'ancora del mediterraneo, Napoli 2005.
riviste
Giuseppe Pontremoli è stato redattore di rossoscuola
(dal 1987 al 1991); di “Linea d'ombra”, dal
1988 al 1997; di école per la quale dal
1991 al 2004 ha tenuto la rubrica “Leggere gli anni
verdi”.
Ha scritto articoli per: La terra vista dalla luna.
Educatori e diseducatori (1991 e 1992); Volontà
(1992); Primapersona 2002, ecoinformazioni
(2003); “La vista della cicogna”, in n. 9,
Archivio diaristico nazionale, Provincia di Arezzo.
siti
Molti scritti di Giuseppe Pontremoli si trovano nel sito
a cura di Alberto Melis http://www.giuseppepontremoli.it/pergiuseppe2.htm.
Sul sito di école (www.ecolenet.it)
si possono trovare gli articoli scritti da Giuseppe Pontremoli
dal 2001 al 2004.
...e un e-book
All'indirizzo web
https://ecoleedit.wordpress.com/2014/11/24/giuseppe-pontremoli-maestro/
si può trovare Giuseppe Pontremoli, maestro,
l'e-book a cura di Celeste Grossi, Cesare Pianciola, Giacomo
Pontremoli, Andrea Rosso, Gianpaolo Rosso, Stefano Vitale,
pubblicato da Idee per l'educazione/école, novembre
2014, che contiene molti scritti di Giuseppe Pontremoli.
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