Prove generali di sfruttamento
scritti di Carlotta Pedrazzini e del collettivo Clash City Workers
Expo 2015 non è solo una fiera internazionale, ma tante altre cose tra cui un banco di prova per nuove legislazioni in materia di lavoro.
I contratti stilati appositamente per Expo sono stati il modello di riferimento utilizzato per la stesura del Jobs Act. All'insegna, appunto, di sfruttamento, precarietà e volontariato.
Uno sguardo al mercato del lavoro italiano in pieno cambiamento.
Nel nome della flessibilità
di Carlotta Pedrazzini
Il Jobs Act è da poco entrato in vigore.
Gli accordi sul lavoro in vista di Expo 2015, caratterizzati da flessibilizzazione estrema, precarietà e lavoro volontario, sono stati il suo modello di riferimento.
Qualche settimana fa sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale i primi decreti attuativi della riforma del lavoro, meglio conosciuta come Jobs Act, che hanno reso effettive le nuove disposizioni in materia. Ad oggi il mercato del lavoro italiano si trova regolato da alcune nuove discipline redatte, a sentire i proclami e i discorsi dei decisori politici, in nome della flessibilità.
Analizzando i contenuti della riforma e le legislazioni speciali stilate appositamente per Expo, è possibile riscontrare delle analogie; la matrice delle nuove regolamentazioni, infatti, sembra essere la stessa che ha portato alla firma di accordi in materia di lavoro in vista dell'esposizione universale milanese. In entrambi i casi si è agito al fine di “rendere più fluido e dinamico” il mercato del lavoro e in entrambi i casi si è avuto come esito una maggior precarizzazione e una diminuzione delle tutele.
Proposta come panacea di tutti i mali economici che affliggono l'Italia, la flessibilità del mercato del lavoro (dispositivo che starebbe ad indicare una maggiore mobilità in entrata e in uscita e una riduzione di tempi, e quindi anche di costi, relativi ad assunzioni e licenziamenti) è stata cartina tornasole anche degli accordi firmati in vista di Expo 2015.
L'esposizione universale viene identificata nei proclami politici come opportunità da cogliere per diminuire il tasso di disoccupazione, soprattutto quello giovanile, grazie al propagandato indotto economicamente positivo ad esso correlato, che sarebbe in grado di migliorare gli orizzonti produttivi e occupazionali del paese. Al fine di cogliere le conclamate opportunità di ripresa che il mega-evento avrebbe da offrirci, risultavano però assolutamente necessarie grosse modifiche in materia di lavoro in grado di rendere più “appetibili” i lavoratori. Una delle credenze dominanti è infatti quella che un aumento della flessibilità sia condizione imprescindibile per un generale miglioramento degli indicatori economici; contratti di lavoro più dinamici (meno tutelati) e minori difficoltà ad entrare e uscire dal mercato del lavoro porterebbero naturalmente, secondo questa logica, ad un incremento occupazionale, andando ad incidere positivamente sul quadro economico generale.
Proprio in quest'ottica, in vista di Expo è stato proposto un percorso di accordi e nuove discipline in materia di lavoro costellato di deroghe ed eccezioni.
Contratti speciali e volontariato
Con l'obiettivo di rendere più agevoli le assunzioni in vista di Expo, sono stati redatti accordi, prevista una legislazione speciale e una serie di deroghe alle regolamentazioni del mercato del lavoro. A partire dal 23 luglio 2013, quando al tavolo con Expo spa, società per azioni costituita da governo, regione Lombardia, provincia, comune e camera di commercio di Milano, erano presenti i tre sindacati confederali; l'accordo da loro firmato regola i contratti degli 800 lavoratori attivi durante l'esposizione di cui circa 600 assunti a tempo determinato e attraverso il dispositivo dell'apprendistato (in deroga rispetto alle regole del mercato del lavoro) e circa 200 tramite stage. Per i contratti a tempo determinato, la deroga prevista interessa la scadenza, dettata dalla specifica limitatezza temporale dell'evento, e dall'intervallo tra questa e un eventuale rinnovo (divenuto di 10 giorni). Per quanto riguarda l'apprendistato, invece, la deroga colpisce la formazione, eliminando l'obbligo della sua certificazione; delle caratteristiche originarie di questa forma contrattuale, quella formativa viene completamente rimossa, lasciando la sola convenienza per il datore di lavoro (i contributi sono interamente o parzialmente a carico dello stato). Per i quasi 200 stagisti, invece, non è prevista remunerazione, ma un rimborso spese lordo di € 516,00. L'accordo regola anche il ricorso al lavoro volontario, quindi non retribuito, al fine di coprire un fabbisogno giornaliero di circa 400 persone per posizioni che riguardano il servizio di accoglienza dei visitatori tra i padiglioni dell'esposizione.
Quanto deciso il 23 luglio 2013 non riguarda solo il numero sopracitato di lavoratori; l'accordo è infatti stato esteso a tutta la regione e può quindi essere utilizzato fino al termine del 2016 per regolare i contratti di quei lavoratori che verranno assunti “in vista di Expo”. Anche il ricorso a manodopera non retribuita sarà più ampio del numero inizialmente previsto: il comune di Milano, per esempio, si affiderà a volontari per la gestione dei beni culturali, non potendo permettersi nuove assunzioni poiché vincolato dal patto di stabilità; inoltre grazie ad accordi e partnership, diverse università e istituti scolastici potrebbero fornire forza lavoro non retribuita, proponendo agli studenti stage e tirocini formativi legati ad Expo.
Un modello da seguire
Il cuore di questi provvedimenti speciali è chiaro:
al fine di incrementare le assunzioni, e per abbassare il costo
del lavoro mantenendo un margine di profitto, si è deciso
di spogliare il lavoratore delle tutele, rendendo più
agevoli e di fatto sponsorizzando contratti altamente precarizzanti
e male retribuiti; siamo di fronte ad una reale perdita di diritti
sociali e lavorativi rinominata, per l'occasione, flessibilità.
Proprio in riferimento all'accordo del luglio 2013 tra Expo
spa e i sindacati confederali, l'allora presidente del consiglio
Enrico Letta aveva sostenuto che Expo sarebbe stato un laboratorio
per il paese, un modello da seguire e implementare nel futuro;
e a leggere le disposizioni del Jobs Act sembra che quanto da
lui auspicato si sia avverato. In effetti la legislazione speciale
per Expo in materia di lavoro è stata realmente un esempio:
in ambito legislativo, l'esperienza di Expo è stata una
palestra, un banco di prova dove il legislatore ha potuto prendere
le misure, tastare il terreno per capire quanto lontano si potesse
spingere sulla strada della demolizione delle tutele.
L'eccezionalità dell'esposizione universale ha fornito
un alibi per lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, alibi
che per quanto riguarda la riforma del lavoro è stato
fornito invece dalla crisi economica. In entrambi i casi l'eccezionalità
del periodo ha permesso di superare limiti e confini fino a
quel momento ritenuti invalicabili.
Per questo motivo è bene non guardare all'esposizione
universale milanese come un semplice evento; le sue conseguenze
in materia di lavoro si protrarranno oltre la chiusura dei padiglioni
il 31 ottobre e i suoi effetti travalicheranno i confini di
Milano e della Lombardia. E con la nuova riforma del lavoro
ne abbiamo già avuto un assaggio.
Carlotta Pedrazzini
Articolo 18 addio
del collettivo Clash City Workers
Il 20 febbraio 2015 il governo ha reso definitivi gli schemi
di decreto sulla seconda parte del Jobs Act riguardo a tutela
dai licenziamenti illegittimi e indennità di disoccupazione.
Il collettivo Clash City Workers ne propone una prima analisi.
I due schemi che riguardano la nuova tipologia di tutela dai
licenziamenti illegittimi e l'indennità di disoccupazione,
insieme al decreto Poletti dello scorso marzo, che di fatto
aboliva l'obbligo della causalità nella stipulazione
di contratti a tempo determinato, ridisegnano drasticamente
il mercato del lavoro in Italia, al fine di razionalizzare la
risposta alla domanda pressante dei padroni, in crisi di valorizzazione
dei capitali: abbassare il costo del lavoro per creare più
profitto.
Che cosa cambia con il contratto a tutele crescenti, introdotto
da Renzi col decreto approvato il 20 febbraio 2015? La disciplina
dei licenziamenti individuali è da sempre materia di
contenzioso, politico e sindacale. Dal 1970 al 2012 i licenziamenti
individuali sono stati regolati dall'articolo 18 dello Statuto
dei Lavoratori. Il licenziamento, quello non discriminatorio,
ma giustificato, può essere per: giusta causa –
colpa grave del lavoratore; giustificato motivo soggettivo –
colpa non grave del lavoratore, l'azienda ha l'obbligo di preavviso;
giustificato motivo oggettivo – interruzione dell'attività
lavorativa, fine di un appalto o chiusura di uno stabilimento.
Vediamo di seguito la storia e la qualità dei cambiamenti
introdotti prima da Elsa Fornero, ora da Matteo Renzi.
La storia
L'articolo 18 stabiliva che, in tutti i casi di nullità,
inefficacia o illegittimità del provvedimento, l'imprenditore
era condannato al reintegro del lavoratore sul posto di lavoro:
la possibilità di licenziare, dunque, c'era, ma se il
licenziamento non era giustificato veniva di fatto annullato
col ritorno del lavoratore al proprio posto. La distinzione
tra nullità e illegittimità non era significativa
perché la sanzione era la stessa: diventa significativa,
e da comprendere dunque bene, solo a partire dal 2012, anno
in cui Elsa Fornero rimette mano alla disciplina, modificando
in più punti il testo dell'articolo 18.
Per capirci spieghiamo brevemente la differenza: un licenziamento
è nullo quando è discriminatorio e di conseguenza
viola la legge (ad esempio, quando avviene durante un congedo
di maternità); è inefficace quando è espresso
in forma orale o scritta senza indicare le motivazioni; è
annullabile quando è illegittimo.
Le modifiche riguardavano la restrizione delle possibilità
di reintegrazione: questo restava nel caso di licenziamento
discriminatorio, quindi nullo, inefficace, e nel caso di licenziamento
illegittimo per manifesta insussistenza del fatto contestato
o sproporzione tra colpa e provvedimento nel caso di motivi
disciplinari (”perché il fatto rientra tra le condotte
punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni
dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”).
In tutti gli altri casi di illegittimità riconosciuta,
cambiava la sanzione: dalla reintegrazione si passava all'indennizzo,
calcolato da un minimo di 15 a un massimo di 24 mensilità.
La modifica Fornero, dal punto di vista dei padroni, non era
sufficiente: la possibilità di reintegro era ancora molto
alta, dato che rimaneva prevista nei casi di sproporzione tra
colpa e provvedimento, che sono tra i casi più frequenti
di cause di licenziamento portate in tribunale, e inoltre il
minimo indennizzo previsto era più di un anno di stipendio.
Renzi, dunque, interviene essenzialmente su questi punti, semplificando
drasticamente la disciplina, tant'è che non va ad intervenire,
col decreto, modificando il testo dell'articolo 18, ma sostituendolo
completamente con un nuovo testo. Il reintegro resta, come possibilità,
solo in due casi: nel caso di licenziamento nullo in quanto
discriminatorio, quindi inefficace e nel caso di licenziamento
illegittimo per insussistenza del fatto materiale addotto, direttamente
dimostrata in giudizio. In tutti gli altri casi di illegittimità,
conclamata e riconosciuta da un giudice, la sanzione diventa
esclusivamente quella dell'indennizzo, e il minimo scende da
15 a 4 mensilità (due mensilità per anno di lavoro,
fino a un massimo di 24 mensilità). Lo schema di decreto
prevede, inoltre, l'esenzione dall'Irap e dal pagamento dei
contributi pensionistici per tre anni per tutti i nuovi contratti
attivati nel 2015: facile immaginare che, al termine del periodo
di sgravi fiscali e contributivi, molti di questi contratti
termineranno.
Limitazione delle ipotesi di reintegro
Nei mesi e nei giorni passati il governo e la stampa si sono
affannati a rassicurare gli animi: “il reintegro resta,
non vi agitate! La legge è giusta, l'articolo 18 era
un retaggio del pasato!”. Proviamo ad entrare nel merito
di questa obiezione. Il reintegro resta nel caso di licenziamento
discriminatorio, quindi nullo, o inefficace in quanto intimato
in forma orale. Un licenziamento in forma orale è raro,
semplicemente, o esiste solo nella testa dei padroni più
barbari o più imbecilli: si tratta di una comunicazione
del tipo “Torna a casa, non mi servi più”
che nessuna persona dotata di senno adotterebbe come forma per
liberarsi di qualcuno. Eppure anche questa forma è stata
adottata: è il caso dei facchini di una cooperativa che
lavorava per Esselunga. Per questi casi, per fortuna, il reintegro
rimane. La stessa cosa vale per il licenziamento discriminatorio,
legato cioè a motivi di genere, orientamento sessuale,
colore della pelle, opinioni politiche, orientamento religioso,
ecc. È fin troppo evidente che nessun padrone licenzia
mai qualcuno palesemente per questi motivi: nella giurisprudenza
non si è mai dato un solo caso di licenziamento discriminatorio,
i padroni hanno sempre mascherato la discriminazione sotto la
giusta causa o il giustificato motivo soggettivo. Ancora, il
reintegro resta per i casi di insussistenza del fatto materiale
direttamente dimostrata in giudizio. Il caso è importante,
specialmente, ma non solo, nei casi di licenziamento per motivi
disciplinari (giustificato motivo soggettivo o giusta causa).
Le parole anche in questo caso sono importantissime. Vediamo
innanzitutto la specifica “fatto materiale”: nella
precedente legge Fornero si parlava genericamente di “fatto”;
alcuni giudici hanno interpretato la parola “fatto”
come “fatto giuridico”, come l'insieme cioè
delle circostanze oggettive e dell'interpretazione soggettiva
del giudice stesso, e ne hanno quindi dedotto di poter procedere
all'assoluzione del lavoratore e alla condanna del datore di
lavoro al suo reintegro. La Cassazione aveva già provveduto
a correggere questa interpretazione ma, per evitare rischi,
in fase di preparazione si è preferito aggiungere l'aggettivo
“materiale”, che esclude l'interpretazione soggettiva
del giudice, ridotto a mero “sanzionatore” e “calcolatore”
dell'indennità.
Il lavoratore ha diritto, dunque, al reintegro solo se riesce
a provare in tribunale che il fatto materiale a lui imputato
o comunque addotto a ragione del licenziamento non sussiste.
L'onere della prova spetta al lavoratore licenziato (prima spettava
invece al datore di lavoro provare la sussistenza della motivazione):
in pratica il padrone può tranquillamente ricorrere ad
una argomentazione manchevole o debole, perché può
contare sulle difficoltà, per un singolo lavoratore non
particolarmente motivato o non sufficientemente assistito dal
sindacato, di ricorrere in giudizio e dimostrare l'insussistenza
del fatto addotto (nel solo Veneto, nel 2013, i ricorsi in tribunale
contro un licenziamento sono stati 250, a fronte di circa quattromila
licenziamenti), mentre prima il padrone era tenuto a dimostrare
lui stesso la sussistenza delle motivazioni. Per rendere improbabile
proprio il ricorso in tribunale, comunque, il datore di lavoro
può offrire una somma pari a una mensilità per
anno di servizio, da un minimo di 2 a un massimo di 18, esente
da imposizione fiscale, al lavoratore, se accetta di rinunciare
alla causa. A dimostrazione della serietà con cui i padroni
vogliono in tutti i modi evitare il contenzioso, il 13 gennaio
2015 il testo dello schema di decreto è stato appositamente
modificato per inserire le coperture dovute alle minori entrate
derivanti dalla mancata imposizione fiscale su queste somme!
Considerando tutte le ipotesi, in sintesi, è come dire
che il reintegro è rimasto, sì, ma solo nel caso
di licenziamenti a calci in culo o a sputi in faccia davanti
a testimoni, oppure se si riesce a dimostrare che il datore
di lavoro ha inventato tutto di sana pianta!
In tutti gli altri casi, che sono la maggioranza, il padrone
adduce un motivo plausibile a ragione del licenziamento (quindi
maschera anche un eventuale licenziamento discriminatorio sotto
la forma di licenziamento giustificato): il giudice ne valuta,
eventualmente, la legittimità e nel caso in cui non la
ritrovi annulla il licenziamento e condanna il padrone al reintegro.
Annullava, condannava: da oggi non avviene più. Il primo
paradosso diabolico dello schema di decreto è che permane
il riconoscimento giuridico dell'illegittimità dell'atto,
ma l'atto non viene annullato: il giudice potrà riconoscere
che un lavoratore è stato licenziato ingiustamente ma
non potrà cancellarne il licenziamento! La sanzione in
forma di indennizzo è, a questo punto, una foglia di
fico: l'illegittimità di fatto scompare, perché
se lo schema di decreto stabilisce un indennizzo monetario come
unica sanzione, si sta dicendo praticamente che ogni padrone
può liquidare, in qualunque momento e senza preoccuparsi
di giustificare niente, un lavoratore, dandogli al massimo due
anni di stipendio (ma due anni di stipendio sono l'indennizzo
per un licenziamento dopo 12 anni di lavoro!). [...]
Ce lo chiede l'Europa? Vero
Questo è un altro argomento a favore del decreto Renzi:
uniformarsi alla normativa vigente nel resto d'Europa, per non
perdere competitività. E hanno ragione! Non sul piano
della competitività, ma sul fatto che nella maggior parte
dell'Europa è già previsto il risarcimento, in
luogo del reintegro, in caso di licenziamento nullo o illegittimo.
Nello specifico, in Belgio, Danimarca, Finlandia, Lussemburgo
e Spagna prevale senza dubbio il risarcimento sul reintegro.
In Francia e Gran Bretagna la reintegrazione è prevista
solo in caso di licenziamento nullo, come in Italia, o è
rimessa alla discrezionalità del giudice. In altri paesi
il sistema è misto, il reintegro prevale in Grecia, Portogallo,
Olanda e... Germania. Sorpresi? La “locomotiva d'Europa”,
il motore produttivo del continente, aveva, ha e continua ad
avere una legislazione simile all'ormai defunto Statuto dei
Lavoratori, eppure, a detta anche dei padroni, primeggia in
produttività e competitività. Lungi dal dedurre
che la Germania sia un paradiso per i lavoratori – tutt'altro!
– questo fatto dimostra, contrariamente a quanto possano
affermare Ichini vari, che non c'è alcun legame tra una
presunta “difficoltà” a licenziare e una
bassa produttività.
Licenziamenti facilitati
Nei quasi due mesi trascorsi tra la preparazione dello schema
di decreto e il varo del decreto definitivo le commissioni lavoro
di Camera e Senato si sono riunite per emanare il loro parere,
obbligatorio ma non vincolante, sul testo. Al termine dei lavori,
nel testo sono rientrate poche, ma significative modifiche:
è stato specificato che il contratto nuovo sarà
applicabile anche alle conversioni di contratti vecchi –
di apprendistato, di somministrazione, a termine – e,
soprattutto, che la nuova disciplina varrà anche per
i licenziamenti collettivi, che, rientrando a pieno titolo secondo
quanto ha stabilito il governo, nella tipologia dei licenziamenti
economici, andranno a sottostare alla nuova legge (indennizzo
e non reintegro) e, di fatto, spariranno come concetto (non
si parlerà più di licenziamenti collettivi perchè
non ci sarà un trattamento differenziato, come è
stato finora, rispetto ai licenziamenti individuali). Infine,
non è stato ripristinato un comma che, nella prima versione
del testo, escludeva esplicitamente i lavoratori pubblici: ciò
significa che, con tutta probabilità, il contratto a
tutele crescenti si applicherà anche a tutto il pubblico
impiego.
Le modifiche rendono ancora più chiaro, se possibile,
l'intento della legge: facilitare al massimo i licenziamenti,
rendendoli il meno costosi possibile per i padroni, con regole
uguali per tutti. L'estensione della disciplina al pubblico
impiego e ai licenziamenti collettivi ha, tra gli altri, lo
scopo di disinnescare la bomba di un referendum abrogativo,
come minaccia la FIOM in maniera non troppo convinta: eliminando
le disparità di trattamento tra le diverse tipologie
di lavoratori il principale appiglio per chiedere l'abrogazione
della legge viene meno.
Dall'Aspi alla Naspi
Il secondo schema di decreto, di 15 pagine, riguarda la riforma
del sussidio individuale di disoccupazione introdotto da Elsa
Fornero nel 2012 col nome di Aspi. Prima di affrontarlo nel
merito facciamo un passo indietro: quali sono le forme tradizionali
di assistenza economica alla disoccupazione, in Italia?
In tutta Europa, già dall'inizio del XX secolo, sono
presenti leggi in materia di assistenza economica al lavoratore
in disoccupazione, di “integrazione” del salario:
la prima legge europea in tal senso è francese e risale
al 1905. La particolarità italiana risiede(va) nel fatto
che esisto(eva)no delle forme di sostegno e integrazione del
reddito non disgiunte dall'obiettivo della conservazione del
posto di lavoro: la Cassa Integrazione Guadagni, introdotta
sotto il fascismo e finanziata dai contributi del lavoratori
e degli imprenditori, interviene erogando salario in periodi
di riduzione più o meno pesante dell'orario lavorativo,
in seguito ad una crisi aziendale, senza che siano ancora state
attivate le procedure di licenziamento. In pratica in Italia
l'integrazione salariale in momenti di crisi occupazionale ha
come ulteriore obiettivo quello di evitare i licenziamenti,
mentre nel resto d'Europa l'indennità di disoccupazione
si eroga soltanto a partire dal licenziamento.
Stiamo, in effetti, comparando due istituti radicalmente diversi
nella forma e nella sostanza economica e politica: la peculiarità
del sistema italiano risiede(va) proprio nell'obiettivo di evitare,
o quantomeno ritardare il licenziamento, con la CIG (Cassa Integrazione
Guadagni) che è, come si è compreso, un istituto
essenzialmente collettivo; l'indennità di disoccupazione
individuale, che pure in Italia esiste(va), non è comparabile
dunque, per platea ed estensione temporale, né ai corrispettivi
istituti europei né alla CIG stessa. Per fare un esempio,
la vecchia indennità di disoccupazione: prima della riforma
Fornero, poteva durare al massimo dieci mesi, con erogazione
del 50% del salario lordo nei primi sei, 40% nei successivi
tre e 30% negli ultimi tre (dati al 2006); la CIG eroga l'80%
del salario lordo fino a dodici mesi, successivamente può
intervenire la CIGS (CIG Straordinaria) con l'80% del salario
fino ad ulteriori ventiquattro mesi, ancora la CIG in deroga
per un ulteriore anno, fino all'indennità di mobilità
che eroga lo stesso ammontare della CIGS (fino a quarantotto
mesi!) e costituisce la vera e propria anticamera del licenziamento.
Un sistema indubbiamente più complesso (e parziale, ché
non tutti i lavoratori ricevono un'indennità) rispetto
agli omologhi europei che hanno sempre preferito una forma universale
di indennità, posteriore al licenziamento, che non mirava
alla tutela del posto di lavoro perso; complesso, sì,
ma, benché con limiti e storture enormi, utile ed efficace
soprattutto per il dispiegarsi della lotta sindacale e politica,
che ha (aveva) così il tempo (fino a 36 mesi e oltre!)
e l'agibilità per mettere in piedi vertenze sulla tutela
occupazionale con discrete possibilità di vittoria.
Ma, come scritto nella postilla immediatamente precedente, il
governo Renzi ha fatto uno strappo enorme rispetto al passato,
abolendo esplicitamente questa distinzione: i licenziamenti
collettivi non esistono più come categoria, ogni licenziamento
è individuale.
False rivoluzioni copernicane
Ecco che, ricostruendo in mezza paginetta la principale differenza
tra il nostro Paese e il resto d'Europa, viene fuori l'obiettivo
politico del padronato e della borghesia: spuntare le armi al
movimento sindacale che resta, per numero di iscritti e presenza
sui luoghi di lavoro, uno dei più forti d'Europa (al
netto di riformismi, corruzione e sbracamenti che ben conosciamo...).
Illustri economisti, dunque, politici, imprenditori incominciano
a sciacallare sulla Cassa Integrazione, attribuendo all'effettiva
varietà e complessità degli aiuti ogni male italiano,
dal crollo della produttività alle sconfitte ai Mondiali:
da più parti si levano voci a favore di una non meglio
precisata semplificazione, che farebbe risparmiare, finalmente,
i soldi agli italiani.
Scopriamo che cosa sia questa benedetta semplificazione quando,
col governo Monti, la famigerata ministra del lavoro Elsa Fornero,
dopo aver completato – peggiorandola – la lunga
riforma delle pensioni iniziata nel 1995 col governo Dini, si
muove letteralmente con le ruspe contro la Cassa Integrazione
Guadagni e in generale contro il vecchio sistema: la cassa in
deroga, la mobilità e la disoccupazione vengono abolite
e sostituite dall'Aspi (Assicurazione sociale per l'impiego),
mentre la straordinaria viene estesa ad altri settori non industriali
ma ridotta nelle possibilità e nei campi di applicazione.
All'Aspi si aggiunge la Mini-Aspi, un sussidio ridotto per chi
non matura i requisiti per la prima (due anni di contributi
per l'Aspi, almeno 13 settimane ma meno di 52 in due anni per
la Mini-Aspi).
Il raffronto tra Aspi e vecchia disoccupazione gioca a favore
dell'ultima arrivata: durata estesa fino a 18 mesi per gli over
55, ammontare dell'assegno al 75% del salario lordo, ridotto
del 15% dopo sei mesi e di un ulteriore 15% dopo un anno. Se
si considerano però insieme anche l'abolizione della
mobilità e le limitazioni nel ricorso alla straordinaria
si vede che il bilancio economico pende decisamente a favore
dei padroni; quello politico, invece, si comincia appena a delineare.
Il secondo decreto modifica sostanzialmente l'indennità
marcata Fornero, andando però nella stessa direzione,
cioè quella di individualizzare, a parità di spesa
o con una spesa di poco superiore, il trattamento economico
di indennità di disoccupazione.
Le differenze sono chiare e semplici: la Naspi estende la platea
potenziale a tutto il lavoro dipendente, senza ulteriori distinzioni
che persistevano nella vecchia Aspi, vengono esclusi solo i
lavoratori a tempo indeterminato della pubblica amministrazione
e gli operai agricoli (come nella precedente legge, con la significativa
estensione agli extracomunitari con permesso di soggiorno e
lavoro stagionale); i requisiti vengono ammorbiditi rispetto
all'entità minima di contributi richiesti, che diventa
di 13 settimane, come precedentemente per la Mini-Aspi. Si deve
inoltre aver lavorato almeno 18 giorni nell'anno precedente
alla disoccupazione, e il rapporto deve essersi concluso senza
contenzioso (dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale).
La durata dell'erogazione del contributo potrà essere
al massimo pari alla metà delle settimane contributive
dei 4 anni precedenti (quindi 2 anni), e a regime, dal 2017,
non potrà superare le 78 settimane (un po' più
di 19 mesi); l'importo, parametrato sempre al 75% dell'ultimo
salario lordo, non potrà essere superiore a 1300 euro
e scalerà, a regime, del 3% al mese, a partire dal quarto
mese.
Insieme alla Naspi, il governo ha predisposto due ulteriori
indennità, finanziate al momento solo per il 2015 e con
il rischio concreto di insufficiente finanziamento rispetto
alla platea potenziale: si tratta dell'Asdi, sussidio di disoccupazione
erogato al termine della Naspi soltanto a lavoratori ancora
disoccupati, con famiglia e figli minori a carico o con altre
condizioni svantaggiose, pari al 75% della Naspi ed erogato
per sei mesi; infine il Dis-Coll, sussidio per i lavori precari,
co.co.co., co.co.pro e gestione separata, attivato solo sperimentalmente
per il 2015.
La differenza più significativa è certamente l'estensione
della platea e l'introduzione della clausola della risoluzione
senza contenzioso: sono questi due aspetti che vanno letti insieme
a quanto detto per il primo decreto, alla possibilità
cioè di licenziare con indennizzo e all'estensione di
questa nuova disciplina anche ai licenziamenti collettivi. I
due decreti insieme aprono autostrade ai licenziamenti facili
e arbitrari, disincentivando ancor più di prima i lavoratori
a ricorrere contro un licenziamento ritenuto ingiusto perché,
a fronte di un indennizzo misero, perderebbero la disoccupazione;
inoltre, politicamente, il sindacato quale che sia perde fortemente
di peso e di importanza, dal momento che vengono di fatto meno
i campi sui quali poteva esprimersi o avere un intervento; nella
stragrande maggioranza dei casi, più di quanto non succeda
già oggi, i lavoratori saranno costretti ad accettare
risoluzioni “consensuali” del rapporto per accedere
alla Naspi, non avendo i padroni alcun interesse a tenere in
piedi la baracca, e la Naspi avrà il potere particolare,
rispetto alla CIG, di isolare il lavoratore, che si troverà
da solo in fila agli uffici dell'INPS invece che in piazza,
con le compagne e i compagni, a difendere il posto di lavoro.
Una vera e propria rivoluzione copernicana del diritto del lavoro,
che per abbassare il costo di riproduzione della manodopera
punta non solo all'abbassamento dei salari, ma soprattutto alla
devastazione delle forme organizzate di resistenza possibile
della classe, a partire dai sindacati e dalle vertenze.
Clash City Workers
Logica e ideologia di una controriforma
del collettivo Clash City Workers
Il governo approva i primi due decreti attuativi del Jobs Act.
Nasce una nuova disciplina sul “contratto a tutele crescenti”
e sugli ammortizzatori sociali.
La retorica che ammanta questi due decreti la conosciamo bene:
in un'epoca di mercati globalizzati e competitivi, le aziende
devono prendere decisioni veloci ed essere libere di allocare
istantaneamente e come meglio credono le risorse produttive,
come la forza lavoro. Il sistema ha quindi bisogno di flessibilità.
Un mercato del lavoro troppo rigido, in cui risulta troppo difficile
per le aziende disporre liberamente dei lavoratori, licenziando
quando e come vogliono, disincentiva le imprese ad assumere,
aumenta la disoccupazione ed ha un effetto in generale negativo
sulla competitività dell'intero sistema-paese; determina
inoltre un sistema iniquo per gli stessi lavoratori, visto che
le aziende finiscono per ricorrere alla flessibilità
di cui hanno bisogno attingendo ad un bacino di “esclusi”,
perennemente penalizzati rispetto ai “garantiti”
ed alle loro tutele, tanto da portare l'intero peso della flessibilità
di cui il sistema avrebbe bisogno.
Se questa è la premessa, in linea con la retorica di
Governo e padroni, questa la soluzione: eliminando le rigidità
e lasciando così il mercato libero di agire si contribuirebbe
a risolvere non solo il problema della competitività
del sistema-paese, ma anche quello della disoccupazione e dell'iniqua
divisione tra lavoratori garantiti e precari, o anche l'“apartheid”
tra “core e periphery workers” (usando il lessico
del Senatore Ichino, tra i principali promotori del Jobs Act).
Proprio Ichino sintetizza bene la logica del provvedimento,
in una relazione al Senato in cui spiega come “dal
vecchio sistema tendente a difendere il lavoratore dal mercato
del lavoro [con il Jobs Act si passa] a un sistema di protezione
tendente a difenderlo nel mercato”. Nel mercato si troverebbe
quindi non la causa dei problemi dei lavoratori italiani –
come pretenderebbe una vecchia ideologia – bensì
la soluzione. La soluzione ai problemi causati, in primis,
da un “ordinamento del lavoro caratterizzato da profonde
disparità di protezione, generatore di quel dualismo
delle tutele che negli ultimi anni ci è stato ripetutamente
rimproverato dall'Unione Europea”.
Proprio sulle pressioni internazionali è tornato, sempre
in una relazione al Senato, un altro grande alfiere della riforma,
l'ex-ministro del lavoro Sacconi, sottolineando come la “necessità
di superare le rigidità in uscita [cioè la difficoltà
di licenziare] del mercato del lavoro italiano è stata
oggetto di sollecitazioni da parte di istituzioni sovranazionali,
quali l'Unione Europea, la BCE e l'OCSE”. Come dimenticare
in effetti la famigerata lettera che la BCE mandò al
Governo Berlusconi nell'estate 2011 in cui, tra le misure necessarie
ad “accrescere il potenziale di crescita” si indicava
proprio una “revisione delle norme che regolano l'assunzione
e il licenziamento dei dipendenti” di modo da facilitare
“la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso
i settori più competitivi”. D'altronde, come prosegue
sempre l'ex-Ministro, “se si prende in considerazione
l'indice EPL (Employment Protection Legislation) elaborato dall'OCSE,
come misura del grado di rigidità dei regimi posti a
tutela dell'impiego, va sottolineato che le riforme intervenute
in Italia fino al 2012 hanno comportato una riduzione di tale
indicatore legata solo alla maggiore flessibilità in
entrata”.
Insomma, per i padroni è stato più facile assumere
attraverso convenienti contratti “atipici” o agenzie
interinali, ma è rimasto difficile licenziare. Almeno
finora.
Se la riforma Fornero è intervenuta solo parzialmente
su questo fronte, ci ha pensato il Jobs Act ad affondare il
colpo, guadagnando l'immediato plauso dell'OCSE, per la soddisfazione
del ministro Padoan il quale vorrebbe convincerci di quanto
la riforma del mercato del lavoro produrrà “un
beneficio gigantesco”, con “più occupazione,
ricchezza, e quindi più fiducia dei cittadini”.
L'ideologia dietro la logica
A parte per la gran parte della stampa italiana, che si è
dimostrata allineata e pronta a bersi per intero la retorica
governativa, a chiunque risulterebbe facile svelarne le contraddizioni.
Il primo paradosso è che a lamentarsi dell'iniquità
che regnerebbe nel mercato del lavoro italiano, è proprio
chi per primo ha contribuito a crearla, come appunto l'ex-ministro
Sacconi, principale artefice di quella selva di contratti “atipici”
in cui è intrappolato l'esercito di precari delle cui
sorti adesso paventa profonda preoccupazione. Ma poi è
proprio il tipo di soluzione proposta a svelarne l'ipocrisia:
con il nuovo contratto a tempo indeterminato a “tutele
crescenti”, l'instabilità occupazionale caratteristica
del mondo del lavoro precario non viene combattuta, ma piuttosto
estesa anche a chi finora ha goduto di - relative - garanzie.
Il prezzo dell'uguaglianza sarebbe quindi un generale livellamento
al ribasso, “quasi che il mercato del lavoro fosse uno
di quegli ambiti in cui il mal comune equivale a mezzo gaudio”,
come dice bene il giudice del lavoro Luigi Cavallaro.
In sostanza si fa leva su di una situazione drammatica che si
è contribuito a creare, per aggravarla e generalizzarla.
Anche perché per contrastare l'utilizzo di contratti
atipici, il massimo che si propone di fare il ministro del lavoro
Poletti è sperare che il nuovo contratto a tempo indeterminato
abbia “caratteristiche di attrattività normativa
ed economica in grado di invertire la tendenza in atto in questi
anni che ha visto aumentare i contratti precari”.
Perché infatti niente o quasi è stato intaccato
nella selva dei contratti atipici, che anzi sono stati addirittura
incoraggiati: per esempio, attraverso la facilitazione dell'uso
dei contratti a tempo determinato (grazie all'eliminazione della
causale e alla possibilità di rinnovarli per 5 volte)
prevista nella prima parte della riforma del lavoro approvata
lo scorso anno. Infine, con il pretesto di “razionalizzarla”,
viene anche indebolita l'attività ispettiva, fondando
un'unica Agenzia di Ispezione del Lavoro (frutto della fusione
di quella del Ministero, dell'Inps e dell'Inail) con lo scopo
di dichiarato di risparmiare!
Anche la presunta estensione degli ammortizzatori sociali a
categorie prima escluse è un'uguaglianza al ribasso:
i 24 mesi di indennità Naspi sono solo per chi ha sempre
lavorato nei quatto anni precedenti, l'ammontare dell'indennità
è legato a quello dei contributi versati e cala progressivamente
e – altra innovazione di Renzi – si perde il diritto
alla disoccupazione in caso di rifiuto a svolgere attività
di riqualificazione professionale o ad accettare le nuove offerte
di lavoro proposte dai centri per l'impiego. D'altronde, il
Governo mostra di quale “estensione” degli ammortizzatori
parla quando prevede in sede di bilancio la diminuzione del
gettito fiscale proveniente dalla tassazione degli ammortizzatori
sociali.
Questo significa che o il nuovo contratto sarà talmente
conveniente per i padroni - e quindi disastroso per i lavoratori
- da rimpiazzare contratti precari di sempre più facile
utilizzo, o la situazione rimarrà invariata. In ogni
caso non si vede proprio come verrebbe alleviata la “drammatica
condizione” in cui versano i lavoratori italiani.
Inoltre, come dimostra un recente studio sulla disoccupazione
in Italia1, non c'è alcuna
evidenza per cui la disoccupazione giovanile, quella cioè
che più rifletterebbe le eccessive tutele dei lavoratori
“garantiti”, sia dovuta alla rigidità del
mercato del lavoro, mentre quello che è certo è
che questa cresce quando cresce la disoccupazione generale.
Questo significa che non sono i diritti di chi già lavora
a rendere difficile ad un giovane trovare lavoro, ma che è
l'andamento complessivo della disoccupazione a rendere più
o meno facile un nuovo inserimento. Ma il governo d'altronde
insiste che sarà proprio grazie a questa riforma che
aumenterà l'occupazione. È dalla Legge Treu del
997, passando per la Legge 30 e la Riforma Fornero, che assistiamo
però a riforme peggiorative che vengono giustificate
con il “rilancio dell'occupazione” e l'unica cosa
ad esser stata rilanciata è la corsa al ribasso nelle
condizioni di lavoro. Inoltre, come ammette O. Blanchard, capo
economista del Fondo Monetario Internazionale e noto alfiere
delle virtù salvifiche del mercato, dopo uno studio comparato
sul mercato del lavoro in Europa: “le differenze nei regimi
di protezione del lavoro appaiono largamente incorrelate alle
differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi”2.
D'altronde proprio lo stesso OCSE3,
che pure ne è tra i principali promotori, ha recentemente
messo in dubbio le doti della flessibilità nel generare
occupazione e crescita (come molti economisti di sinistra sostengono
da tempo). In effetti, una manodopera docile e ricattata può
di certo essere ben più “produttiva”, ma
questo può rappresentare un motivo per i padroni di investire
ancor meno in macchinari e tecnologia, così che, nel
complesso, la produttività del lavoro potrebbe addirittura
calare4. L'unica cosa a crescere
sarebbe quindi lo sfruttamento!
Andando oltre l'ideologia con cui si traveste, è proprio
questa la logica di questa ennesima controriforma.
La logica dell'ideologia
Per capirla torniamo su di un intervento che Mario Draghi,
in qualità di presidente della BCE, fece due anni fa
presso il Consiglio Europeo. Tra le slides mostrate in quella
“lezioncina” ai capi di governo dell'Unione, Draghi
ne ha proiettate alcune in cui viene mostrato come i paesi europei
in avanzo5 siano quelli in cui,
almeno fino all'avvento della crisi economica, i salari nominali
sono cresciuti allo stesso livello della produttività
(o addirittura meno), mentre i paesi in deficit, come l'Italia,
sono quelli in cui i salari sono cresciuti maggiormente. Ma
attenzione, quello che non hanno mancato di sottolineare tanti
commentatori6, è che i
salari di cui parla Draghi sono quelli nominali, cioè
non aggiustati con l'inflazione (che alzava i prezzi dei beni
e quindi diminuiva il potere di acquisto di questi stessi salari).
Se l'inflazione fosse tenuta in considerazione, si vedrebbe
come nel periodo considerato, ma anche nei due decenni precedenti7,
in quasi tutti i paesi i salari hanno perso terreno nei confronti
della produttività e ad esser cresciuti sono stati i
profitti! Nei paesi “virtuosi”, quelli in surplus,
questo processo di deflazione salariale è stato ancor
più accentuato ed ha reso ancor più competitive
le merci prodotte in quei luoghi.
Quello che il presidente della BCE sta proponendo, e che il
governo italiano ha prontamente accolto, quindi, è quello
di seguire questi paesi in una corsa al ribasso nelle condizioni
di lavoro, nella speranza che la “domanda globale”
(citata nella slide precedente) garantisca il necessario sbocco
per le merci prodotte e che con queste manovre venga ristabilita
la famigerata fiducia. La stessa fiducia di cui parlano Poletti,
l'OCSE, Padoan, e che ormai abbiamo capito in che cosa consista:
nella certezza, per i padroni, di poter sfruttare a proprio
piacimento i lavoratori.
Evidentemente per la borghesia questa fiducia è più
importante di quella legata agli eventuali effetti positivi
di manovre espansive, nonostante i palesi fallimenti delle politiche
di austerity degli ultimi anni. Come d'altronde scriveva l'economista
polacco Kalecki a proposito degli “effetti politici della
piena occupazione”: “la disciplina nelle fabbriche
e la stabilità politica sono più importanti
per i capitalisti dei profitti correnti. L'istinto di classe
dice loro che una continua piena occupazione non è “sana”
dal loro punto di vista perché la disoccupazione è
un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.”
[...]
Se, infatti, in un periodo di così grave crisi i capitalisti
non hanno di certo il problema di combattere la minaccia della
piena occupazione, hanno comunque l'opportunità di approfittare
al massimo della dilagante disoccupazione. Quella disoccupazione
il cui principale effetto politico è quello di mettere
in concorrenza disperata i proletari, condannati a farsi la
guerra gli uni contro gli altri per ottenere le poche briciole
a disposizione. Mettendo i “precari” contro i “garantiti”,
i giovani contro i vecchi, le donne contro gli uomini, il Jobs
Act fa leva sugli interessi (e la disperazione) dei singoli
individui contro gli interessi della classe a cui appartengono.
Se volessimo riassumere in una frase la sua logica, questa sarebbe:
proletari di tutto il mondo, scannatevi!
Tutto è perduto?
Ricapitoliamo: l'unica crescita a cui punta realmente il Jobs
Act è quella dello sfruttamento. Con i due nuovi decreti
attuativi, il contratto a tempo indeterminato sarà caratterizzato
dalla stessa instabilità tipica dei contratti precari:
potendo essere licenziato da un momento all'altro ed avendo
in cambio al massimo una piccola indennità, nell'eventuale
e sempre più improbabile vittoria nella costosa sede
processuale, ogni lavoratore si troverà in uno stato
di ricatto permanente.
Con la riforma degli ammortizzatori sociali si procede con la
sostituzione della cassa integrazione con la Naspi – abbiamo
già spiegato come questo serva ad individualizzare il
rapporto del lavoratore con lo stato erogatore di sussidio,
spezzando i suoi legami sia con il posto di lavoro che con i
colleghi, cosa che veniva usata come base di rivendicazioni
collettive – e lega l'erogazione dell'indennità,
che dovrebbe essere un diritto del lavoratore visto che la paga
con i suoi contributi e le sue tasse, al giudizio sospettoso
dello stato che deve verificare se veramente il lavoratore è
disoccupato involontario o piuttosto vuole campare senza faticare.
Questo significa la possibilità di interrompere il versamento
della Naspi se il disoccupato rifiuta le proposte di lavoro
o di formazione professionale che gli gira il suo centro per
l'impiego, finendo a fare corsi professionali inutili o lavori
lontani da casa o pagati male (se non meno della stessa indennità
di disoccupazione) per non restare a casa senza né lavoro
né Naspi.
Gli schemi degli altri decreti attuativi dimostrano che il famoso
sfoltimento della giungla di contratti atipici, è una
grande bufala: viene eliminato solo il co.co.pro (che però
rimarrebbe in quei settori dove è previsto dalla contrattazione
collettive), mentre viene incentivato l'uso del voucher, la
forma più odiosa e truffaldina.
Ricordiamo poi che nella prima parte del Jobs Act (il decreto
Poletti convertito in legge nel Maggio scorso) il contratto
precario più diffuso, cioè quello a tempo determinato,
viene incentivato essendo eliminato l'obbligo di giustificarne
l'utilizzo, aumentato il numero di rinnovi possibili ed estendendone
la durata. Stesso discorso per l'apprendistato, che riceve un'altra
serie di facilitazioni.
Gli altri punti della Legge Delega completano questo quadro
di perenne minaccia e ricattabilità prevedendo la possibilità
di demansionamento e di telecontrollo.
Non a caso l'ex ministro del lavoro e parlamentare del Nuovo
Centro Destra Sacconi, attuale presidente della commissione
lavoro del Senato, può affermare soddisfatto che grazie
a questo provvedimento “risulta profondamente cambiato
lo statuto dei lavoratori per licenziamenti, mansioni e tecnologie,
così come viene confermata la Legge Biagi che perde solo
il lavoro ripartito, applicato peraltro a meno di 300 lavoratori.”
Di fatto questa legge è quanto la destra ha sempre sognato
di ottenere senza mai riuscirci, perché ha dovuto tenere
conto di una forte opposizione sociale.
Opposizioni inascoltate
Un'opposizione sociale che non è mancata, a dir la verità,
neanche in questo caso: innanzitutto con la grande giornata
di mobilitazione del 25 ottobre, con quasi un milione di persone
in piazza, poi con lo sciopero della FIOM del 14 novembre insieme
ai movimenti sociali e quindi con lo sciopero generale del 12
dicembre – per citare solo quelli che avevano obiettivo
esplicito il contrasto al Jobs Act. E poi con le decine di manifestazioni
locali, contestazioni ed iniziative sparse per tutto il Paese.
Un'opposizione che il governo ha deciso di non ascoltare minimamente,
procedendo speditissimo verso l'approvazione dei decreti attuativi,
complice anche la scelta della CGIL di non portare avanti la
lotta con determinazione. D'altronde lo avevamo detto, la CGIL
aveva pensato il 25 ottobre e il 12 dicembre non certo per far
cadere il governo, ma per dimostrare al governo che con lei
si deve trattare, che rappresenta pur qualcosa, che ha ancora
un ruolo di “mediatore sociale” importante in questo
momento storico. Registrata la chiusura totale di Renzi e venendo
a mancare qualsiasi tipo di sponda politica credibile, la lotta
è scemata proprio nel momento in cui avrebbe dovuto mostrare
la massima risolutezza.
Nell'ultimo direttivo nazionale del principale sindacato italiano,
la lotta si ridimensiona e viene in sostanza demandata alla
contrattazione e a un'eventuale campagna referendaria di abrogazione
della riforma o addirittura alla stesura di un nuovo Statuto
dei lavoratori che scavalchi a sinistra il Jobs Act. Il dibattito
giornalistico intanto si è concentrato sul teatrino della
politica: i dissidi interni al PD, in cui la minoranza “di
sinistra” è arrivata a dichiarare che il provvedimento
prende in giro i precari e devasta i lavoratori (apriti cielo!),
l'impermeabilità del governo rispetto ai pareri del parlamento
sul licenziamento collettivo, e, tornando al fronte sindacale,
la supposta discesa in campo del segretario della FIOM Landini,
già individuato come il possibile “Tsipras italiano”.
Dall'altra parte Renzi può contare non solo sui suoi
megafoni mass-mediatici, ma anche su una campagna politica e
propagandista in cui può trovare il sostegno di pezzi
di borghesia italiana entusiasti del regalo ricevuto. Per primo
Marchionne, che, benché tempo fa abbia detto che il Jobs
Act non avrebbe influenzato le sue politiche aziendali, avendo
già imposto autonomamente le stesse condizioni di ricattabilità
e sfruttamento, ha attribuito le 1000 nuove assunzioni nello
stabilimento di Melfi8 proprio
ai recenti provvedimenti governativi, offrendo un assist al
Premier, che ha potuto approfittarne nel suo attacco al sindacato.
Una lezione da imparare
Nonostante tutta l'arroganza che la borghesia è in grado
di mettere in scena, dietro le quinte si può leggere
la preoccupazione di chi sa di star giocando una carta molto
importante e potenzialmente incendiaria. Perché non passerà
molto tempo prima che milioni di lavoratori capiscano sulla
propria pelle in cosa si traducano realmente le promesse fatte
con il Jobs Act, mentre dall'altra parte la classe dirigente
italiana è costretta a scommettere ancora una volta in
una ripresa economica incerta che, nonostante le “autorevoli”
previsioni di chi negli ultimi anni non ne ha mai azzeccata
una, difficilmente verrà rilanciata da misure come questa.
Anzi! Se è vero che la borghesia sta approfittando alla
grande delle condizioni materialmente sempre più disastrose
in cui versa il proletariato italiano e della confusione e lo
sconforto che regnano tra molti lavoratori, dall'altra parte
è anche vero che è costretta a misure come questa
proprio per scaricare su di essi i costi di una crisi che non
riesce a controllare e che, con queste stesse misure, potrebbe
finire addirittura per acuire.
Inoltre, benché lo scenario che ci consegna questa riforma
appaia terribile e sembrerebbe portare soltanto a una competizione
spietata tra lavoratori sempre più ricattabili, anche
in queste condizioni la giusta determinazione e capacità
organizzativa può essere in grado di strappare risultati
rilevanti. Perché la solidarietà tra lavoratori
può sempre innescare lotte capaci di vincere e condividere
un destino di discriminazione e sfruttamento come quello cui
il Jobs Act vorrebbe consegnarci tutti, potrebbe alimentarla.
Lo dimostra, da ultimo, la recente importante vittoria nazionale
delle lotte nel settore della logistica, dove l'articolo 18
è applicabile con difficoltà e dove per i molti
lavoratori stranieri pende anche il ricatto del permesso di
soggiorno. Proprio dalle lotte dei facchini, che tra l'altro
scesero in piazza contro il Jobs Act il 14 novembre ed il 12
dicembre andando oltre le divisioni sindacali, si possono trarre
indicazioni utili. Ad esempio sulla questione degli appalti:
c'è infatti il grosso rischio che lavoratori licenziati
e riassunti nel cambio dell'appalto finiscano per essere inquadrati
con il nuovo contratto a tempo indeterminato. Da tempo le lotte
nella logistica ci hanno insegnato a puntare alla responsabilità
del committente e ad evidenziare la continuità nel rapporto
di lavoro nonostante cambi l'intermediario; con le recenti disposizioni
normative questo tipo di lotta acquisirebbe un'ulteriore rilevanza.
Un altro spunto potrebbe essere quello della creazione di una
cassa di resistenza per i lavoratori licenziati per motivi sindacali
e politici e la costruzione di una rete di solidarietà
tra di essi, dato che, purtroppo, sono verosimilmente destinati
ad aumentare con il Jobs Act.
Queste sono solo alcune piccole indicazioni concrete, a cui
potrebbero aggiungersene molte altre. L'importante è
che in un frangente come questo la nostra prima preoccupazione
non sia quella di improvvisare micro-coalizioni o cartelli elettorali,
ma di creare la mobilitazione sociale più vasta e radicata
possibile. Una mobilitazione capillare, consapevole, reale e
non mediatica, che utilizzi le forme organizzative esistenti
per scavalcarle, per crearne di nuove. E che esprima un programma
sintetico, chiaro, accessibile alle masse. Partendo proprio
dalla lotta contro il Jobs Act e contro i decreti attuativi
sul riordino dei contratti atipici - perché se ne chieda
realmente la fine -, e quelli poi sul demansionamento e sul
telecontrollo che dovrebbero essere approvati nei prossimi mesi.
Perdere una battaglia non significa infatti perdere la guerra.
Clash City Workers
Note
- Si vedano Antonella Stirati (2008), La flessibilità
del mercato del lavoro e il mito del conflitto tra generazioni,
e Elia M. (2013), La condizione sociale del lavoro nell'era
della flessibilità.
- Si veda keynesblog.com
e Stirati (2012), Crescita e “riforma” del
mercato del lavoro.
- Si veda economiaepolitica.it.
- Si vedano gli studi di Paolo Pini, disponibili su keynesblog.com.
- Quelli cioè che, come la Germania, registrano maggiori
entrate che uscite nel bilancio nazionale. In realtà,
Draghi non distingue l'avanzo primario, quello in cui cioè
tra le spese non vengono conteggiati gli interessi sul debito.
Nel qual caso apparirebbero tra i paesi virtuosi anche quelli
che, come l'Italia, sono in consistente avanzo primario ma soffocati
dagli ingenti interessi sul debito.
- Si veda sbilanciamoci.info.
- Si veda economiaepolitica.it.
- In realtà dei 1000 lavoratori assunti e/o rientrati,
300 sono in “somministrazione” a tempo determinato,
altri 100 in trasferta da Cassino. L'accordo aziendale (Ccsl)
inoltre prevede l'abolizione della pausa pranzo e 736 euro in
meno complessivamente rispetto al precedente Ccnl, senza considerare
che quando si lavora il sabato o la domenica non si percepirà
straordinario e senza parlare dei ritmi di lavoro insostenibili.
Lavoratori della metropoli in lotta
Clash
City Workers è un collettivo fatto di lavoratrici
e lavoratori, disoccupate e disoccupati, e di quelle e
quelli che vengono comunemente chiamati “giovani
precari”. La traduzione del nostro nome suona un
po' come “lavoratori della metropoli in lotta”.
Siamo nati alla metà del 2009 e siamo attivi in
particolare a Napoli, Roma, Firenze, Padova e Milano,
ma cerchiamo di seguire e sostenere tutte le lotte che
sono in corso in Italia.
Facciamo
inchiesta e proviamo a dar voce a tutti quelli che stanno
pagando questa crisi, attraverso il sito, la rassegna
stampa, le interviste, le corrispondenze e le denunce
che ci potete inviare...
Se siamo deboli, è innanzitutto perché non
sappiamo quanto potremmo essere forti, non sappiamo quanti
siamo e quante ragioni abbiamo.
Vogliamo dare visibilità a quello che succede nel
mondo del lavoro, alle violazioni dei padroni, alle situazioni
lavorative in crisi. Proviamo ad essere megafono per le
vittorie che lavoratori e lavoratrici conquistano con
la lotta. La consapevolezza è il primo passo per
fare valere i nostri diritti e la nostra forza. Anche
per questo proponiamo analisi sulla situazione politica,
cercando i reali problemi e le nostre esigenze. E per
questo traduciamo materiali e diffondiamo anche qui in
Italia le esperienze di lotta più significative
che vanno avanti nel resto del mondo.
Ma il nostro collettivo non si limita solo a fare informazione
e dibattito. Nel dare voce direttamente ai lavoratori
e lavoratrici ci poniamo assieme a loro il problema dell'organizzazione
delle lotte: evidenziare gli elementi politici che caratterizzano
tutte le vertenze, mettere gli stessi lavoratori in contatto
fra di loro, così che possano riconoscersi e fare
fronte comune.
Secondo noi la lotta è l'unico cammino. Ma la lotta
ha tante forme possibili e tanti piani. Per questo negli
ultimi anni abbiamo costruito e partecipato a scioperi
e cortei, abbiamo volantinato, organizzato assemblee pubbliche,
attacchinato e fatto picchetti, abbiamo cercato di fornire
supporto tecnico e aiuto materiale ai lavoratori che si
mobilitavano, organizzando casse di resistenza, concerti
di solidarietà, facendo inchieste che svelavano
gli interessi padronali e permettevano a lavoratori e
lavoratrici di contrattaccare sul piano politico giudiziario
e mediatico, lanciando campagne “pubblicitarie”
provocatorie - come quella contro IKEA - che hanno messo
in crisi l'immagine di un'azienda o di un marchio.
Ma ancora tanto abbiamo da fare. Clash City Workers è
un collettivo aperto a qualsiasi contributo esterno, a
chiunque voglia fare informazione, a chiunque voglia costruire
insieme interventi sui luoghi di lavoro, sviluppare e
collegare le lotte dei lavoratori.
P.S. Il nome Clash City Workers viene da canzone di una
famosa band inglese di fine anni '70, i Clash. In questa
loro canzone si dice che non bisogna lamentarsi della
propria triste condizione e del proprio insoddisfacente
lavoro, ma bisogna organizzarsi per cambiare tutto radicalmente!
Clash
City Workers
www.facebook.com/ClashCityWorkers
cityworkers@gmail.com |
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