ricordando Liber Forti
Adiòs Liber, a ti nuestro conjunto abrazo fraternal
di Lela Campitelli e Federica Rigliani
È morto a Cochabamba (Bolivia), a 95 anni, Liber Forti, militante anarchico nato in Argentina (a Tucumàn, 1919), storico leader del sindacato dei minatori boliviani, protagonista per decenni della vita politica, sindacale, culturale e artistica dell'America Latina.
Lo ricordano qui due compagne: Federica che con lui ha condiviso, qualche anno fa, un'esperienza (non solo) teatrale di cui già riferì anni fa su queste pagine. E Lela che, pur non avendolo conosciuto, ne ha fatto proprio l'insegnamento.
Insegnamenti di vita anarchica applicata
di Federica Rigliani
Qualche anno fa ho raccontato a questa rivista una mia esperienza
in quattro puntate, un viaggio fatto sulle Ande alla ricerca
di fonti per la mia tesi di laurea. L'ultima puntata era proprio
dedicata al gruppo sul quale mi laureavo e per il quale cercavo
di costruire una bibliografia: il Teatro de los Andes,
allora diretto da César Brie. Per poterlo fare sono andata
a cercare le esperienze e gli esempi che, in un modo o nell'altro,
erano per me e per il gruppo in questione precursori del viaggio
e della ricerca che iniziavo (“A”
376 dicembre 2012 - gennaio 2013).
È stato così che ho conosciuto Liber Forti, anarchico
argentino che per anni fu assessore culturale della Federación
Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia (FSTMB) e fondò,
nel 1946, il Conjunto Teatral Nuevos Horizontes nella
piccola cittadina di Tupiza, nel sud della Bolivia. Per raccontare
la storia di Liber mi servii di tutto il materiale che riuscii
a mettere insieme: articoli di giornale, scritti pubblicati
dal Conjunto dagli anni quaranta fino ai sessanta, interviste
di chi lo aveva conosciuto, articoli di chi aveva già
dato voce a quella storia e a quell'esperienza e una lunga,
interminabile, fluida intervista a lui, allora settantacinquenne,
nella sua biblioteca di Cochabamba. L'undici marzo, Paolo del
Teatro de los Andes mi ha detto che Liber era morto. Aveva 95
anni.
Dai ricordi del fondatore ho messo insieme l'esperienza che,
dal '46 al '61, portò un enorme rinnovamento culturale
tra le lotte sindacali e la storia di una compagnia composta
da “artisti organici” che mantennero un legame strettissimo
con un territorio aspro e magico allo stesso tempo, che seminarono
con amore e pazienza un solco, contornato anche da delusioni,
mosso dalla forza di grandi energie intellettuali che ancora
oggi continua a raccogliere frutti.
Situata nella regione di Potosí, la più rivoltosa
e la più mineraria di tutta la nazione, Tupiza era sinonimo
di miniera sì, ma non fu mai un accampamento minerario
come Potosí o Oruro, che fecero la storia del paese e
ingoiarono nelle viscere delle loro montagne decine di migliaia
di uomini. Un paese di cavatori, la Bolivia, che tra il 1943
e il 1946 visse la prima esperienza di unione tra contadini
e minatori, le classi sociali più importanti per numero,
forza e densità di popolazione, le più disagiate
e povere di un territorio rurale dal sottosuolo ricchissimo.
Esperienze sindacali e nascita di movimenti sociali caratterizzavano
questi anni intensi di contrasti e avvenimenti politici, tra
dittature e governi nazionalisti, sollevamenti sociali e nascita
dei partiti di opposizione. I minatori iniziarono ad organizzarsi
in sindacati unitari, ispirati dalle correnti socialiste, anarchiche
e del nazionalismo rivoluzionario per combattere i baroni
dello stagno e rivendicare la nazionalizzazione delle miniere.
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Liber Forti (Tucumàn, Argentina, 1919- Cochabamba,
Bolivia, 2015) |
Radio Chorloque, i minatori, i campesinos
Liber respirò questo clima, e qui decise di fermarsi,
riversando la sua arte con grande senso etico e sociale nell'immediata
realtà circostante, con alto livello di sensibilità
umana come condizione necessaria del fare teatrale che, da un
punto di vista sociale, costringe l'attore-essere umano
a non prescindere dalla realtà nella quale vive. Questa
sensibilità guidò N.H. verso la strada
di cooperazione e di solidarietà che tanto caratterizzò
gli obiettivi del Conjunto: di fronte all'estrema povertà
e alle condizioni di disagio che vivevano gli abitanti di Tupiza,
la sensibilità giovanile e solidale di N.H. non
aveva la pretesa di risolvere i problemi, ma di denunciarli
e segnalarli alla società che avrebbe dovuto farci i
conti in maniera critica. E questa è la grande lezione
che N.H. dà a tutto il paese: l'arte intesa come una
forma di vita e di lavoro attraverso cui interrogare la società
e per cui ogni gesto, ogni intervento, ogni azione dovevano
risultare benefici per la collettività tupiceña
di cui il Conjunto si sentiva parte. Per questo, con
il ricavato degli spettacoli acquistava scarpe per i bambini
poveri e scalzi delle scuole serali e interveniva sugli argomenti
più disparati riguardanti la comunità: da una
discussione su un monumento alla Madre appena costruito
alla collaborazione con il piccolo comune per ottenere il materiale
necessario per l'illuminazione pubblica, dalla preoccupazione
di dotare la cittadina di una radio trasmittente culturale,
come Radio Chorloque, alla collaborazione con le scuole
e i movimenti popolari e sindacali dei minatori e dei campesinos.
Spirito solidale e sensibilità, insieme ai sentimenti
di giustizia e di libertà che si coniugano tanto bene
con il movimento artistico e culturale, fecero emergere nel
gruppo un senso etico di responsabilità collettiva consolidatosi
nel cammino della realizzazione personale di ogni membro, ma
sempre nell'azione comune verso gli altri, offrendo così
una sensazione feconda di interazione sociale. Il Conjunto
era una vera e propria “fondazione nello spirito”,
per usare le parole di Liber Forti, perché ridurlo alla
semplice definizione di “gruppo teatrale” è,
non solo a mio avviso, alquanto riduttivo. Coniugando etica
e cultura informava su temi sociali, oltre che sulle esperienze
di teatro europeo e internazionale, ed editava in mille difficoltà
i Cuadernillos e il Boletín. Nell'ultimo,
del 1961, con un editoriale commovente dal titolo “Nos
vamos de Tupiza” spiegò le ragioni che lo portarono
ad abbandonare, dopo quindici anni, quel luogo diventato anche
grazie al suo lavoro culturale crocevia di idee e di effervescenze
disparate: “Nostro fu l'impegno attraverso un duro lavoro,
con fede e trasparenza [...] per ottenere nobiltà e amore
in queste relazioni. Loro fu l'asprezza e l'indifferenza”.
Oggi, avrei ben poco da aggiungere parlando di Liber, non perché
non ci sia da aggiungere, solo perché ho perso di vista
l'uomo e l'artista, ho vissuto poco i suoi ultimi anni e non
ho avuto modo di condividerne le esperienze, quindi non so raccontarle
perché non mi si sono appoggiate sulla pelle. E io di
questo ho bisogno.
Mi interessa, però, porre l'accento sulla consegna totale
che Liber fece della sua vita alla ragione per lui più
grande: la cultura e l'educazione come armi di innalzamento
dello spessore di un popolo, della sua interezza, della sua
umanità. E la sua cocciutaggine l'ha avuta vinta: a 93
anni tornò con oneri e clamore tra chi, riconoscendo
in lui un maestro d'arte e di vita, aprì nel 2012 a Tupiza
la Primera Edición del Festival Nacionl de Teatro
Liber Forti, tenutosi dall'11 al 20 gennaio, che Liber inaugurò
personalmente. E i tupiceños, a distanza di anni
e alla luce di un'eredità indissolubile che aveva scritto
la storia della cittadina e del teatro in Bolivia, gli restituirono
la casa che da sempre era stata del Conjunto perché
diventasse la sede della Fundación Nuevos Horizontes.
Ecco come un sogno d'inizio secolo ha saltato lo sbarramento
dello spazio e del tempo, è diventato realtà attuale,
ha cancellato la parola “impossibile” dal suo percorso
culturale e umano. E la storia di Liber permane nel tempo, oltre
il tempo stesso.
Per questo non voglio ripetere quanto su di lui è stato
già detto anche da me, né voglio ridurre queste
poche righe a un necrologio compassionevole. Voglio, invece,
riprendere le voci di alcune persone che, leggendo la sua storia
in un mio post su facebook nel quale lo salutavo per
il suo ultimo viaggio, hanno realizzato delle belle considerazioni
e dei pensieri interessanti sull'esempio di vita e di resistenza
che Liber ha fatto della sua esistenza e del suo lavoro. Francesca
Palma ha ringraziato per “il bel viaggio mentale”
e la straordinaria testimonianza offerta, mentre Lela Campitelli
ha ricordato un volantino, “uno degli strambi volantini
che facevamo... diceva: Che ne sarà di noi?”, e
ha scritto le sue riflessioni da una Matera antica e moderna,
riscattata grazie alla cultura, alla conoscenza, alla possibilità
che c'è oggi, in quel posto tanto bistrattato un tempo
e legato nella memoria alle condizioni di umiltà che
generavano solo vergogna.
Questo è quello che ho proposto a Paolo Finzi, capo-redattore
di “A” Rivista Anarchica. Questo mi interessava:
cosa ha lasciato la lettura della vita di Liber a chi non lo
aveva mai conosciuto né aveva sentito parlare di lui.
Liber fu per intere generazioni boliviane un esempio di vita
all'insegna della libertà, dei valori di uguaglianza
e rispetto, riuscì ad applicare alla vita l'ideale anarchico
e libertario di giustizia e alimentazione culturale delle anime.
Invece, mi viene in mente la storia di un attuale giornale online,
News Town, voce indipendente di un territorio massacrato:
l'intera provincia aquilana venuta giù dopo il terremoto
terribile del 2009. Nato dopo il sisma, è esempio di
resistenza locale di cittadini/e che hanno voluto raccontare
ciò che guardavano oltre le transenne invalicabili dell'immensa
zona rossa. E oggi, a distanza di sei anni da quella tragedia
e dopo tutti gli sforzi fatti dal basso per esserci e resistere,
sembra negata loro la possibilità di tornare in un centro
storico. News town vive online, non ha copia cartacea
e si autofinanzia. Parla della vita che gli gira intorno, segnala
e denuncia i mali della realtà più vicina: il
territorio devastato dell'Aquila e provincia. Oggi, la redazione
prova a tornare in centro storico, perché sono in tanti
a scommettere, pur nella difficoltà, nella possibilità
di riabitarlo di anime, pensieri, idee e parole, di ripopolarlo
di presenze mentali, oltre che fisiche. Eppure non riescono
ad allacciare la rete Internet.
Ecco, mi sembra un esempio ad hoc operato da una burocrazia
cieca che toglie la possibilità, a chi investe tutto
se stesso per esserci in modo responsabile e dal basso, con
senso etico e con la forza di una volontà ferrea. La
stessa burocrazia che crea solo isolamento ed esclusione, che
smorza voci e sopisce coscienze. La cultura si deve poter respirare,
non dovresti fermarti a cercala, dovrebbe investirti e prenderti,
dovrebbe abitare i luoghi di per sé, arrivare a tutti,
nobilitare l'essere umano nella sua essenza più profonda
per scuotere coscienze e crearne di nuove. Per questo credo
che bisogna porre l'accento sull'importanza che certe esperienze
hanno ancora sull'oggi, sull'ora, sul qui
- non necessariamente luogo - percorrerne la scia, non all'insegna
del passato, ma di un presente del quale tutto, ma proprio tutto,
fa parte. Un presente che Liber ci ha lasciato, oltre l'arte
attraverso l'arte.
Federica Rigliani
Il
teatro sulle Ande
“A”
si è più volte occupata del lavoro di Liber
Forti e di alcune esperienze teatrali nella Bolivia della
seconda metà del '900,
pubblicando quattro articoli curati da Federica Rigliani:
|
Che ne sarà di noi?
di Lela Campitelli
Ricordo un volantino, uno degli strambi volantini che facevamo...
diceva “Che ne sarà di noi?”: non ricordo
a quale iniziativa fosse collegato. Non ricordo! Nel frattempo
cammino sotto una pioggia fitta, come al solito godendomi le
suggestioni del luogo - mi piace la felicità indifferente
dei paesaggi, non li collego ai miei stati d'animo. Un furgoncino
mi raggiunge e passa oltre al suono di “Tomorrow people”,
e penso che siamo noi quelli... La gente di domani! Che strana
simmetria!
Il luogo è Matera, Sassi di Matera per la precisione,
e lo scenario delle mie riflessioni è una gola rocciosa
chiamata Gravina sul cui costone occhieggiano le chiese rupestri,
le grotte scavate dai monaci bizantini in fuga dalle guerre
iconoclaste. Matera: città da poco eletta a capitale
della cultura per il 2019, con i Sassi Patrimonio Mondiale dell'Umanità
dal 1997, nel cuore del Parco Naturale della Murgia e delle
Chiese Rupestri. La città di cui parlava Carlo Levi,
nel racconto del suo confino in Basilicata, dalla cui testimonianza
partì un'interpellanza parlamentare su quella che veniva
considerata la “vergogna” italiana per le condizioni
di estrema povertà e insalubrità che documentava.
Oggi simbolo di una specie di riscatto quindi, ma sul rovescio
della medaglia c'è la soglia, non si sa se ancora non
varcata, della città in vendita, della città souvenir,
del luogo conservato per l'illusione della memoria.
Qui non si parla d'altro che di Pasolini, un altro cristo, ripetutamente
crocifisso. Demolito nel vacuo spazio dell'immagine, e nel riverbero
respinto delle sue parole, divenute quinte teatrali. Sensazione...
opprimente sensazione di perdita del rifugio per la coscienza
che può essere la testimonianza: parole di quella portata!
La parola fatta corpo e sostanza. Sento che di nuovo tutte le
possibilità di dire crollano. E Federica aspetta da me
il tassello di un lavoro corale!
Mentre mi domando cosa ne è stato di noi, mi riempie
di una felicità inattesa - come il paesaggio di prima
- un'immagine, più una visione; proprio il racconto di
Liber Forti fatto da Federica. La sua vita, l'utopia come dura
costruzione giorno per giorno.
Certe persone, come lui, sconosciute ai più, note a chi
segue la storia dei movimenti non-violenti, hanno attraversato
un secolo tra lotte per i diritti, esperimenti sociali e nuovi
linguaggi. E questo mi permette ancora una volta di riallacciarmi
questo filo alla scarpa e ricominciare a camminare; ancora un
po' nel non-sense del mio momento storico, ma con questa
sensazione di felicità che viene da una vita caparbiamente
impiegata in un progetto che va oltre se stessi e oltre il proprio
tempo.
Si tratta di percorsi umani che elevano la condizione del singolo
a molla del processo umano e universale, lo riportano a una
condizione ontologica che precede l'uomo-massa, lo ricongiungono
alla possibilità di riprendere in mano la sua storia,
il suo disegno nel mondo, a partire da un'alleanza con quelli
che in apparenza sono i più deboli della catena, quelle
persone che subiscono l'oppressione del sistema economico e
ne fanno direttamente le spese.
Le vicende del nostro mondo, oggi, ci impediscono di concepire
un'utopia, proiettarci in un futuro diverso dal presente, costruire
comunità fuori da un disegno economico-globale, che vede
anche le nostre più intime istanze profondamente compromesse
dai diktat e dagli input dello “spettacolo”
- per dirla alla Debord. Ma c'è un lavoro quotidiano
che può essere svolto, un lavoro paziente e continuo,
da fare notte e giorno, con meticolosità artigiana, con
i mezzi dell'antica tessitura, trama-ordito, o se necessario
con il metodo di Penelope del fare e disfare. Un lavoro di decodifica
e discernimento, raccolta e riserva delle testimonianze, presenza
e distanza per trovare di volta in volta i posti, i momenti,
i rari coni di luce per il racconto.
Chi era Liber Forti, e chi siamo noi oggi? Quale il ruolo di
un artista e la sua posizione nel mondo? Che cos'è l'umanità
e qual è il suo progetto?
Scopro che queste domande sono ancora il file rouge,
il non senso della mia solitaria camminata.
Penso ad Antonin Artaud quando dice: “non c'è rivoluzione
senza rivoluzione nella cultura, cioè senza una rivoluzione
della coscienza moderna dinanzi all'uomo, alla natura e alla
vita”.
Poi mi viene in mente una frase di Julian Beck: “Il teatro
è il cavallo di legno per prendere la città”.
Lela Campitelli
Un'altra voce dell'Aquila
Il
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La redazione di News Town |
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