Giandante X e l'arte rivoluzionaria
Intervista a Roberto Farina
Giandante
X è un piccolo uomo, un pittore tormentato, ribelle e
libertario che attraversa le più tragiche vicende del
Novecento. Il suo vero nome è Dante Pescò, milanese,
classe 1899. Giandante è stato il più giovane
architetto d'Italia, scultore e pittore di culto negli anni
Venti e, in seguito, per sua volontà, autonomo da ogni
corrente. Vagabondo, in cerca di esperienze a 16 anni, ardito
del popolo e oppositore dei fascisti. Volontario anarchico,
ha combattuto nella guerra di Spagna. Internato nei peggiori
campi di concentramento in Francia e Italia, poi partigiano.
Ha incontrato le maggiori personalità politiche e artistiche
di quegli anni, Luigi Longo, Guido Picelli, Giovanni e Nori
Pesce, Mario Sironi, Carlo Carrà, Aligi Sassu, Ernesto
Treccani, Giacomo Manzù, rimanendo costantemente, misterioso
e provocatore, attivista dell'underground artistico. Nonostante
un passato da artista di primo livello, seminale in tante esperienze,
Giandante è morto dimenticato nel novembre 1984. Per
fortuna Roberto Farina per il trentennale dalla morte ha pubblicato
un bellissimo libro per Milieu edizioni e per questo ho deciso
di fare quattro chiacchiere con lui su Giandante X.
Caro Roberto Farina, ho avuto la fortuna di leggere subito
il tuo libro su Giandante e scoprire un personaggio meraviglioso
di cui fino ad ora non avevo mai sentito parlare (mea culpa).
Sono rimasto a dir poco colpito da questa incredibile storia
di vita e dal suo eccezionale percorso artistico.
Di solito nelle pagine di questa rubrica mi dedico a delle
analisi antropologiche e per questo mi vorrei soffermare subito
sulle peculiarità della figura umana di Giandante: come
descriveresti il suo sguardo umano sul mondo e sull'arte?
Giandante purtroppo è una figura molto poco studiata.
L'unico catalogo risale al 1963. Da allora è calato il
silenzio editoriale, quindi è normale che siano pochissimi
quelli che hanno sentito parlare di lui.
La figura di Giandante è stata ben definita da Dino Formaggio.
Per Formaggio, Giandante era “una specie di monaco solitario
tutto e sempre preso in una sua lotta anarchica per ideali di
redenzione e liberazione dell'uomo di tutta l'intera umanità
da sottrarre da ogni servitù, da salvare da ogni forma
di miseria, di dolorosa esistenza, di bruta ignoranza”.
Già da adolescente aveva deciso che la sua strada sarebbe
stata quella dell'arte, che lui definiva un “crudele mostro”,
perché lo aveva costretto a una vita di lotta e ricerca
continue. Giandante dovette battersi contro la famiglia per
seguire la sua scelta, poi contro il fascismo, poi contro il
mercato. Fu una lotta continua per essere libero di essere ciò
che era. E poiché la libertà individuale presuppone
la libertà di tutti, lottò sempre contro ogni
costrizione sociale. Giandante appartenne a una generazione
che credeva nella possibilità di cambiare il corso della
storia nel segno dell'equità sociale. Credeva nella rivoluzione,
credeva nella socialità dell'arte. Rifiutava la definizione
di artista, perché rifiutava la separazione di arte e
vita. L'arte era il suo modo per stare sempre sulla linea di
combattimento. Ma non era l'unico modo: quando suo padre morì,
Giandante ricevette una legittima che spese tutta in libri e
armi. Quando andò in Spagna, combatté a Monte
Pelato. Sotto Salò, fece la Resistenza... Quel che voglio
dire è che la sua lotta per la liberazione dell'uomo
fu condotta con i pennelli, ma anche con la violenza, e la condusse
al fianco di anarchici, di comunisti, di socialisti, aprendosi
agli altri, chiudendosi in se stesso, amando il prossimo, proteggendo
la propria solitudine. Era un uomo in continua chiusura e apertura
con la società, come un cuore: sistole e diastole.
Cosa particolarmente interessante è la sua scelta
di rinnegare la famiglia e quindi scegliere un nome molto significativo,
lo puoi spiegare ai lettori della rivista?
Giandante scappò di casa a sedici anni e ruppe tutti
i rapporti con la famiglia. Da quel momento scelse diversi pseudonimi,
fino a quello definitivo. Certo è che chi rinuncia al
proprio nome rinuncia ad affermare la sua provenienza sociale,
che nel caso di Giandante era quella della ricca borghesia imprenditoriale
milanese. Quindi il rifiuto della famiglia e l'invenzione del
nome sono una cosa sola. Ma questo nome non è solo un
rifiuto, è anche un progetto. Rappresenta il sigillo
di una scelta. Scrive lui stesso: “Si dichiarò
Giandante e si applicò sulla spalle l'enorme incognita
X.” Se l'applicò e non se la tolse più.
In questa scelta io vedo l'affermazione di un'individualità
assoluta, ma anche il cancellamento dell'individualità
stessa. Giandante è un nome singolare, che nasce con
lui, ma la x è un simbolo universale. Giandante X rappresenta
una singolarità unanime. Io, tutti e nessuno. L'Unico,
che in virtù del suo egoismo ama il mondo intero.
Secondo Ernesto Treccani, Giandante X scelse il suo nome come
emblema di pace, contro ogni valore di supremazia.
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Giandante, Spaccalegna, 1927 |
Non di secondo piano nel libro è la tua voce narrante,
sei riuscito a costruire una biografia veramente particolare,
prendi il lettore per mano e lo accompagni nell'avventurosa
vita di Giandante. Come hai scelto di strutturare così
il testo? E come hai incontrato Giandante?
Per anni ho raccolto tutte le informazioni su Giandante in un
saggio intitolato “Tra i poveri e le stelle”, nel
quale ho cercato di essere obiettivo, di dare informazioni esatte,
accompagnate dove possibile da note. Ne è venuto fuori
un piccolo saggio piuttosto denso. Quando ho incontrato Edoardo
Caizzi e Nicola Erba di Milieu, loro, tra una bottiglia di vino
e un piatto di melanzane alla parmigiana di mia madre, che hanno
molto ma molto apprezzato, mi hanno chiesto di svilupparlo.
Poiché non intendevo mettere mano al saggio, ho pensato
a due parti narrative che lo precedessero e seguissero, nelle
quali avrei potuto raccontare la mia ricerca e quindi tutti
i personaggi che avevo incontrato sulle tracce di Giandante,
nonché le voci più o meno leggendarie che negli
anni avevano alimentato la memoria popolare di questo personaggio.
Le parti narrative sono più libere, meno controllate
del saggio centrale. Mi sono lasciato andare a uno stile più
romanzesco, ma i fatti sono veri, a parte qualche passaggio
dettato dalle esigenze narrative, chiaramente.
La conoscenza di Giandante la devo a Giuseppe Bruschera, lui
amava l'arte e amava molto Giandante. Era il papà di
un amico conosciuto tra i banchi di scuola. La prima volta che
andai a casa Bruschera, Pippo mi parlò di Giandante,
mi mostrò l'unico catalogo esistente, quello del 1963,
e mi fece ammirare dal vero molti quadri. Questo non lo fece
solo con me, Giuseppe divulgava sempre Giandante a chi passava
da casa sua. Intendeva gettare un seme nei giovani. Con me c'è
riuscito: sono passati più di venticinque anni e sono
ancora lì con lui, nel suo salotto, a contemplare quei
fiori pieni di gioia di vivere, quei volti dignitosi e puri,
quelle montagne magmatiche, spezzate, moli di infinita potenza.
Una cosa che mi ha colpito molto è stato l'impegno
di Giandante nel produrre al massimo per andare contro il sistema
della sfera economica dell'arte, come faceva a lavorare così
costantemente e allo stesso tempo vivere una vita totalmente
sconnessa con il modo dell'arte?
Lui fu avverso al fascismo come al mercato dell'arte. Il primo
gli chiese di vendere l'anima, il secondo di passarla all'amministratore.
Lui disse no e combatté sia l'uno che l'altro. Avrebbe
potuto entrare nella giostra del potere e del commercio, aveva
i contatti giusti, ma non volle. Eppure il suo è stato
da subito un percorso di successo: a vent'anni mise in mostra
alla Galleria Vinciana venticinquemila piccoli disegni. Disegni
molto interessanti, visto che la mostra fu patrocinata da Adolfo
Wildt. Da allora le mostre si susseguirono: negli anni Venti
espose nelle più prestigiose gallerie milanesi, a tre
Biennali di Monza, alla Triennale di Milano. La Galleria del
Milione lo corteggiò, ma lui volle starsene sempre da
parte, per difendere la sua integrità. Era un lavoratore
accanito, qualcuno potrebbe dire ossessivo. Lavorava anche in
carcere. Ogni tanto spariva e quando ricompariva diceva: “Mi
hanno messo al fresco, ma io sono ancora qui!”. In carcere,
lavorava con mezzi di fortuna. Quando non aveva denaro, pare
ricavasse i colori dai rifiuti. Nel 1923 fu incarcerato e processato
per detenzione abusiva di armi e quando uscì preparò
in poche settimane le opere per la Biennale di Arti Decorative
di Monza.
I suoi rapporti erano non solo con il mondo dell'arte, ma anche
della politica: fu tra gli Arditi del Popolo, tenne diverse
conferenze nel salone di via Achille Mauri, che era gestito
dagli anarchici, pubblicò sull'Unità di Gramsci.
Non praticava una cesura tra vita e arte, politica e arte, vita
e politica. Non divideva la vita in compartimenti stagni. La
militanza di Giandante era totale. Etica e estetica e politica
erano una cosa sola. Finché riconobbe la possibilità
storica di questa unità non disdegnò di fare parte
del mondo dell'arte: anche nel dopoguerra fece molte mostre
(nei primi anni Cinquanta ebbe anche un certo successo commerciale),
ma quando avvertì che il mercato dell'arte cominciava
ad assomigliare al mercato del pesce, della moda o dei diamanti,
se ne distaccò definitivamente. Nella sua ottica totalizzante,
se il quadro è in vendita allora è in vendita
anche l'artista.
Simbolico della sua rottura con il mercato è ciò
che fece negli anni Cinquanta, quando il giorno dell'inaugurazione
di una sua mostra si piazzò per strada fuori dalla galleria,
a vendere i suoi quadri a un decimo del prezzo del gallerista.
A lui bastava raccogliere ciò che gli era sufficiente
per continuare a vivere dignitosamente e a lavorare. Voleva
tenere le quotazioni basse, perché per lui nel denaro
si concentrava ogni bassezza, ma lo faceva anche perché
voleva che i suoi quadri circolassero tra tutti e non solo tra
i collezionisti danarosi. La sua inaffidabilità mercantile
gli fece terra bruciata intorno. I galleristi lo cercarono sempre
meno e a lui andava bene così. Cominciò a vendere
nei mercatini come la Fiera di Sinigallia. Negli anni Sessanta
ebbe per un certo periodo un banchetto tutto suo, dove vendeva
i quadri, ma anche molto altro, cianfrusaglie, utensili, vecchi
oggetti di antiquariato. Negli anni Settanta il suo stile divenne
sempre più veloce, meno ricercato. Questo gli permetteva
di produrre molto velocemente. Ripeteva sempre: “Un quadro
in ogni casa”. Possiamo dire che questa fu la sua ultima
battaglia: invadere la città intera con i suoi quadri.
Sono quadri di montagne, fiori e volti. Coloratissimi, a encausto.
Ricopriva il pannello di masonite di nero, poi con una spugna
stendeva i colori, dopo averli sciolti nella cera bollente.
Dopo averli stesi, li lavorava ancora con un ferro incandescente.
Ne produsse a migliaia, con il risultato positivo che oggi chiunque
può permettersi un Giandante. Il risultato negativo è
che, non essendo un affare, è difficile trovare qualcuno
dell'ambiente che abbia voglia di occuparsi di lui. E quindi
ci ritroviamo con questa situazione: un artista che ha attraversato
tutto il Novecento, che ha esposto nelle più prestigiose
gallerie milanesi, a tre Biennali di Monza, alla Triennale di
Milano, che ha lavorato nell'ufficio propaganda delle brigate
internazionali, un artista così non ha neanche un'opera
esposta in un ente civico ed è ancora pressoché
ignorato dalla grande editoria d'arte.
Per concludere una domanda che non potevo esimermi dal
farti, quali sono i tuoi rapporti con il mondo libertario?
Da sempre mi affascina la critica impietosa dell'autorità
e da sempre provo un'avversione per il comando. Amo l'anarchia
perché bandisce il comando. Questo significa, in un sol
colpo, bandire ogni valore di supremazia. Amo l'anarchia perché
difende la libertà. Libertà, non licenza: l'anarchia
è contro l'anomia. Credo che l'anarchia, prima di essere
un progetto politico, sia un'etica e un'arte. L'arte della liberazione
dalla paura dell'altro. L'anarchia è quindi la più
alta forma di liberazione cui si possa tendere. Amo l'anarchia
ovunque la trovi: credo che l'arte, quando è arte, sia
sempre anarchismo. E credo che chiunque riesca a vincere la
paura e ad aprirsi senza preconcetti e calcoli verso il prossimo,
in quel momento è portatore di anarchia, anche se non
lo sa, anche se non lo dice, anche se non lo vuole. L'anarchia
è ciò che di meglio c'è in tutti noi. L'anarchia
è la più grande esplosione di umanità che
l'uomo abbia mai conosciuto.
Andrea Staid
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