India
Inferno bianco tra i forzati della calce
reportage di Raùl Zecca Castel
A Piduguralla ci sono numerose cave, mulini, fornaci e tanti uomini, donne e bambini impiegati come spaccapietre. Cronaca (con foto) di una visita allucinante.
La terra è ricoperta da
un soffice manto bianco, come foderata di neve, mentre una sorta
di nebbia sottile occulta la vista trasformando le figure umane
in ombre spettrali. Persino le voci risultano ovattate e distanti,
come assorbite dalla polvere che filtra negli occhi e nel naso,
lasciando in gola un sapore acre, persistente. Non si ode nemmeno
il calpestio dei propri passi e sbattere i piedi certo non servirebbe
a niente se non a sollevare ancora altra polvere. Solo il rumore
secco delle pietre che si infrangono sotto i pesanti colpi di
martello rompono il silenzio, echeggiando nell'aria come un
lontano batter d'ali.
Non ci troviamo sul set post-apocalittico dell'ennesimo film
di fantascienza, ma a Piduguralla, il più importante
centro di produzione di calce di tutta l'India, una cittadina
di 120mila anime al centro dello stato dell'Andhra Pradesh.
Questa è una delle zone più povere e rurali del
paese, immersa tra piantagioni di cotone, riso e peperoncino.
Ma soprattutto circondata da imponenti rocce calcaree. In un'area
di pochi chilometri quadrati, infatti, sono concentrate settanta
cave, altrettanti mulini per la polverizzazione delle pietre
e duecentoquarantacinque fornaci cilindriche alte circa quindici
metri per un capienza di quaranta tonnellate l'una che, nell'orizzonte
fitto di nebbia, si stagliano maestose come improbabili cattedrali
di cemento.
Ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini raggiungono
questo luogo infernale dalle zone periferiche della città,
dove vivono in anguste baracche prive di acqua e corrente elettrica.
Nonostante la recente meccanizzazione di alcune fasi del processo
di fabbricazione della calce, quello degli spaccapietre è
ancora un lavoro estremamente duro e pericoloso. Così
non sorprende che a svolgerlo siano soprattutto coloro noti
come gli intoccabili, i fuori casta, deputati per nascita, da
un destino spietato, ai compiti più umili e degradanti.
Anche se la Costituzione del 1950 ha formalmente abolito il
regime delle caste, infatti, tale gerarchica divisione della
società in classi immutabili è ormai fortemente
radicata nella cultura e nella pratica quotidiana di oltre un
miliardo di indiani e difficilmente potrà essere estirpata
senza un deciso impegno di sensibilizzazione che parta anzitutto
dalle generazioni più giovani.
Le giornate cominciano molto presto a Piduguralla, ben prima
del sorgere del sole, in modo da evitare, per quanto possibile,
le ore più calde e afose del pomeriggio, quando nel mese
di maggio, appena prima della stagione monsonica, il termometro
può segnare temperature che facilmente superano i 45
gradi. In piccoli gruppi, i lavoratori si dispongono attorno
al perimetro delle fornaci dove per lunghe ore si dedicano ininterrottamente
a spaccare le pietre calcaree e il carbone che servirà
per la combustione. I frammenti così ottenuti vengono
poi ammucchiati in ceste di plastica che un nastro meccanico
trasporta sino alla bocca delle torri cilindriche. Qui, avvolti
nei loro caratteristici turbanti, alcuni addetti in precario
equilibrio riversano il contenuto delle ceste nel condotto delle
fornaci che, come a voler ringraziare per il quotidiano nutrimento,
sprigionano nauseanti fumi biancastri.
Occorrono circa dieci ore e quasi mille gradi per cuocere
le pietre calcaree e trasformarle in calce viva, una sostanza
altamente tossica per la salute umana. Se maneggiata senza le
dovute precauzioni, infatti, essa può provocare gravi
lesioni alla pelle, agli occhi e alle vie respiratorie. Eppure
qui, a Piduguralla, nessuno è dotato di materiale antinfortunistico
e le malattie professionali colpiscono indiscriminatamente tanto
gli adulti quanto i numerosi bambini che ancora vengono impiegati
in questo lavoro sfiancante. Basta osservare i loro capelli
stranamente biondi, come ossigenati, per rendersi immediatamente
conto degli effetti che le esalazioni delle fornaci producono.
Senza contare le dermatiti, gli attacchi di emicrania, le infezioni
polmonari, e molte altre patologie più o meno gravi.
Come le caste, anche lo sfruttamento del lavoro minorile è
formalmente abolito in India. Tuttavia, questa terribile piaga,
nell'industria della calce così come in numerose altre
realtà indiane – e non solo –, resta un problema
ancora del tutto aperto. La verità è che spesso,
a Piduguralla, sono i genitori stessi a vedersi costretti ad
approfittare dell'aiuto dei propri figli, poiché senza
il contributo di quelle piccole braccia il guadagno di un'intera
giornata di lavoro non basterebbe a mantenere famiglie spesso
troppo numerose. Le paghe infatti sono a cottimo e del tutto
irrisorie: per 10-12 ore di lavoro un uomo può guadagnare
fino a 150 rupie, l'equivalente di due euro, mentre una donna
ancora meno.
Come una catena che lega intere generazioni, la città
della calce rischia così di rimanere per sempre ostaggio
di un circolo vizioso incredibilmente difficile da spezzare
che inghiotte migliaia di vite umane e che produce, insieme
alla calce, sempre più degrado e violenza. A farne le
spese, come sempre, i più deboli e indifesi, soprattutto
donne e bambini, spesso vittime silenziose di maltrattamenti
e abusi.
Solo una strenua lotta per la promozione dei diritti umani fondamentali
potrà fermare il perpetuarsi di questo perverso circolo
vizioso che in nome del profitto di pochi offre troppe vite
innocenti in sacrificio al Dio spietato della calce. Derubati
della loro infanzia e del loro diritto al gioco e alla felicità,
i bambini di Piduguralla sono gli ingranaggi essenziali di un'industria
che non si fa scrupoli davanti a nessuno: un'industria più
che redditizia che rifornisce proficuamente migliaia di piccole
imprese, pronte a commercializzare, in India ma anche all'estero,
il risultato di tanta fatica e sudore.
Raùl Zecca Castel
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