Le contraddizioni dell'infallibilità
1.
Dopo lunghi mesi di dibattito conciliare, Pio IX riuscì a far approvare il dogma dell'infallibilità papale. Dovette superare l'opposizione di coloro i quali ritenevano che solo alla Chiesa nel suo complesso spettasse l'infallibilità e dei tanti “Inopportunisti” che ritenevano che era meglio non parlarne affatto. Si finì con l'approvazione – 553 voti a favore e solo 2 contrari – di una formula in cui l'infallibilità è sancita ma “ex cathedra”, il che voleva significare che il Papa è infallibile soltanto quando parla in veste di Pastor Aeternus, ovvero quando parla come pastore universale della Chiesa. Ma, ovviamente, il criterio per decidere quali dichiarazioni siano da considerarsi “ex cathedra” e quali no, restò – e resta tuttora – piuttosto vago. Si era nel 1870.
2.
Alcuni aspetti di questo dibattito sono magistralmente raccontati da Lytton Strachey (1880-1932) nella sua biografia del cardinale Manning (inclusa, insieme alle biografie di Florence Nightingale, del dottor Arnold e del generale Gordon, in Eminenti vittoriani, pubblicato da Castelvecchi, Roma 2014), perché Manning (Henry Edward Manning, 1807-1892), lasciata la Chiesa anglicana e convertitosi al cattolicesimo, da trafficone furbastro qual era, si diede parecchio da fare per rendere i favori ricevuti a Pio IX.
3.
Sul più banale versante della logica, è chiaro che il dogma dell'infallibilità papale pone più di un problema irrisolvibile alla Chiesa stessa. Riporto un solo esempio di Strachey. Nel XIV secolo, Giovanni XXII, nella bolla Cum inter nonnullus, definisce eretica la dottrina della povertà di Cristo. Bene, il suo predecessore, Nicola III, nella bolla Exiit qui seminat, aveva definito eretica la dottrina che negava la povertà di Cristo. Uno dei due Papi, dunque, si era sbagliato.
4.
L'approvazione del dogma costituì anche un problema politico
di non poco conto. Il concilio, infatti, fu seguito con trepidazione
sia dagli inglesi, che dai francesi e dagli austriaci, che,
facendo ricorso alle arti della diplomazia e dello spionaggio,
fecero di tutto per influenzarne l'andamento. Il loro problema
era ovvio: una volta approvato il dogma dell'infallibilità
papale, come garantire l'obbedienza alle leggi dello Stato della
parte cattolica della popolazione? All'evidente contraddizione
del rapporto tra Stato e Chiesa – nel tentativo di rasserenare
gli animi – provvide un'inquietante tesi del cardinale
Giacomo Antonelli (segretario di Stato vaticano, detto il “Richelieu
italiano”), il quale ebbe la faccia tosta di dichiarare
che “c'è una grande differenza fra teoria e pratica.
Nessuno potrà mai impedire alla Chiesa di proclamare
i grandi principi su cui si basa la sua divina struttura; ma,
quanto all'applicazione di quelle sacre leggi, la Chiesa,
sull'esempio del suo divino fondatore, è propensa a prendere
in considerazione la naturale debolezza del genere umano”.
Come dire: lasciateci fare la legge e noi vi garantiamo l'inganno.
5.
Intorno alla metà dell'Ottocento, l'ancora anglicano Manning ebbe a che fare con il “Movimento di Oxford”, ovvero i Tracts for the Times – un movimento che forse oggi diremmo “fondamentalista”, critico nei confronti della Chiesa Anglicana e piuttosto diffuso nel ceto intellettuale – tanto da far temere un ritorno di massa nelle larghe braccia della Chiesa Cattolica. Se, tuttavia, andassimo a verificare su quali problemi e quali tesi tale Movimento affidasse le proprie fortune, rimarremmo piuttosto perplessi. Strachey ce ne dà un esempio quando riferisce dell'ampio dibattito intorno all'annosa questione del perché Abramo avesse circonciso 318 suoi discendenti non uno di meno e non uno di più. Si trattava di un numero mistico tutto da interpretare? Ora, se qualcuno ci ponesse problematiche di questo genere – se san Niniano avesse trasformato un bastone in un albero, se san Germano avesse fatto smettere ad un gallo di cantare – ce la caveremmo (la dico alla svelta e male) chiamando la Croce Verde. Bene, scrive Strachey – biografo scrupoloso, degno di fede – che “scritti di questo genere non potevano restare senza effetto” e che “devoti giovani di Oxford ne rimasero avvinti e cominciarono in massa” a farsi seguaci di questo movimento. In questa, come in tante – troppe – altre circostanze storiche, c'è da interrogarci sulle condizioni in cui usiamo di quel che definiamo come la nostra ragione.
6.
Arrivo all'attualità. In una circostanza particolare,
ex-cathedra o meno, Francesco I si è prodotto in una
dichiarazione che, come una garanzia di umiltà, ha fatto
al volo il giro del mondo: “Chi sono io per giudicare?”.
Tuttavia, se ci si pensasse bene, questa affermazione non è
poi così umile come sembra. Tutti noi, per forza di cose,
siamo costretti a giudicare – costantemente, in ogni circostanza
della nostra vita – e, a maggior ragione, siamo costretti
a giudicare se dagli altri riceviamo il dono – e il gravame
– della responsabilità. Forse, Francesco I avrebbe
fatto meglio a chiedersi: “Chi sono io per non giudicare?”.
Al di là di questa riflessione, rimane, poi, per lui,
il problema di fondo: come conciliare la propria infallibilità
di principio con l'omissione del proprio intervento?
Felice Accame
Nota
Al biografo Lytton Strachey, nel 1994, Michael Holroyd ha dedicato
una stupenda biografia, Lytton Strachey – L'arte di
vivere a Bloomsbury (Il Saggiatore, Milano 2011). Attingendo
ai documenti più vari – compresi i romanzi d'epoca
–, Holroyd sa ricostruire il mondo mentale prima ancora
delle vicende pubbliche e private della persona – il tipico
“mondo” politicamente detestabile in cui si vive
di pettegolezzi e si erige a fatto sociale il comportamento
dell'amico o dell'amica: scrittori, artisti, ombelichi del mondo
– ex “Apostoli”, studenti privilegiati in
confraternite poetico-filosofiche, e membri di quel gruppo di
Bloomsbury che l'attiva presenza di Virginia Woolf rese famoso. |