Ma la geografia
non è una scienza univoca
Può
un romanzo esprimere istanze libertarie senza utilizzare i linguaggi
della militanza e senza ambientare le vicende in contesti rivoltosi
o tipici di una condizione sociale che favorisca il desiderio
di emancipazione? La lettura de La mappa di Vittorio
Giacopini (Il saggiatore, Milano, 2015, pp. 332, € 18,00)
stimola una risposta affermativa, principalmente perché,
da più punti di vista, l'autore rende omaggio a G. G.
E. Reclus.
Come ogni sapere, la geografia non è una scienza univoca
e immodificabile.
Serge Victor, protagonista dell'ultimo libro di Giacopini, imparerà
a sue spese che il potere protegge sempre se stesso a discapito
di ogni etica coerenza: gratifica la propria arroganza sfruttando
qualsiasi opportunità, bruciando tutto ciò che
reputa ingombrante, eliminando ogni riflessione che potrebbe
creare “inciampo” ad eventi pianificati. A rendere
più accattivanti i pensieri di Serge è il teatro
entro il quale si evolve ogni sua esperienza: l'espansione e
la decadenza dell'impero napoleonico. Scoprirà la beffa
di un alibi ammantato da nobili intenzioni: “le armi di
Francia” [...] porteranno “ideali di libertà
e uguaglianza, di fratellanza”. Serge è un geografo
arruolato nell'esercito, il suo compito è fondamentale
alle strategie della conquista: “prima viene la mappa
poi l'azione”. “Bisogna studiare per fare la guerra”,
bisogna saper disegnare “come se si fosse per aria”.
É da questi concetti che si dipanerà una spirale
contraria: “l'emozione della guerra” non sarà
vissuta sul palcoscenico bellico, ma dietro le quinte, tanto
che percepirà il suo mestiere come se si svolgesse “alla
rovescia” e senza godere mai di alcun merito.
Ecco allora che una mappa può essere delineata su sentimenti
contrastanti; ecco l'esperienza che modifica gli entusiasmi
giovanili; ecco quanto i mappamondi possano assumere “diverse
proiezioni”. Serge avvierà un proprio percorso
di conoscenza: nella metafora efficace proposta da Giacopini
“un labirinto che esplica il sistema delle scienze e delle
arti”. Nel metabolizzare che “non esistono certezze
definitive”, Serge incarna pienamente le contraddizioni
dell'età dei Lumi, ma non sarà la ragione, o meglio
la pura razionalità, a fargli comprendere che il sapere
non abita i sentieri delle soluzioni categoriche: approderà
a percorsi di ricerca e a riflessioni in continua evoluzione.
Serge disegnerà per tutta la vita: su carte in scala,
su almanacchi, su tazze e piattini; esprimerà i propri
dubbi attraverso papere parlanti, fra saltimbanchi, poeti, improbabili
messaggeri e personaggi da favola.
Come l'acqua erode le spiagge, come il vento scalfisce le rocce,
come la guerra modifica i paesaggi e i suoi abitanti... così
Serge proporrà nuove interpretazioni agli eventi. Mentre
la rivoluzione francese “scende a patti con il clero”,
fra le tessere di un dettagliato gioco dell'oca saprà
collocare l'epopea di un imperatore “sconfitto da un'assenza”
e le tragiche conseguenze dell'ennesima e “invincibile”
politica di espansione: stragi, violenze, povertà, epidemie,
paesaggi bruciati e tesori artistici rubati.
Quando si colgono i particolari più nascosti, si scopre
che il mare non esisterebbe senza il fiume, senza il ruscello,
senza quella singola goccia d'acqua che, anziché evaporare,
resiste alle cascate più irruenti. L'arte cartografica
può essere molteplice, può ispirarsi all'Iliade,
all'Odissea o al Don Chisciotte e cioè, essere sì
al servizio della guerra e dell'odio, ma può essere una
guida per viaggi avventurosi, come immedesimarsi nel sortilegio
o in speranze ancora inespresse. Una geografia composta su utopie
di giustizia sociale: non più la sintesi di calcoli esatti,
ma strumento per cogliere i desideri degli individui e le esigenze
di intere comunità. Sarà l'empatia fra tutti gli
esseri viventi e la natura a disegnare i paesaggi.
Serge saprà declinare lessici rinnovati, darà
forma ai dubbi dell'infanzia e ai propri aneliti di libertà
dopo aver incontrato Zoraide: nuove prospettive, sguardi che
ricolorano lo sconcerto creato da eventi inconsueti. Zoraide
è tutto e il contrario di tutto: è donna, zigana,
attrice, indipendente; è l'avventura e l'altrove; è
“fuori da ogni mappa sino ad allora disegnata o immaginata”:
maga, sirena, sibilla... mistero e fantasia. L'inganno svelato
da una malìa? Superstizioni o false certezze?
Vittorio Giacopini, sicuramente affascinato dagli aspetti meno
noti della storia, offre ai lettori una concreta possibilità
per scardinare quei pregiudizi che una spinta intellettuale,
tanto statica quanto inamovibile, impone al nostro vivere di
oggi: sapremo confrontarci con “l'inciampo dell'esperienza”,
con “la ruvida resistenza delle cose”? É
una sfida: se si “traduce in geometria ogni apparenza”
ci si preclude la strada della conoscenza. Quando le mappe illustrano
“una terra dove i fiumi non bagnano o dissetano e gli
alberi frondosi non danno ombra” saranno sterili pezzi
di carta. Serge aveva incontrato fin dalla gioventù quei
“mappamondi di diversa proiezione”, ma soltanto
dopo averli vissuti ne percepisce i significati. I “labirinti”
e i “cammini tortuosi” svelano rebus o imbrogli;
la ricerca comincia quando si frantuma la rigida trasparenza.
Chiara Gazzola
Pagine anarchiche/
Un giornale, un uomo, una città
La
casa editrice Biblion ha ultimamente pubblicato due volumi sulla
storia dell'anarchismo negli anni precedenti alla prima guerra
mondiale. Nel fosco fin del secolo morente. L'anarchismo
italiano nella crisi di fine secolo, uscito nel 2013, raccoglieva
gli atti di un convegno tenuto a Carrara il 29 ottobre del 2011
e dedicato alla “riflessione su significati, interpretazioni
storiografiche e ruolo svolto dal movimento anarchico nel periodo
della lunga transizione politica e culturale dell'Italia verso
il Novecento”, come scriveva nell'introduzione Giorgio
Sacchetti. Il secondo volume è invece fresco di pubblicazione:
si tratta di Pagine anarchiche. Pëtr Kropotkin e il
mensile “Freedom” (1886-1914) (Milano, 2015,
pp. 212, € 16,00) di Selva Varengo, già autrice
diversi anni fa di un bel libro sul pensiero di Murray Bookchin
pubblicato dalla Zero in Condotta. Pagine anarchiche,
frutto della rielaborazione della sua tesi di dottorato, sembra
ruotare intorno a tre “poli”. Il primo è
Freedom, mensile pubblicato a Londra dal 1886 (ha chiuso
solo all'inizio del 2014) che ospitò importanti dibattiti
per il movimento libertario tra la fine dell'Ottocento e l'inizio
del Novecento, raccogliendo i contributi di un gran numero di
collaboratori di primo piano. Il secondo è senza dubbio
Kropotkin, il quale svolge un ruolo fondamentale nella redazione
del giornale dalla sua fondazione alla prima guerra mondiale,
un periodo che corrisponde con il momento più fecondo
della riflessione teorica dell'anarchico russo. L'ultimo “polo”
costituisce in un certo senso lo scenario delle vicende trattate
nel libro: Londra infatti è in quel momento il luogo
dove si rifugiano i sovversivi di mezza Europa, qui vive una
comunità anarchica vivace, numerosa, variegata, caratterizzata
dall'essere una sorta di assemblea permanente, aperta anche
in direzione degli Stati Uniti. Pagine anarchiche si
compone di tre capitoli. Il primo è quello più
propriamente storico, dedicato alla ricostruzione della nascita
e dello sviluppo dell'anarchismo inglese con i suoi periodici,
tra i quali spicca Freedom. Gli altri due capitoli delineano
e analizzano il ricco dibattito teorico che si sviluppò
sulle pagine del mensile, in cui un ruolo di primo piano era
giocato senza dubbio dal pensiero di Kropotkin. Il secondo capitolo
ricostruisce il momento critico della riflessione promossa dalla
rivista: dalla discussione sul concetto di rivoluzione alla
critica radicale del carcere, passando per la questione del
sindacalismo. Il capitolo si chiude ripercorrendo il dibattito
sulla violenza e sull'antimilitarismo, giungendo così
a quello sulla guerra ospitato sulle pagine di Freedom
nel 1914, momento in cui Kropotkin si allontanò definitivamente
dalla redazione. L'ultimo capitolo si concentra invece sul momento
propositivo. Vengono così ripercorse le diverse posizioni
sull'individualismo, sul comunismo e sulla connessa questione
della proprietà, sulla questione della libertà
delle donne, sull'educazione e sulla morale. Il volume è
completato da un'antologia composta da una decina di articoli
pubblicati sul giornale e qui tradotti in italiano. Pagine
anarchiche è insomma lo spaccato di un momento importante
della storia dell'anarchismo inglese (ma non solo in realtà),
la sua lettura porta ad immergersi nei dibattiti politici e
culturali dell'epoca, mostrando una grandissima ricchezza di
progetti ed ideali e permettendo di incontrare donne e uomini
fondamentali nella storia del movimento libertario. Freedom
appare insomma come un giornale in grado di farsi luogo fisico
di confronto, aperto e plurale, una sorta di crogiolo esistenziale
e politico che si relaziona con il movimento anarchico internazionale.
Questo per quanto riguarda l'argomento trattato dal volume di
Varengo. Ma Pagine anarchiche ha due ulteriori meriti.
Da una parte la chiarezza espositiva, dovuta non soltanto allo
stile di scrittura ma anche alla scelta dell'autrice di strutturare
la narrazione in base ad una scansione tematica la quale, pur
dando origine a qualche ripetizione, risulta complessivamente
chiara ed efficace. Dall'altra, il libro ha il merito di far
dialogare ricostruzione storica e piano delle idee, inserendo
la vicenda e la riflessione promossa da Freedom all'interno
del contesto di quei tormentati anni che precedettero la prima
guerra mondiale.
David Bernardini
Pinelli a teatro/
Ovvero io non sono Stato
Il 7 gennaio 2015 è stato l'11 settembre della satira;
a Milano il Teatro della Cooperativa cerca però di esorcizzare
e anzi rilancia: ospita infatti Il Matto – Ovvero io
non sono Stato, spettacolo dei Mercanti di Storie. Un monologo
a nove voci scritto e interpretato da Massimiliano Lozzi che
porta in scena, in salsa tragicomica e grottesca, la morte di
Giuseppe Pinelli, il processo che ne seguì e, di riflesso,
le morti di Stato che hanno seguito quella del ferroviere anarchico:
Aldrovandi, Cucchi eccetera eccetera eccetera.
Lozzi si lascia ispirare da “Morte accidentale di un anarchico”
per quel che riguarda la figura stessa del matto e per l'incedere
dirompente dello spettacolo; nel ritmo del parlato e in certe
battute sarcastiche, ma taglienti e profonde, c'è l'eco
di Ascanio Celestini: Lozzi, come il narratore romano, riesce
a far ridere il pubblico di una realtà tragica e incredibile,
presentandola in una veste quasi carnevalesca: il meccanismo
narrativo suggerisce una maggior consapevolezza di ciò
che ci circonda; suggerisce, in definitiva, di indagare che
cosa si nasconde dietro il riso. Il nostro, seppur convincente
e con la stoffa del mattatore cucita addosso, non disdegna panni
gigioneschi quando forza l'applauso, a volte anche sfoderando
battute che poco o nulla hanno a che fare con la satira.
Il maggior merito dello spettacolo, che si conclude con un Cristo
politico tornato sulla Terra per scuotere le masse dall'apatia
in cui sono sprofondate da troppo tempo, è di aver smascherato
i torti e gli errori dello Stato servendosi dello sberleffo
e della realtà dei fatti e di aver accostato tutto questo
all'innocenza di un uomo, di un anarchico: lo Stato ne esce
male, malissimo nell'implicito confronto con chi non crede e
non si riconosce in quest'ultimo.
Resta il ricordo di Giuseppe Pinelli che sale sul palco per
testimoniare nel processo in cui si discute e si cerca in ogni
modo di occultare la verità, quindi la giustizia, sulla
sua morte. Resta il ricordo di Pino, della sua “Antologia
di Spoon Rover”, di Licia, Silvia e Claudia e nel suono delle
risate che si alzano dalla platea c'è il riverbero, discreto,
di un pianto silenzioso.
Matteo Pedrazzini
Memoria dalla casa
del nulla
Il
senso del libro è tutto lì, dichiarato senza mezzi
termini nel sottotitolo: “Vademecum di resistenza”
(Cos'è il carcere, Derive Approdi, Roma, 2015,
pp. 128, € 12,00).
Rivolto a chi in carcere, per un motivo o per l'altro, è
finito. Ma rivolto anche a chi, per un motivo o per l'altro,
vi potrebbe entrare. E siccome, da quando qualcuno in carcere
frequento e qualcosa del carcere conosco, sono sempre più
convinta che riguardi i consumatori finali di una giustizia
che è giustizia di classe, suggerisco di cominciare col
chiederci da che parte stiamo (nel senso di classe, appunto).
Per capire intanto se questo “manuale” potrebbe
prima o poi tornarci utile. Se invece siamo sicuri di appartenere
a quell'altra classe, quella che le leggi le fa, tranquillamente
disponendo e pensando che “mai ci riguarderanno”,
questo libro dovrebbe interessarci lo stesso. Per avere chiaro,
senza far finta di non sapere, a cosa davvero condanniamo le
persone quando le imprigioniamo nella “casa del nulla”.
Che nel lessico dei prigionieri, apprendiamo, è il nome
più in uso per indicare il carcere.
L'autore, Salvatore Ricciardi, ha fatto parte dell'Autonomia
operaia e poi delle Brigate Rosse. Arrestato nel 1980, è
stato condannato all'ergastolo. Oggi è in libertà.
Ci racconta il carcere come solo chi viene da una lunga detenzione
può fare. Rispondendo, posso immaginare, a un impulso
ineludibile. E non per sputarne fuori da sé il ricordo.
Perché dal carcere, e ce lo spiega bene, non si va mai
via. Non si esce mai soprattutto da quella prigione che ci si
porta dentro, anche dopo che se ne è usciti fuori (scusate
il bisticcio delle parole...). Sempre ci torni in galera, spiega
Ricciardi, “perché devi cercare qualcosa che hai
lasciato lì dentro, qualcosa di molto importante per
poter vivere fuori”. Qualcosa che si è perso nel
tempo fermo, nel dolore, nel degrado, nella solitudine, nelle
mutilazioni, nella violazione dei diritti, nel rumore della
luce...
“Cos'è il carcere” ci precipita in tutto
quello che del carcere è inimmaginabile. E Ricciardi
lo narra con parole lucide, sempre sull'orlo dell'orrore. Sempre
sull'orlo dell'assurdo, e ad ogni capoverso sembra tirare il
fiato e chiedersi fra sé e sé: ma è possibile?
Pur conoscendo bene la risposta.
Leggendo, ce lo chiediamo anche noi: ma è possibile?
Eppure è proprio così. Da quando conosco qualcosa
del carcere, non è l'alto numero dei suicidi a stupirmi.
Perché se tutto spinge all'annullamento del sé,
il suicidio è l'unica cosa che si possa liberamente fare
senza riempire il modulo della “domandina”. A stupirmi
è invece la forza di chi non diventa il fascicolo che
la struttura vorrebbe, e attimo dopo attimo trova in sé
le ragioni di vita, pur in un sistema che la vita tutta vuole
negare. Questo vademecum, “preparando” all'impensabile,
dà in qualche modo regole di resistenza.
Svelando anche l'ipocrisia di propositi come quello che di tanto
in tanto si ascolta: “umanizziamo le pene”! Suona
un po' come un ossimoro, “ti facciamo un po' meno male”,
che fa appena, amaramente, sorridere... In filigrana, anche,
attraverso lettere e richiami alle rivolte degli anni passati,
il racconto di cosa nel tempo è cambiato, e cosa nel
tempo è rimasto uguale. Dalle lotte collettive che si
affacciano dalle cronache di un tempo, a quelle sommesse dell'oggi,
al curvarsi sul proprio dolore, all'individuale sforzo per fare
del proprio corpo territorio di resistenza. Termina, questo
vademecum, con un piccolo vocabolario delle “parole dentro”.
Una sorta di lessico familiare al carcere che, come tutti i
linguaggi, è fondamentale luogo di coesione e di resistenza.
Memoria, dunque, dalla casa del nulla. Da leggere, pensando
a uno spazio-tempo prigioniero, che rimanda anche alla prigione
di percorsi spesso obbligati del prima e del dopo. Questo carcere,
insomma, così funzionale alla società che abbiamo
costruito. Per chiederci ancora: ma come è possibile?
Ma forse la domanda più utile, che come scrive nella
prefazione Erri De Luca, “come un mal di denti torna nelle
pagine di questo libro”, è: a che serve? Domanda
che ognuno di noi ha l'obbligo di porsi, per provare a trovare
da sé la risposta. Che non è poi così difficile.
Il carcere serve a tutto quello che potete immaginare possa
negare quell'idea di recupero, di reinserimento che la Costituzione
chiede. Perché è l'ultima cosa che a noi (fuori)
importa, e sono lontani anni luce, dai politici dell'oggi, gli
uomini che scrissero la Costituzione... altra storia, altra
levatura, altro senso dell'Uomo. E, a proposito del senso di
carcerazioni e dintorni, per un semplice motivo: molti, il carcere,
l'avevano conosciuto.
In un articolo di Liberation sulla Svezia, ripreso da
uno degli ultimi numeri di Internazionale, si parla di un efficace
sistema di pene alternative, dove fra l'altro chi esce dal carcere
non viene rigettato nel nulla, ma accolto da un programma di
reinserimento. Lì, nel “paese delle carceri vuote”,
in un momento in cui alcune voci chiedono un inasprimento di
pene, il criminologo Henri Tham ha dimostrato con un suo studio
che il sistema giudiziario svedese non è affatto lassista,
come crede una parte dell'opinione pubblica. La maggioranza
delle persone intervistate alle quali ha chiesto di mettersi
nei panni dei giudici, e pronunciare una condanna dopo aver
seguito un processo, “non solo hanno scelto pene meno
severe di quelle realmente stabilite dai giudici, ma spesso
ne hanno criticato la severità”.
A proposito di conoscenza e immedesimazione...
Ben venga, questo libro, a lanciare un macigno contro il muro
della nostra colpevole ignorante indifferenza. E ad affiancare
il pensiero di chi, dati alla mano sul fallimento del carcere
“persino” come “garanzia della nostra sicurezza”,
con lucidità cerca percorsi di giustizia dove la pena
abbia un senso altro dalla punizione fisica e mentale che è
la costante dell'attuale sistema, dove tutto tende ad annullare
l'individuo, chiudendolo al mondo, rendendolo cosa, rendendolo
nulla. Perché tutto rimanga fermo, nella società,
così com'è.
Intanto, vademecum alla mano, si attrezzi chi può...
Francesca de Carolis
Dal Valdarno alla Siberia
(senza ritorno)
Esce,
a distanza di ventitré anni dalla prima edizione, notevolmente
arricchita di testimonianze e documenti, una nuova biografia
dedicata all'anarchico toscano (Giorgio Sacchetti, Otello
Gaggi. Vittima del fascismo e dello stalinismo, BFS,
Pisa, 2015, nuova edizione riveduta e aumentata, pp. 104, €
12,00). Ne pubblichiamo una breve scheda editoriale curata dall'autore.
Otello Gaggi (1896-1945) è un operaio della ferriera
di San Giovanni Valdarno che, per sfuggire alle persecuzioni
fasciste e ad una condanna a 30 anni inflittagli dal tribunale,
ripara in modo avventuroso in Russia. Qui però è
arrestato nel dicembre 1934 e inviato, in quanto “controrivoluzionario”,
nel Gulag, luogo nel quale troverà la morte dopo anni
di sofferenze. Dalla natia Toscana all'Ucraina, da Mosca al
Kazakistan, alla Siberia: la narrazione – utilizzando
fonti epistolari familiari e carte degli archivi sovietici –
si dipana in un viaggio lungo quasi un quarto di secolo ed esteso
a due continenti. “Parto per ignoti lidi...” scriveva
l'esule valdarnese alla sorella nel 1930. C'è, a tutta
prima, una dimensione psicologica di quel suo peregrinare angosciato
nell'universo concentrazionario del comunismo. E sono le pagine
stesse di questo agile volume a raccontarci gli orizzonti mentali
e le speranze che muovono il protagonista. La sua è una
generazione di braccati e di perseguitati, che ha visto la “grande
Storia” irrompere con violenza nell'intimo della propria
vita. Così al trauma dell'esperienza in trincea e alle
conseguenze tragiche della guerra europea, si sono sommate quelle
dei totalitarismi novecenteschi. La sua vicenda individuale,
divenuta caso internazionale, lascia qui spazio per un'attenzione
all'immaginario, alle motivazioni ideologiche delle sue fughe,
alle speranze fideistiche nella Russia bolscevica, nonché
alla sua disillusione ed al desiderio incontenibile di tornare
in Italia. Aspirazione che si manifesta con un palese rifiuto
della cittadinanza sovietica che pagherà molto caro.
Il protagonista diventa il “bersaglio” di un regime
di terrore che, nella sequenza parossistica ben analizzata da
Hannah Arendt, colpisce insieme ai nemici reali, quelli ritenuti
potenziali, oggettivi, e poi gli “autori di delitti possibili”,
non risparmiando la cerchia degli amici, dei seguaci e neppure
gli “innocenti cittadini senza opinioni”. Queste
pagine costituiscono il punto di arrivo sia dei contributi di
testimonianza sedimentatisi a partire dal secondo dopoguerra
attraverso l'impegno encomiabile dei piccoli gruppi della sinistra
dissidente, sia dell'impegno preso dai promotori di questa contro-memoria
operaia nel lontano 1992: “restituire l'onore politico
e morale a Otello Gaggi, antimilitarista e disertore nella guerra
mondiale, antifascista ed esule, ribelle e dissidente perseguitato
dalla alleanza oggettiva di OVRA e OGPU”.
Operaio assassinato da uno Stato sedicente proletario: crimine
tra milioni di crimini, la sua vita generosa commuove e suscita
simpatie. La ribellione di Gaggi, esule antifascista e ormai
“quasi” cittadino sovietico, finisce nei sotterranei
della Lubianka. La sua è rabbia dell'amante tradito,
ripulsa di un “comunismo” che gli appare nelle vesti
del poliziotto inquisitore e non dissimile da quel fascismo
che ha sperimentato sulla sua pelle all'epoca dei violenti prodromi
in Italia.
Questa ricerca, condotta sulla base di una documentazione nuova
e del tutto inedita, esce oggi in forma bibliograficamente aggiornata
e con ulteriori importanti contributi. Così il profilo
già tracciato, anche psicologico, della vita di un uomo
libero, vissuta da oppositore strenuo dei fascismi di ogni colore,
si delinea con ulteriore nitidezza. Le testimonianze della famiglia
hanno consentito il disvelamento di uno scrigno di ricordi gelosamente
conservati, hanno permesso di illuminare a pieno preziose informazioni
sulla sua personalità, sulla famiglia d'origine e su
quella che si era formata in URSS.
Il volume è anche una documentata denuncia contro le
omertà, i silenzi e le connivenze del partito togliattiano
individuando in particolare le gravi e precise responsabilità
di due importanti personaggi come Antonio Roasio e Dina Ermini
(alias Miranda Boffa), funzionaria del Komintern e compaesana
del Gaggi, definita dall'autore “prototipo della dirigente
comunista senza scrupoli”. Sì perché, rientrati
in Italia, i persecutori si dimenticano delle vittime.
Non risponde Togliatti “ministro del governo antifascista”
ad una lettera circostanziata di Victor Serge nel 1944. Non
rispondono gli altri.
Roasio, intervistato da Miriam Mafai, esprime dalle pagine di
“Repubblica” (27 ottobre 1982) tutto il suo rimorso
e fa una tardiva pubblica ammissione dei suoi errori e delle
sue complicità, che però passa quasi inosservata:
“[...] La nostra colpa è di averli abbandonati,
pur sapendo che erano innocenti. La nostra colpa è di
non essere intervenuti dopo, nel 1945. Molti di loro erano ancora
vivi, nei campi di concentramento”.
Queste pagine sono il risultato di una ricerca collettiva in
progress, condotta con metodo scientifico ma soprattutto
guidata da passione civile.
Richieste a: info_bfsedizioni@bfs.it,
tel. +39 050 9711432.
Giorgio Sacchetti
Le
persone bambine:
da ascoltare
Alla scuola de L'albero delle farfalle. I mondi della porta
accanto (Edizioni Piagge, Firenze, 2014, pp. 64, €
11,00) si parla di cose da grandi. In questa scuola speciale
popolata da farfalle aquilone danzanti trasportate da papà
vento, e da “persone bambine” viaggiatrici con la
mente, la realtà infarcita da pregiudizi e stereotipi
irrompe a pungolare i pensieri di grandi e piccini.
Il libro di Giovanna Panigadi, nato dalla sua esperienza di
insegnante in una scuola pubblica dell'infanzia in provincia
di Reggio Emilia, propone un percorso corale di esplorazione
dei mondi invisibili “della porta accanto”. Lo sguardo
sul mondo è diretto, senza panegirici né macchinose
costruzioni fantastiche. Così si scopre che il lupo non
è cattivo, se ti vede non ti assale, anzi, ti guarda
e scappa! Come è successo davvero di recente sulle colline
di Montecavolo, Quattro Castella, Vezzano e Salvarano. All'
“Albero delle farfalle” si impara a discutere dei
fatti della vita, in un'assemblea “che è quella
cosa che fanno tutti insieme, al mattino, su dei sedioloni grossi
e tutti uniti che chiamano gradoni”. Si impara a conoscere
che quelli chiamati “zingari” non rubano i bambini.
Si impara che il mondo è fatto di tante diversità.
Si scopre che a volte le persone adulte dovrebbero ascoltare
di più le persone bambine, e lasciarsi pizzicare per
non sprofondare nel torpore dell'indifferenza.-
Alla scuola dell' “Albero” si assapora la curiosità,
si impara a non rassegnarsi, a non diventare impassibili alle
ingiustizie.
Ricco di illustrazioni, ben curato nella grafica di Cecilia
Stefani, il piccolo libro agile e profondo accompagna nel viaggio
entusiasmante verso la bellezza della conoscenza, e sa rendersi
utile guida esploratrice di altri mondi possibili. Si tratta
della prima opera illustrata pubblicata nella Collana “Pungoli”
dalle Edizioni Piagge, nate all'interno della Comunità
delle Piagge. Come sottolinea Romano Giuffrida nella presentazione,
la scelta è proprio in sintonia con la precisa intenzionalità
dichiarata dalla stessa casa editrice: “Creare cultura
significa per noi raccontare esperienze di vita e di pensiero,
nate all'interno della comunità o in qualunque altra
realtà del mondo, con l'obiettivo di far emergere un
nuovo modo di intendere le relazioni tra persone, i rapporti
fra i cittadini e la città, l'economia, le dinamiche
sociali di partecipazione e di esclusione”.
Giuffrida valorizza altresì il lavoro appassionato di
ricerca dell'autrice poiché instilla “la curiosità
di non fermarsi a ciò che viene dato come indiscutibile,
proponendo un proprio atto di impegno e di amore che lanci gli
sguardi oltre il muro dell'ovvietà omologata e immobile”.
Claudia Piccinelli
Per una storia
dell'anarchismo italiano
Per la casa editrice Elèuthera è stato recentemente
pubblicato il volume di Antonio Senta Utopia e azione. Per
una storia dell'anarchismo in Italia (1848-1984) di cui pubblichiamo
la prefazione di Claudio Venza.
Antonio Senta, ricercatore all'Università di Trieste,
si è assunto l'arduo compito di disegnare un profilo
storico dell'anarchismo italiano. È senz'altro un impegno
affascinante e difficile. L'attrazione deriva dalla molteplicità
di aspetti di questo movimento e del suo pensiero sviluppatisi
in circa centocinquant'anni di storia del “Belpaese”.
La complessità del tema ha finora bloccato i tentativi
di scrivere una sintesi soddisfacente come quella presente.
Si tratta infatti di un movimento per più aspetti molto
originale. Una delle sue particolari caratteristiche si può
trovare nella capacità di far convivere, quasi sempre,
tendenze tra loro assai diversificate e perfino conflittuali.
È frequente incontrare la coesistenza di anime e ispirazioni
divergenti all'interno del variegato universo libertario: dal
comunismo all'individualismo, dal sindacalismo al pacifismo,
dall'antimilitarismo all'educazionismo. In certi casi si riscontra
una convergenza di sostenitori di opposte visioni della questione
organizzativa: gli antiorganizzatori, diffidenti verso ogni
struttura stabile interpretata quale anticamera della burocrazia
e del centralismo, si possono ritrovare a fianco dei loro compagni
antagonisti di fronte alle emergenze repressive o alle prospettive
di possibili sfide rivoluzionarie.
La lettura attenta di queste pagine potrà verificare
che l'affresco complessivo è ben articolato con la necessaria
attenzione dedicata alle diverse tendenze antiautoritarie mentre
l'efficace contestualizzazione permette al lettore, anche non
specialista, di entrare in un mondo pieno di sorprese. Alle
spalle di ogni ottica libertaria, pur se ipercritica, si intravede
l'esistenza di una visione del mondo che ha, nel rifiuto di
un'ideologia rigida, una grande vivacità e spesso delle
intuizioni per così dire “profetiche”. Tuttavia
il libro è uno spezzato della storia effettiva del movimento
più che una presentazione del dibattito teorico.
Da recenti studi analitici, come l'indispensabile Dizionario
Biografico degli Anarchici Italiani, risulta che tra i militanti
storici sono in netta prevalenza i lavoratori salariati e, in
seconda fila, quelli autonomi. In diversi casi si tratta di
agitatori sindacali talvolta con responsabilità organizzative
in strutture diverse da quelle controllate dai socialisti. Dai
cavatori e minatori di Carrara e del Valdarno ai portuali di
Livorno e di Ancona, dai tipografi di Milano ai muratori di
Firenze e di Roma, il ventaglio del popolo libertario comprende
categorie produttive che appartengono a pieno titolo al movimento
operaio e proletario.
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Piombino (Li), Camera del Lavoro, anni Venti Foto di gruppo
dell'Unione Sindacale Italiana |
L'aspirazione alla libertà
La storia dell'anarchismo italiano, saldamente legata a quella
più ampia delle classi popolari e della loro autonomia
dalle istituzioni (di cui le ricorrenti rivolte e insubordinazioni,
esplose dall'Unità in poi, sono un fenomeno eclatante),
non si potrebbe capire senza prendere in considerazione l'orizzonte
teorico e i valori morali di riferimento. L'immaginario rivoluzionario
dei libertari si ritrova nello sforzo di dare una prospettiva
di liberazione totale, non solo dallo sfruttamento economico
e dall'oppressione statale, ma da ogni forma di autoritarismo
e di inganno del potere. O meglio dei molteplici poteri, talora
in conflitto, ma considerati uniti nella ferrea logica del controllo
e della manipolazione. L'aspirazione alla libertà integrale
emerge quindi come una cifra specifica dell'arcipelago libertario
che lo differenzia da altri movimenti rivendicativi, quelli
di tipo marxista in primis, diretti alla conquista e
gestione dello Stato. In ultima analisi la dimensione etica,
come appare in molte pagine offerte da Senta, ha avuto un ruolo
decisivo nella scelta, espressa da una parte non trascurabile
degli oppressi, di aderire alla componente antiautoritaria.
Tale componente del più ampio movimento di emancipazione,
diversa nel tempo e con forza alterna, ha offerto ai ceti subalterni
concrete proposte di azione e di lettura della società,
per quanto provenienti da molteplici realtà individuali
e collettive del mondo libertario.
La seduzione di un'analisi dell'anarchismo, in Italia come altrove,
risiede nel fatto di non esaurirsi nella cruda realtà
materiale, ma di rivelarsi sensibile alle attese e alle pulsioni
morali che trapelano al di là delle lotte e delle mobilitazioni.
Al tempo stesso, occorre ricordare che il movimento anarchico
è stato un soggetto così poco catalogabile secondo
i canoni tradizionali delle miopi accademie che sono rimaste
interdette dalla scarsa consequenzialità tra le decisioni
di congressi e convegni e la pratica quotidiana di gruppi e
individui. Per questo carattere apparentemente dispersivo, l'anarchismo
è stato trattato in modo schematico e insoddisfacente
dalla storiografia italiana. Almeno fino a pochi anni fa.
Per decenni l'effervescente passato antiautoritario è
stato considerato poco e male dalle principali scuole storiografiche
fondate su pretese scientifiche. Così la forte corrente
di studi elaborati con un'ottica marxista, che pure negli anni
Settanta ha prodotto analisi interessanti e importanti, si è
dedicata a offrire un'immagine stereotipata e distorta del movimento.
Questo indirizzo ideologico, a tratti dominante nel panorama
editoriale, ha inteso ridurne il peso nelle vicende italiane
e lo ha collocato in un angolo oscuro, se non del tutto buio,
della ricerca. Istituzioni dotate di non poche strutture e forze
economiche, quali l'Istituto Gramsci, la rivista “Studi
Storici” e gli Editori Riuniti, hanno sfornato decine
di saggi e di volumi consacrati a valorizzare piuttosto la vittoria
organizzativa e culturale, dalla Prima Internazionale in avanti,
del socialismo moderato e poi del comunismo togliattiano su
una galassia libertaria giudicata alquanto evanescente. Si ricordi,
comunque, che questo clima di conformismo e appiattimento non
ha impedito la pubblicazione di lavori pregevoli di alcuni storici
marxisti seri, quali Franco Della Peruta ed Enzo Santarelli,
che sono andati ben al di là delle comode stroncature
ideologiche.
|
Milano, piazzale Loreto, circa 1946 - Foto ricordo di vecchi
antifascisti davanti al distributore di benzina dove erano stati
appesi il 29 aprile 1945 i cadaveri di Mussolini, Petacci e
altri esponenti del regime fascista. Nell'immagine commentata
da Armando Borghi per riconoscere le persone presenti, si legge:
“Mio cugino, Turroni, Io me. Fedeli. Gli altri non li
conosco di nome”. Fonte Archivio A. Borghi, Castel Bolognese |
Giudizi superficiali
Negli anni Sessanta e Settanta, studiosi affermati nel mondo
universitario, come Gian Mario Bravo e Aldo Romano, hanno rivelato
pregiudizi e superficialità, quasi rispondendo a una
disposizione dei vertici politici. In questo ambiente il modo
di studiare l'anarchismo di ieri rivelava l'obiettivo di svuotare
di ogni credibilità una tendenza storica che, in forme
nuove, sembrava riproporsi sullo scenario politico e sociale.
Il “trionfante” marxismo accademico post 1968, organizzato
in efficienti reti di fiancheggiamento della politica culturale
del PCI, era rafforzato da opere più divulgative e schematiche
nelle quali la dimostrazione del fallimento libertario risultava
inattaccabile. Così un film tecnicamente curato e avvincente,
come San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani,
apparso nei primi anni Settanta, rappresentava l'intento esplicito
di ribadire il declino dell'internazionalismo libertario superato
dalle nuove generazioni saldamente ancorate al socialismo scientifico.
Il suicidio del protagonista che, dopo molti anni di carcere,
incontra un gruppo di giovani decisamente marxisti è
una scena pensata per disperdere equivoci e illusioni antiautoritarie
presenti nelle agitazioni giovanili del periodo.
Su un piano assai simile, l'antropologo Carlo Tullio Altan sosteneva
che l'anarchismo estremistico di piccoli gruppi dell'élite
borghese e l'arretratezza sociale e culturale dell'Italia, dall'Unità
in poi, sarebbero strettamente collegati e, citando Gian Mario
Bravo, costituirebbero una pesante remora alla modernizzazione
e allo sviluppo democratico. La complementarietà tra
estremismo anarchizzante e l'ancestrale ritardo italiano sarebbe
la chiave di lettura per spiegare anche l'Italia degli anni
Settanta del Novecento in bilico tra uno sfondo anarcoide e
un tentativo razionale di superamento dell'insostenibile arretratezza
nazionale.
Presenze poco tollerate
Come mostra anche il libro di Senta, l'attiva presenza nei
movimenti extraistituzionali e radicalizzati di organizzazioni
e individui libertari risultava poco tollerabile per un grosso
gruppo di pressione, quello comunista istituzionale nelle sue
ramificazioni. Il PCI infatti, dopo decenni di involontaria
opposizione, si accingeva a entrare in pieno nell'area governativa
e voleva rimarcare i propri meriti nella difesa delle istituzioni
concretizzata nella lotta al pericolo antiautoritario, passato
e presente.
Da parte loro i tentativi di militanti libertari con intenzioni
storiche avevano esemplificato la debolezza, sul piano delle
analisi complessive, degli ambienti formati per lo più
da autodidatti pieni di buona volontà e di motivazioni
ideali. Fanno eccezione due casi tra loro molto diversi: Pier
Carlo Masini e Gino Cerrito. Il primo aveva dato vita, dopo
aver attraversato il contesto militante negli anni Cinquanta,
a un'istituzione molto qualificata come la Biblioteca Max Nettlau;
il secondo figurava, per molti anni, come l'unico docente anarchico
dichiarato che lavorava all'interno dell'Università.
Masini riuscì a pubblicare diversi volumi di notevole
rilievo editoriale che partivano dalla Prima Internazionale
per arrestarsi però ai primi anni del Novecento. Cerrito
si impegnò specialmente nel promuovere qualificate ricerche
tra i giovani storici che ruotavano attorno al suo insegnamento
nell'ateneo fiorentino.
Per alcuni decenni dopo la ricostruzione postbellica il panorama
degli studi storici non era certo confortante per le organizzazioni
libertarie. Tuttavia risuonava il noto consiglio di Gaetano
Salvemini: “Se gli anarchici non se ne curano, la storia
la faranno i loro nemici”. Forse gli esempi migliori di
impegno storico vicino all'universo libertario venivano dall'estero.
Ad Amsterdam, dagli anni Trenta, era attivo l'International
Institute of Social History che aveva già raccolto fondamentali
archivi di organizzazioni, soprattutto spagnole, e di militanti
di mezza Europa. A Losanna, il Centre International de Recherches
Anarchistes, meno dotato di strutture ma più interno
all'anarchismo, si rafforzava quale ente archivistico e promotore
di nuovi studi mettendo a disposizione di giovani ricercatori
sia strumenti di lavoro sia appoggi logistici.
A ben vedere, quanto qui scritto da Senta si colloca all'interno
di una situazione molto più consistente e stimolante
di tempo fa. Con questo testo egli apporta un valido contributo
nel tracciare un convincente percorso conduttore, per quanto
inevitabilmente incompleto, delle lunghe esperienze accumulate
in circa un secolo e mezzo. Un criterio per identificare il
filo, o meglio i fili, delle intense pagine che seguono può
essere quello di seguire l'evoluzione di alcuni nodi tematici
che si sono riproposti periodicamente con più o meno
virulenza.
Ad esempio, fin dalla Prima Internazionale si è aperto
un dibattito tra la tendenza di chi privilegiava la lotta frontale
al sistema autoritario fondato su capitalismo e Stato, cioè
l'azione diretta intesa nel modo più ampio e radicale,
e chi spingeva piuttosto verso un'emancipazione educativa dotando
gli sfruttati di conoscenze e di valori alternativi a quelli
dei privilegiati. Sullo sfondo si può avvertire la persistenza
di un sogno che permetta di coniugare ideali e pratica, principi
e lotte: la coerenza tra mezzi e fini. L'etica prevedeva che
l'anarchismo si distinguesse dagli altri “ismi”
per questa preoccupazione che i politici di ogni colore, anche
quelli di origini popolari, consideravano irreale e inopportuna.
Anzi assai poco conveniente per il loro fine principale: impossessarsi
delle leve di comando. Un ricco ventaglio di indirizzi operativi,
dal sindacalismo rivoluzionario agli atti esemplari, giustizieri
ad esempio, ha contrassegnato la prima tendenza che vedeva nella
dura contesa con il dominio il senso principale dell'identità
anarchica. La seconda corrente si è piuttosto riconosciuta
nella lenta, quotidiana, graduale costruzione di una cultura
antagonista attraverso la diffusione capillare della propaganda
fino a giungere all'edificazione di apposite scuole, o non-scuole,
antiautoritarie, oltre a diffondere una massa straordinaria
di libri e opuscoli, riviste e giornali.
Molto spesso si è manifestato un altro confronto interno,
legato al precedente, sul rapporto tra l'uso della forza materiale
per opporsi alla violenza autoritaria e le conseguenze che tale
atteggiamento comportava sul messaggio inviato ai propri interlocutori.
Il modello violento di conflitto provocava condizionamenti e
distorsioni del progetto di liberazione e rivoluzione globale
e non solo economica e di classe. Il presente studio ci conferma
che l'indirizzo pacifista tra gli anarchici è risultato
comunque minoritario, spesso ritenuto troppo debole come risposta
agli attacchi del potere costituito. In effetti questo contrasto
rinvia alla questione, molto delicata e in qualche modo affine
al tema violenza/non violenza, dei contenuti essenziali del
movimento e dei singoli individui: si cerca la liberazione dell'intera
umanità o ci si concentra sull'emancipazione delle classi
oppresse? Da tale opzione derivano conseguenze determinanti
nella pratica della lotta e nelle sue prospettive. Ad esempio,
fino a che punto le proposte libertarie vanno in una direzione
classista e quando, e come, entrano in gioco la sensibilità
e l'apertura più ampia verso l'intero genere umano?
La polemica sull'organizzazione e sul significato ultimo del
movimento si è riproposta ripetutamente a partire dal
famoso “equivoco” della Prima Internazionale. Questa
organizzazione era formata da una “minoranza agente”
che avrebbe dovuto semplicemente accendere il fuoco della rivolta
popolare, la quale si sarebbe poi sviluppata secondo forme spontanee?
Oppure i militanti specifici, appunto gli internazionalisti
che avevano dedicato la vita alla rivoluzione autentica, avrebbero
dovuto controllare, anche con la forza, che la nuova società
non riproducesse le vecchie gerarchie? Di tanto in tanto, perfino
nei primi anni Settanta del Novecento, l'ipotesi iperorganizzativa
si è riproposta con una piattaforma programmatica ripresa
da Pëtr Aršinov, un pensatore e militante machhnovista
che aveva riflettuto sulle ragioni della sconfitta del movimento
in Russia, secondo lui caratterizzato da pluralismo eccessivo.
Anche la cruciale questione del ruolo femminile nel movimento
in Italia è collegabile da un lato all'universalità
del discorso antiautoritario e dall'altro alle esigenze, spesso
urgenti, di raggiungere obiettivi concreti forzando i tempi
storici. In sostanza, il problema di genere è stato oggetto
di un'attenzione ridotta da parte dell'anarchismo italiano che
solo negli anni Settanta ha conosciuto da vicino le opere “anarcofemministe”
di Emma Goldman.
|
Venezia, Università IUAV, 26-29 settembre 1984 - Sezione
del convegno “Tendenze autoritarie e tensioni libertarie nelle società
contemporanee” con (da sinistra a destra): Nico Berti, Amedeo Bertolo, Colin
Ward, Murray Bookchin, Rudolf De Jong, Ruben Prieto (in piedi) |
A sua volta l'attività concreta, che spesso si è
trovata a fare i conti con vere e proprie emergenze incombenti,
ha fatto ricorso alla scorciatoia di una dirigenza, oltretutto
non istituzionalizzata, che permetteva di prendere decisioni
immediate e incisive. Ma il ruolo di questi “compagni
influenti” non riproduceva, in forma subdola o plateale,
quanto l'anarchismo criticava nelle altre organizzazioni fondate
su delega e gerarchia? Su questo piano, Senta analizza il ruolo
“dirigente” dei leader, indubbiamente esistenti
in un secolo e mezzo di mobilitazioni e resistenze. Al di là
di esplicite critiche alla personalizzazione delle tendenze
politiche e delle agitazioni popolari, non si può negare
che personalità quali Carlo Cafiero e Francesco Saverio
Merlino, Pietro Gori e Luigi Fabbri, oppure Armando Borghi e
Camillo Berneri, per non citare ovviamente Errico Malatesta,
abbiano inciso in modo sostanziale, nei rispettivi periodi,
sulle prese di posizione teoriche e pratiche.
Altre questioni hanno caratterizzato i tratti essenziali della
corrente libertaria. Una riguarda proprio il rapporto con gli
altri orientamenti che hanno assunto, e rappresentato parzialmente,
il desiderio di libertà e uguaglianza sia pure diversamente
coniugato e organizzato. Si tratta di riservarsi una completa
autonomia e differenziazione da altri settori, in parte simili,
per difendere un'identità continuamente in pericolo oppure
merita tentare forme di intesa e collaborazione per compiere
dei passi avanti sul cammino degli obiettivi parziali e temporanei
ma promettenti per l'attività futura? A proposito delle
alleanze, Senta ci ricorda che nel 1909, nel fuoco delle vaste
proteste anticlericali, si creò una transitoria collaborazione
con appartenenti alla massoneria, oltre che con fette di socialisti
e molti repubblicani. Pochi anni dopo, nella Settimana Rossa
del giugno 1914, si realizza un'insurrezione antimilitarista,
soprattutto romagnola, in cui si ritrovano fianco a fianco gli
alleati di pochi anni prima (meno i massoni). Cambiato tutto
il contesto europeo, nell'esilio francese si stabiliscono dei
robusti ponti con i liberalsocialisti di Giustizia e Libertà
di Carlo Rosselli tra confronti teorici e intese operative.
L'analisi del passato dovrebbe fare i conti con le reciproche
influenze che gli indirizzi, più o meno rivoluzionari,
hanno avuto con l'ipotesi libertaria. Ad esempio, cos'è
rimasto dopo la rottura con i socialisti nel 1892 della comune
esperienza di opposizione alla borghesia e, non va dimenticato,
alla Chiesa? Oppure, quanta attrazione verso l'invocata rivoluzione,
che aveva trovato la realizzazione nell'Unione Sovietica, è
sopravvissuta al crollo delle illusioni degli anni successivi
al 1917?
Tutti questi, e molti altri, sono i punti che nel racconto di
Senta appaiono e riappaiano a fasi alterne. Nelle sue pagine
si può toccare con mano il succedersi fisiologico di
periodi favorevoli (non molti) e sfavorevoli (frequenti) alla
speranza e all'attività libertaria considerata dall'autorità
e dai nemici un protagonista ormai defunto, ma sempre sorprendentemente
risorto. Forse la constatazione di Carlo Cafiero secondo cui
l'«utopia si è fatta storia» nella vita dell'anarchismo,
si conferma nella resistenza testarda degli attivisti di fronte
alle sconfitte e spesso alla clandestinità forzata. Non
a caso uno degli ultimi fogli prima del consolidarsi della dittatura
fascista mostrava il titolo esplicito di “Fede!”.
Se la repressione statale è stata indubbiamente una causa
delle crisi del movimento, giunto quasi alla scomparsa nell'Italia
fascista, altri fattori interni ed esterni, come le difficoltà
di interpretare le trasformazioni economiche e sociali, hanno
pesato nel corso del tempo. Un problema rilevante ancora da
illuminare riguarda, a livello italiano ma anche mondiale, il
drastico ridimensionamento verificatosi tra il primo e il secondo
dopoguerra.
Lo studio qui presentato ci permette, fatto piuttosto raro,
di entrare in modo sintetico nei meandri tormentati ed esaltanti
di un movimento tuttora da scoprire in molti aspetti e che ripropone,
al giorno d'oggi in forme e modalità diverse, propri
valori di riferimento e proprie aspirazioni ideali.
Claudio Venza
Il potere senza dominio
nelle società senza stato
Qual
è il significato del potere? E quello di debito e lavoro?
Nel suo nuovo libro I senza Stato (Bebert edizioni, Bologna,
2015, pp. 107, € 10,00) Andrea Staid si occupa di dare
una risposta a questi quesiti, proprio a partire dall'analisi
antropologica delle società “senza Stato”,
quelle che non sono state raggiunte dal fenomeno della formazione
degli Stati nazionali e in cui non sono presenti gerarchie o
gruppi dominanti detentori di potere politico, economico e sociale.
L'autore sottolinea come negli ultimi decenni sia possibile
riscontrare un generale incremento del dissenso e un aumento
di movimenti di resistenza che mettono in discussione e combattono
apertamente le istituzioni politiche del mondo occidentale.
Sono sempre di più le persone che non si riconoscono
nelle decisioni e nelle azioni di governi e singoli governanti,
e si fanno sempre più forti e decise le richieste di
una maggior autogestione dei territori.
La loro resistenza, la loro lotta e le proposte alternative
da loro avanzate mettono in discussione l'esistenza di un solo
modo di “pensare la società”, le relazioni
che operano al suo interno e i principi su cui si fonda. L'importanza
della presenza di questi movimenti risiede nella loro capacità
accessoria di sfatare il mito della naturalità dell'organizzazione
sociale entro cui agiamo, la quale, lungi dall'essere espressione
del migliore dei mondi possibili, altro non è che una
sola delle possibili organizzazioni sociali che l'essere umano
può scegliere di fondare.
La società gerarchica occidentale, basata sull'autorità
e sul monopolio del potere da parte di alcuni membri della comunità,
non è infatti né naturale né la sola possibile,
ma frutto di una scelta ponderata tra diversi modelli ugualmente
realizzabili.
Anche lo studio delle società altre ci permette di arrivare
a questa conclusione, mettendo in discussione il determinismo
con il quale solitamente si guarda alle nostre istituzioni politiche,
economiche e sociali; e proprio le differenze riscontrabili
tra diverse organizzazioni sociali ci permettono di dare vita
ad un'analisi sul significato del potere e sulle sue possibili
coniugazioni. Come afferma l'autore: “Studiare, capire
la gestione del potere nelle società senza Stato può
essere una possibilità per comprendere meglio la crisi
dello spazio politico contemporaneo e uno spunto per combattere
il dominio e lo sfruttamento sempre più presenti nella
nostra società”. Sarebbe proprio questo il compito
dell'antropologia: osservare l'altro per capire meglio noi stessi.
E proprio volgendo lo sguardo altrove, notiamo che non in tutte
le società sono presenti gerarchie, potentati o maggioranze
legiferanti; esistono comunità in cui è riscontrabile
una diffusione di potere tra tutti i membri e nelle quali non
è presente la “relazione di comando-obbedienza”.
Quest'ultima, assolutamente vigente all'interno delle società
occidentali moderne, è l'atomo del dominio, fondamento
dell'autorità e delle gerarchie. Non è possibile
ritrovarla tra le modalità di interazione possibili all'interno
di una società senza Stato; al contrario, si tratta della
relazione che più caratterizza le società stratificate
e piramidali moderne.
Ma come possono, le società senza stato, mantenere l'ordine
non avvalendosi di comandi e obbedienza? L'autore fa luce sui
meccanismi interni a comunità non regolate da un potere
statale, come quelle degli amerindi, spiegando in che modo la
dinamica del consenso di tutti i membri consenta al gruppo di
autoregolarsi, senza che siano necessarie imposizioni dall'alto.
Esistono, all'interno di queste comunità, norme redatte
e accettate da tutti i suoi membri; la mancanza di un'autorità
legiferante livella di fatto le disuguaglianze, preservando
la società dalla divisione tra decisori e pedissequi
esecutori. In questo modo, l'obiettivo della regolazione della
vita sociale è raggiunto senza il ricorso alla minaccia
della violenza e alla coercizione.
L'autore dirige la propria analisi anche alla sfera del lavoro,
evidenziando le differenze che intercorrono tra le attività
umane dei membri delle società senza Stato e il lavoro
salariato. Se le prime erano volte al soddisfacimento dei bisogni
umani, il secondo è invece proteso verso il profitto.
Alla mancanza di accumulazione che caratterizza le attività
dei “primitivi”, come alla divisione del lavoro
secondo capacità e possibilità fisiche, si contrappone
una stratificazione sociale delle mansioni, presente nelle società
occidentali moderne, generatrice di disuguaglianze. L'autore
sottolinea come la “relazione comando-obbedienza”
si manifesti maggiormente proprio nel campo del lavoro salariato,
rivelandosi la primaria fonte di potere coercitivo.
L'ultimo capitolo del volumetto è poi dedicato alla mutazione
del debito e al significato che quest'ultimo assume all'interno
di una società senza Stato e di una società con
lo Stato. L'autore ci rivela che il legame tra debito e dominio
è molto forte; la prima ratifica di potere da parte di
un élite è infatti l'imposizione e la relativa
riscossione di tributi. All'interno delle società egualitarie,
è il capo ad essere costantemente in debito con la propria
comunità e mai il contrario; è il leader a dover
“pagare” per potersi dire “capo” ed
il dono spontaneo e non calcolato tra i membri della comunità
è fondamento delle relazioni economiche e sociali basate
sull'uguaglianza. Anche nel caso del debito, abbiamo un diverso
significato a seconda che si guardi alle comunità caratterizzate
da uguaglianza o da disuguaglianza interna.
Anche a fronte di quest'ultima distinzione, va precisato che
l'obiettivo del volume non è quello di decretare un vincitore
in una gara tra società giuste e meno giuste; al contrario
si tratta di riuscire a capire meglio i meccanismi che regolano
la nostra vita, avendo presente l'esistenza di altre modalità,
di diverse possibilità.
L'analisi delle differenze fra i meccanismi di potere operanti
in diverse società permette di vanificare la pretesa
universalità delle nostre istituzioni politiche ed economico-sociali.
Grazie all'osservazione di comunità altre, sappiamo non
solo che esistono modalità diverse di vivere in comunità,
ma che queste sono effettive ed efficaci e che governi e gerarchie
sono solo alcune delle scelte possibili nel campo della vita
in società.
Carlotta Pedrazzini
A proposito
di vita e di morte
Uno dei titoli più geniali che mi siano capitati sotto
il naso. C'è una vita prima della morte? (Erickson,
Trento, 2014, pp. 136, € 15,00) suona beffardo, con un
fondo di tristezza neo-realista, ma quel punto interrogativo
non è consolatorio, lascia aperta una speranza.
Il bello del libro di Miguel Benasayag e Riccardo Mazzeo è
anche nella struttura del dialogo. Temi densi ma trattati con
leggerezza. I rimandi a Spinoza si accompagnano alle storie
dell'oggi. Colonna sonora consigliata per il sesto capitolo
è Father and Son di Cat Stevens.
Si parte da come è cambiata in Occidente l'età
anziana per passare ai giovani incatenati in un eterno presente,
senza futuro (e i potenti glielo dicono pure) e senza passato
(i Palazzi si vantano della loro ignoranza storica e vorrebbero
renderla obbligatoria) nel mondo piallato dal neoliberismo.
Ci vorrebbero far vivere nell'orribile «Tina» cioè
«There Is No Alternative» della Thatcher, lady di
ferro fuori e dentro di nebbia. Fortunatamente non è
tutto deserto. Il conflitto r/esiste anche se i rapporti di
forza appaiono in questa fase storica a favore del capitale.
Rubando i versi a Nazim Hikmet: puoi spezzare la catena al tuo
piede ma è più difficile liberarsi di quella –
un mix di ignoranza, paura e pessimismo – che blocca il
cervello.
Va in questo senso l'analisi dei due dialoganti (soprattutto
nel capitolo 11) su come è cambiato il potere, sul «coltivare»
la triste fantasia di massa «di essere liberi mentre siamo
sempre più schiavi». Benasayag e Mazzeo non hanno
dubbi sull'inesistenza e/o asservimento delle sinistre al pensiero
unico ma anche sulla tragica assenza di una coscienza del limite,
intendendo la non onnipotenza degli esseri umani che vivono
dentro l'ecosistema, «misura di tutte le cose».
Dentro un'attenzione costante di Mazzeo e Benasayag alla realtà
dei rapporti di forza, delle classi e delle migrazioni (con
scomode verità del tipo: la cosiddetta autonomia delle
persone vecchie nel mondo «ricco» viene garantita
dalla disponibilità di «schiavi» stranieri)
non ho trovato altrettanto approfondimento sulle questioni di
genere. Ma in un solo libro (di 130 pagine) forse non può
esserci tutto. Di certo non ci sono le risposte... perché
quelle dipendono da ognuna/o di noi e dal più grande
«noi» che bisogna ricostruire nella prassi, nel
pensiero, nell'organizzazione.
Anni fa avevo molto amato L'epoca delle passioni tristi»
(che ora è disponibile in edizione economica, evviva)
di Miguel Benasayag e Gerard Schmit. Anche lì –
dentro un sostanziale accordo – avevo dubbi e minimi disaccordi.
Rispetto a C'è una vita prima della morte? ho
poche perplessità (e non perdo tempo a raccontarle) e
una incazzatura. Eccola. Benasayag che è un uomo di sinistra
– ex guerrigliero in Argentina – può ovviamente
pensare tutto il male possibile di Fidel Castro o di Toni Negri;
a me pare invece che non dovrebbe esprimersi così: «Fidel
tradisce il Che consegnandolo agli americani». Quando
è successo? Di quali prove dispone Benasayag per buttar
lì un'affermazione così grave? Liberatomi di questa
incazzatura, volentieri torno a lodare questo testo a 4 mani
anzi a 2 voci. «È raro che un libro nasca da un
dialogo» osserva Riccardo Mazzeo. Vero. E sarebbe bello
se queste parole servissero a nuovi dialoghi, cioè fossero
collettivamente discusse – come accade in certe biblioteche
o in gruppi di lettura – rompendo il tabù dell'egocentrismo.
Ci sono libri che non andrebbero letti in solitudine. Secondo
me «C'è una vita prima della morte?» è
fra questi.
Daniele Barbieri
Prima del '68/
Le esperienze che hanno “fatto” il movimento
Il
libro scritto da Pasquale Iuso (Gli anarchici nell'età
repubblicana. Dalla Resistenza agli anni della Contestazione
1943-1968, BFS edizioni, Pisa, pp. 240, € 18,00) può
essere letto su diversi piani, dal documentale strettamente
storiografico al memorialistico, dal biografico al piano dell'analisi
politica.
Di certo il libro rappresenta l'importante tentativo, pienamente
riuscito, di fare il punto sullo stato delle ricerche pregresse
e recenti in Italia sulla storia del movimento anarchico, dal
secondo dopoguerra agli inizi del '68. L'opera di Pasquale Iuso
sviluppa anche un proprio autonomo e specifico punto di vista
sulle ragioni della perdurante crisi organizzativa del movimento,
in quegli anni, in Italia. L'autore attribuisce a varie ragioni
le difficoltà, che il movimento ha affrontato, della
traduzione in pratica dell'idea, in un contesto radicalmente
mutato rispetto all'epoca prefascista.
Iuso argomenta che le difficoltà consistono nel venir
meno delle speranze nate dalla Resistenza, si accrescono con
il progressivo irrigidimento politico determinatosi di seguito
all'instaurarsi della guerra fredda tra blocchi contrapposti
con la collocazione dell'Italia in uno dei due blocchi, si aggravano
con la progressiva perdita di fiducia in se stesse delle minoranze
popolari artefici della riscossa del Paese dal giogo nazifascista,
si appesantiscono con la imponente egemonizzazione della vita
politica e sindacale, a sinistra, da parte del PCI e della CGIL,
e si complicano a causa del tormentato ed insoluto rapporto
del movimento con l'attività sindacale. Inoltre, se ciò
non bastasse, le diverse anime dell'anarchismo italiano, grossolanamente
riassumibili in una corrente legata in maniera fideistica all'autosufficienza
dell'idea, (della quale esponente carismatica fu la coraggiosa
e lungimirante Giovanna Caleffi Berneri) ed in un'altra, tentata
da forti esigenze di svecchiamento dell'anarchismo e di integrazione
con il movimento operaio e con i raggruppamenti e partiti di
estrema sinistra e di sinistra marxista- libertaria, confliggono
continuativamente tra di loro. Per tutto il periodo considerato,
le due principali posizioni ideologiche, articolate in realtà
molto complesse, non riescono ad integrarsi e pervengono, tra
Convegni e Congressi, a scissioni ed incomprensioni reciproche.
Dell'autore del libro è tutto il merito di avere dipanato
il filo logico-cronologico di queste vicende con obiettività
e rigorosa aderenza alle fonti.
Attraverso un rigoroso lavoro di scavo nella documentazione
dell'epoca, mediante l'esibizione delle risultanze storiografiche
alle quali sono pervenuti gli autori che lo hanno preceduto
nella storia del movimento anarchico italiano, Pasquale Iuso
perviene a fornire un quadro circostanziato delle vicende del
periodo considerato.
Sulle strada intrapresa dal compianto Gino Cerrito con il suo
“Il ruolo dell'Organizzazione anarchica”, pietra
miliare in questo genere di studi, percorsa da Adriana Dadà,
da Paola Feri, da Italino Rossi e Giorgio Sacchetti, tutti con
diversa sensibilità e vivacità storiografica,
l'autore ha scritto circa 240 pagine difficili ma esaustive,
traendo dall'oblio vicende essenziali per la storia dell'anarchismo
novecentesco in Italia.
Si comprende la complessità e la completezza con la quale
l'autore ha trattato il periodo, senza nulla e nessuno dei protagonisti
escludere dalla narrazione, anche solo leggendo le descrizioni
di alcuni dei momenti fondamentali che “fanno” il
movimento, prima del '68, come la Rivista Volontà, i
campeggi anarchici, l'esperienza dei GAAP, la solidarietà
alla Spagna antifranchista, la scissione del '65, la nascita
dei GAF, dal cui fervore innovativo sarebbe nata la Rivista
“A”, e dei GIA.
Sono esaminate le singole prese di posizione dei compagni che
hanno animato quegli anni e che hanno cercato, secondo diversi
punti di vista, l'organizzazione antiautoritaria migliore.
Di ciascuno dei militanti, sia compagni conosciutissimi, come,
soltanto per citarne alcuni, Armando Borghi, Pier Carlo Masini,
Umberto Marzocchi, Luigi Carlizza, Ugo Scattoni, Virgilio Galassi,
Aurelio Chessa, Mario Mantovani, Antonio Ruju, Alfonso Failla,
Ugo Fedeli, sia meno conosciuti o sconosciuti alle generazioni
successive, si riscontra nelle pagine del libro la presenza
reale.
Aspetto, questo, assolutamente essenziale di un libro che tratta
di un movimento dove ciascun militante esprime la propria personalità
e la propria libertà di pensiero. In definitiva un libro
nel quale si respira l'aria di famiglia.
Enrico Calandri
Del volume di Pasquale Iuso Gli anarchici nell'età
repubblicana. Dalla Resistenza agli anni della Contestazione
1943-1968 abbiamo pubblicato l'introduzione
in “A” 391 (estate 2014).
Addio Lugano bella/
Anarchia tra storia e arte
“Au temps de l'Anarchie, l'age d'or n'est pas dans le
passé, il est dans l'avenir”: questo il titolo
originale che Paul Signac, anarchico e componente del gruppo
dei neo-impressionisti diede originariamente alla sua opera
forse più rappresentativa realizzata nel 1895 - poi ribattezzata
più prudentemente “Au temps d'harmonie” -
nel corso dei suoi soggiorni insieme agli altri esponenti della
sua corrente nei pressi di Saint Tropez. La visione di un futuro
liberato dallo sfruttamento, un tempo di armonia in cui coltivare
le arti e godere del tempo libero, l'utopia anarchica di una
società futura fu la base del programma pittorico neo-impressionista.
Come ci ricorda Aurora Scotti Tosini nel suo bel saggio “Intrecci
di arte e anarchia”, presente nel ricco catalogo della
mostra, “Elisée Reclus ritrovava nei villaggi della
Francia meridionale le tracce di un tempo in cui dominava l'armonia
e quindi i valori che il pensiero anarchico pensava di far rivivere”.
Fortemente influenzati dalle teorie di Petr Kropotkin e dallo
stesso Reclus i neo-impressionisti furono uno dei gruppi più
coerentemente orientati in modo anarchico, affiancati anche
dal vecchio nume tutelare di Camille Pissarro, fervente kropotkiniano
ed amico di Jean Grave, che per un periodo, soprattutto per
affinità ideale, si staccò dagli impressionisti.
Forse Pissarro può essere considerato l'archetipo dell'artista
anarchico nella sua accezione più alta ed anche il più
coerente e longevo degli impressionisti. Inizia la sua carriera
con influenze realiste, sopratutto nel suo soggiorno in Venezuela,
e sin dall'inizio si interessa del mondo degli esclusi e degli
oppressi. Nato nelle Antille proseguirà gli studi in
Francia dove si stabilirà poi definitivamente tranne
che nel periodo della guerra Franco-Prussiana quando emigra
provvisoriamente in Inghilterra. Espone sin dai primi tempi
con gli impressionisti e diventa il cuore anarchico ed il legante
del gruppo composto da artisti di vario orientamento politico
e provenienza sociale, in qualche modo il vecchio saggio a cui
rivolgersi per un consiglio o un supporto materiale in qualsiasi
momento. È anarchico il connotato fondamentale del gruppo
impressionista: la creazione di un'insieme di individui, legati
da un progetto comune di affinità artistica e contemporaneamente
storie individuali che prenderanno nel tempo vie diverse, senza
la presenza di leader o una struttura gerarchica definita. Progetto
che Pissarro difenderà sino all'ultimo, anche dopo lo
scioglimento degli Impressionisti. Trasmetterà le tecniche
e le idee impressioniste anche a Van Gogh al suo arrivo a Parigi
e seguirà il percorso pittorico di Gauguin, da buon anarchico
non trasmettendo ricette ma aiutando i due artisti ad esprimere
la propria individualità. Anche spesso con grandi delusioni,
come l'allontanamento di Gauguin, suo discepolo preferito, dal
realismo per approdare al simbolismo ed allo spiritualismo,
molto in voga all'epoca. Sarà l'unico amico di tutta
una vita del solitario Paul Cezanne con il quale scambierà
sino all'ultimo esperienze e tecniche e spesso anche il pennello
sullo stesso quadro. Crederà di vedere rivivere le sue
idee nel movimento neo-impressionista, politicamente orientato
in senso anarchico, ma alla fine si allontanerà anche
da questo, troppo scientifico ed in qualche modo accademico
per i suoi gusti. Darà, tutta la vita, collaborando con
tutti e contemporaneamente mantenendo la sua precisa individualità.
Nell'esposizione compaiono alcune delle sue opere più
rappresentative, tra le quali notevoli le incisioni per le “Turpitudes
sociales”, per educare le nipotine Esther ed Alice agli
orrori della moderna società capitalista. Forse Pissarro
mantenne nella sfera privata queste sue incisioni che davano
un netto segno delle sue idee anarchiche anche per evitare denunce
e ritorsioni delle quali era stato oggetto più volte
insieme ai suoi figli in quanto anarchico prima e poi ebreo
in una delle tante epoche di montante anti-semitismo ricorrenti
in Francia. È sporadico l'impegno politico diretto nelle
opere di Pissarro, così come negli altri esponenti impressionisti
e neo-impressionisti che spesso, chiamati ad illustrare le riviste
satiriche ed anarchiche, oppongono la motivazione che l'arte
non debba essere strumento di pura propaganda, ma essere un
mezzo di liberazione in sé e ricerca di armonia. Pissarro
spesso rifiuta di produrre tavole illustrative anche all'amico
Jean Grave che lo sollecita per la sua rivista militante La
Révolte.
Ma la nascita organica di un forte rapporto tra l'arte ed il
pensiero anarchico nasce nel fecondo rapporto tra Goustave Courbet,
l'artista ribelle autodidatta, capostipite del Realismo in pittura
ed il filosofo anarchico Pierre-Joseph Proudhon. Entusiasta
delle prime opere realiste di Courbet, in primis “Gli
spaccapietre” del 1849, Proudhon si propone di scrivere
un breve pamphlet sul lavoro dell'artista che finirà
per coinvolgerlo per diversi anni sino a divenire un tomo di
quasi cinquecento pagine e finire per essere editato, quasi
completato, solo pochi mesi dopo la sua morte nel 1865 con il
titolo “Du principe de l'art et de sa destination sociale”.
In quest'opera Proudhon sostanzialmente sostiene che l'opera
d'arte debba essere strumento di denuncia sociale e possa collaborare
alla costruzione di una nuova società più libera.
Abolire ogni accademia e descrivere la società in cui
si vive con uno schietto realismo e senza preconcetti idealistici
o classici sarà l'intento di Courbet e degli artisti
che aderiranno al movimento. Courbet parteciperà attivamente
ai moti che culmineranno nella Comune di Parigi durante la quale
sarà il responsabile della politica artistica, ruolo
che gli procurerà in seguito il carcere e poi l'esilio.
Di questa amicizia la mostra di Mendrisio ci da un'ottima testimonianza
nel ritratto di Proudhon eseguito da Courbet nel 1865 a poca
distanza della morte del filosofo.
Dal realismo in poi i legami tra il mondo dell'arte e le teorie
e le pratiche anarchiche non verranno mai meno ed arrivano sino
ad oggi con alterne fortune ed attraverso mille rivoli che in
maniera carsica scompaiono improvvisamente per riapparire nei
modi più insospettati.
Mi piace ricordare che il tentativo di ricostruire questi profondi
ed intricati rapporti tra il pensiero anarchico e il mondo dell'arte
nasce verso la fine degli anni Settanta grazie ad alcuni compagni
tra i quali vorrei ricordare almeno Fabio Santin, Dario Bernardi
e il sottoscritto. Il nostro interesse poi sfociò nell'allestimento
della mostra “Arte e Anarchia” in occasione del
Convegno internazionale del settembre del 1984 a Venezia promosso
dal Centro Pinelli, tempi in cui accostare i due mondi sembrava
un'opera velleitaria e di mera propaganda che lasciava perplessi
molti militanti. Ricordo i contributi importanti di Arturo Schwarz
e di Pietro Ferrua a quell'esposizione ed in seguito anche di
Enrico Baj.
La Mostra di Mendrisio e quella di Lecco in questo panorama
sono una bella sorpresa. Mi aspettavo qualcosa di più
sotto-tono o una presentazione folkloristica della presenza
anarchica, come spesso succede, sono invece rimasto piacevolmente
sorpreso dalla quantità e dalla qualità delle
opere esposte e dal rigore dell'esposizione e delle ricerche
storiche testimoniate in un catalogo, assolutamente necessario
per chiunque si interessi dell'argomento, a cura di un comitato
scientifico di grande qualità composto da: Aurora Scotti,
Chiara Gatti, Maurizio Antonioli, Maurizio Binaghi e Simone
Soldini. Della imparzialità storica dà fede la
presenza nel gruppo dei curatori di Maurizio Antonioli, storico
dell'anarchismo, e di Gianluigi Bellei, artista e storico dell'arte,
nonchè nostro collaboratore, che ha curato le schede
delle opere del catalogo.
Non mi soffermo sui dettagli espositivi e le informazioni sulle
mostre e gli eventi collegati e vi rimando all'efficace comunicato
stampa di Chiara Besana che abbiamo pubblicato sul numero precedente
della rivista.
Solo alcune considerazioni sulla struttura dell'evento. La “Addio
Lugano bella. Anarchia fra arte e storia” è legata
all'iniziativa «Viavai. Contrabbando culturale Svizzera-Lombardia»
promossa dalla Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia,
il Dicastero Museo e Cultura di Mendrisio è allestita
contemporaneamente, fra Italia e Svizzera, in due spazi prestigiosi:
il Museo d'arte di Mendrisio e il Palazzo delle Paure di Lecco.
Il percorso espositivo nella sede di Mendrisio si articola in
tredici sezioni: i simboli dell'anarchia, la Comune parigina,
città e campagna, lavoro e miseria, la figura emblematica
del vagabondo, sciopero rivolta e repressione, la lotta contro
i poteri, satira e denuncia, l'utopia di una nuova società,
giusta e armoniosa.
La mostra si racchiude temporalmente tra gli ultimi trent'anni
dell'Ottocento e il primo ventennio del Novecento: dal soggiorno
di Bakunin a Locarno e Lugano all'insediamento della Comunità
naturista del Monte Verità nei primi anni del secolo
scorso e da testimonianza della presenza nel Ticino di grandi
personalità dell'Anarchia quali Michel Bakunin, Elisée
Reclus, Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta, Pietro
Gori, Luigi Fabbri, Eric Mühsam, Raphael Friedeberg, Max
Nettlau e tanti altri.
Una serie di capolavori dell'arte, fra verismo e avanguardie
storiche, accompagna lo spettatore attraverso i temi scelti.
Un centinaio di opere – dipinti, sculture e grafiche –
provenienti da istituti e collezionisti italiani svizzeri e
francesi, tra cui spiccano il “Ritratto di Proudhon”
di Gustave Courbet dal Musée d'Orsay di Parigi, la “Louise
Michel sur les barricades” di Théophile Alexandre
Steinlen dal Musée du Petit Palais di Ginevra, i grandi
studi preparatori per “Il quarto Stato” di Giuseppe
Pellizza da Volpedo in arrivo dalle collezioni piemontesi, il
capolavoro di Angelo Morbelli “Per ottanta centesimi!”
dal Museo Borgogna di Vercelli, il celebre “Bagno Penale
a Portoferraio” di Telemaco Signorini dalle raccolte di
Palazzo Pitti a Firenze, oltre a “L'oratore dello sciopero”
di Emilio Longoni, e una sequenza di opere grafiche straordinarie
dei maestri francesi del puntinismo, da Seurat a Vallotton,
da Pissarro a Signac. La mostra è corredata da un ricchissimo
materiale storico: lettere, documenti, libri, foto, filmati,
in dialogo continuo con la parte artistica.
All'affascinante capitolo della denuncia e della satira, attraverso
una miriade di pubblicazioni, è interamente dedicata
la mostra in programma al Palazzo delle Paure di Lecco. Tra
la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, in tutta Europa
si conosce infatti una grandiosa fioritura di giornali e riviste,
mezzi di diffusione per eccellenza delle idee anarchiche. Il
disegno di denuncia e di satira diviene così una formidabile
arma di lotta nelle mani di grandi illustratori come Vallotton,
Steinlen, Kupka, Grandjuan, Jossot, Scalarini, Galantara, de
Camara, Masereel, Schrimpf, che pubblicano i loro disegni su
testate divenute leggendarie: Le Père Peinard, l'Assiette
au beurre, La Feuille, La Sciarpa nera, L'Asino, Mother Earth,
Die Aktion, Die freie Strasse.
L'unico punto un po' fragile dell'esposizione è l'ultima
parte dedicata al movimento Dada ed a Monte Verità che
richiederebbero un'esposizione ben più ampia ed una riflessione
approfondita sui i loro legami con le idee anarchiche. Per Monte
Verità quasi tutto è stato detto dalla grande
mostra realizzata a suo tempo dall'anarchico Harald Szeeman
di cui rimane un accurato catalogo.
La qualità e la quantità del materiale che emergeva
nel corso dell'allestimento ha sorpreso anche alcuni dei curatori
della mostra, ma i legami accertati tra il pensiero anarchico
e il mondo dell'arte, per lungo tempo trascurati, sono solo
la punta di un iceberg di una relazione profonda ancora attualmente
operante. Il lavoro rimane aperto.
Per finire ricordo le date espositive nelle due sedi:
Addio Lugano bella. Anarchia tra storia e arte. Da Bakunin
al Monte Verità, da Courbet ai dada Mendrisio, Museo
d'arte, 22 marzo-5 luglio 2015
Disegno e dinamite. Le riviste illustrate tra satira e denuncia
Lecco, Palazzo delle Paure, 1 marzo-31 maggio 2015
Franco Buncuga
Anche la sobrietà
ha i suoi effetti collaterali
Diario
di un alcolista appassionato (Edizioni Senza Dimora, Torino,
2014, pp. 167, € 12,00). Mai casa editrice e collana hanno
avuto nomi più appropriati: appartengono entrambe a Stefano
Bruccoleri, che a cercarlo sul web (ma anche a conoscerlo dal
vivo) è lo “scrittore senzatetto”, “il
primo barbone tecnologico d'Italia”, il “blogger
nomade” e tante altre definizioni ancora. Tutte parzialmente
appropriate, perchè Stefano naturalmente è molto
di più.
Dimenticatevi di Bukowski, dei poeti maledetti, delle atmosfere
bohémien: il diario è un viaggio coraggioso e
sincero lungo un mese in una struttura di recupero per alcolisti.
Stefano racconta con tristezza ferocia e allegria il disagio
e gli amori, i punti di vista e le amarezze di chi si trova,
nel contesto di una vita in cui ciò che poteva andare
storto lo ha fatto, a scegliere consapevolmente un percorso
di redenzione - senza per questo farsi redimere.
Stefano esce dall'alcol con la determinazione di un equilibrista;
sta sulla corda, vuole starci e ne è capace, però
sa perfettamente che in ogni momento potrebbe cadere ancora.
Quel che è più chiaro, a fine lettura, è
che su quella stessa corda stiamo noi tutti; eternamente sospesi
tra sogni e concretezza ma spesso incapaci, nella nostra tranquillizzante
normalità, di essere “appassionati” come
lui. Perchè – ahimè – anche la sobrietà
ha i suoi effetti collaterali... non sempre migliori di quelli
provocati dall'alcol.
Nel diario non ci sono velleità moralizzatrici; l'autore
scrive per se stesso, per solleticare il proprio narcisismo,
per prendere le distanze dai problemi. Lo dichiara con una sincerità
spiazzante, la stessa con cui nei due libri precedenti “L'allevatore
di farfalle” e “Via della casa comunale n.1”
raccontava del suo passato da eroinomane e del suo nomadismo
tradotto in un viaggio di 27.000 km. Tutti rigorosamente in
bicicletta.
Non so dire se, anche involontariamente, Stefano abbia aiutato
qualche alcolista o meno; mi risulta che molti gli scrivano
per confidargli che dopo aver letto il suo diario hanno iniziato
a pensare che fosse ora di farla finita con l'alcol.
So però che questa storia e la sua vita in generale valgono
la pena di essere incontrate, lette e ascoltate. Arrivano dritte
come un pugno, capaci di scavalcare pregiudizi e indifferenza.
Capaci di appassionare, come il suo diario.
Se volete conoscere Stefano, andate a trovarlo nella sua nuova
“Ciclofficina Letteraria” di Torino (via Musinè
angolo via Corio). Lo troverete lì, temporaneamente stanziale,
tra le sue biciclette i suoi libri e i suoi pezzetti di cielo.
Il libro è ordinabile agli indirizzi mail:
edera007@gmail.com -
pecora.francesca@libero.it.
Claudia Ceretto
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