“Abbasso lo stato, viva
lo sfruttamento”: con questo sintetico ed efficace titolo
Franco Melandri recensisce in “A” 67 (agosto/settembre
1978) il primo numero di Claustrofobia, la prima rivista
“libertarian” o – usando un'espressione ossimorica
ma chiarificatrice – “anarco-capitalista”.
D'altra parte, come didascalia della sua copertina, la redazione
di “A” (di allora) scrive: Ci mancavano solo
loro, i “libertari” anarco-capitalisti. Ora hanno
una rivista. Esaminiamola.” E giù tre colonne
di forte critica, motivata.
Ci piace segnalarle all'inizio di questa presentazione di un
numero di 37 anni fa, perchè 37 anni dopo – mutati
mutandis – ci sono ancora incontri, documenti, prese di
posizione che accomunano esponenti del Partito Radicale, seguaci
del libertarianismo statunitense (nelle sue diverse tendenze
e accentuazioni) e qualche anarchico particolarmente attratto
dalla culura liberale e “di mercato”. E la nostra
redazione, che cerca di essere – come proclama di voler
essere – aperta alle molte sfumature dell'anarchismo e
anche quelle tendenze che all'anarchismo fanno un riferimento
(parziale) molto, ma molto diverso dal nostro, è contenta
di ricollegarsi idealmente a quello scritto di Franco Melandri
che, ben lo ricordiamo, era stato “concordato” con
la redazione e di fatto apparve su “A” con la convinta
adesione (non esplicitata, ma sostanziale) appunto del gruppo
redazionale che sul finire degli anni '70 gestiva “A”.
Ecco questa è “A”, rivista in qualche modo
“di frontiera”, nata tutta dentro il tronco dell'anarchismo
socialista, militante, rivoluzionario e sviluppatasi poi negli
anni, nei decenni a comprendere in varia misura una varietà
sempre più composita e a volte contraddittoria di posizioni,
opinioni, sguardi. Con una significativa presenza, ora, tra
i propri collaboratori di persone che di sicuro hanno una formazione
ideale e politica diversa, sicuramente estranea a quel tronco
appena richiamato. Aperta, di sicuro, orgogliosamente aperta,
ma... est modus in rebus dicevano i latini: ci sono paletti,
limiti, non imposti da chissà chi, bensì liberamente
e chiaramente posti da noi stessi, dalla nostra sensibilità,
dalla volontà di restare comunque – seppure con
un'apertura che infastidisce alcuni compagni/e – nel solco
dell'anarchismo sopra descritto. Da questo difficile uso del
termine si coglie tutta la difficoltà, ma anche a nostro
avviso la “bellezza” di questa accentuazione del
carattere non-dogmatico, sperimentale e sperimentalista dell'anarchismo.
Un percorso certo rischioso, per chi come noi ha un concetto
alto delle responsabilità e del ruolo essenziale che,
nel magma di Internet, è nelle mani di chi di fatto gestisce
una voce anarchica (e nemmeno una delle più giovani e
“piccole”): ma un percorso che siamo determinati
a seguire, navigando di sicuro a vista, senza spocchia, con
la certezza che le “grandi idee” del passato siano
sì una possibile bussola, ma certo parziale e non sempre
sufficiente, per leggere questo nostro mondo che sta cambiando,
quotidianamente, sotto i nostri piedi e davanti ai nostri occhi.
Ecco allora che la presentazione di questo numero, uscito circa
37 anni fa (come indica il titolo di questa rubrica), diventa
l'occasione, più che di una puntuale rivisitazione di
quel numero attraverso l'elenco ragionato degli scritti che
specificamente vi apparvero, diventa l'occasione – dicevamo
– per ragionare su analogie e dissonanze della concezione
del ruolo di un foglio anarchico allora e oggi. Ed ecco che
abbiamo pensato di riprodurre, nella pagina qui accanto, uno
degli “editoriali” che in quel numero vi
apparvero. Lo scritto, a firma di un componente della redazione
di allora, esprime(va) con precisione quella che era la concezione
del gruppo redazionale di allora, che su di una tematica importante
come quella della “militanza” (in un periodo in
cui questa parola era ampiamente usata e soprattutto praticata).
Rileggendolo oggi, anche se tanta acqua è passata sotto
i ponti e – come accennavamo prima – il mondo è
davvero cambiato, per tanti aspetti, pensiamo che potremmo ripubblicarlo
oggi senza alcuna modifica sostanziale. Certo, il linguaggio
risente (e per fortuna!) dei tempi ormai lontani in cui fu scritto,
ma la scelta etica ed esistenziale, prima ancora che politica,
è quella che compimmo durante i lunghi mesi del 1970
nelle numerose ed estenuanti riunioni di concepimento di questa
rivista e di preparazione del suo numero zero.
Guardandoci nello specchio di questo scritto, possiamo riconoscerci
appieno. E, lo sapete anche voi, o almeno quelli di voi che
hanno passato gli “anta”, non è cosa frequente.
E ci strappa un bel sorriso.
Militanti perché
Tempi
difficili, i nostri. Difficili ed anche un po' strani. Dopo
la vampata del '68, che ha in varia misura alimentato le lotte
sociali e fatto crescere i movimenti di estrema sinistra, è
subentrata da tempo la disillusione. Non solo la Rivoluzione
non s'è vista, nemmeno da lontano, ma anche la sensazione
(se non proprio la certezza) di esserci vicini è progressivamente
venuta meno. La Vittoria con la “v” maiuscola si
dimostra ogni giorno più lontana, tanto lontana che molti
di quelli che ci credevano non riescono più nemmeno ad
intravederla.
La disillusione è stata così forte, per molti
anche così repentina, da trasformarsi amaramente in derisione:
quanti compagni, disposti qualche anno fa ad alzarsi alle cinque
del mattino per andare a volantinare agli operai del primo turno,
ricordano oggi quelle levatacce con vergogna ed ironia, accomunando
oggi nel medesimo acre giudizio chi continua a fare ciò
che loro facevano ieri.
In questo senso, noi non siamo cambiati: siamo compagni che
ancora continuano a credere nella militanza e, oggi come dieci
anni fa, cercano di farla al meglio delle loro possibilità.
Già sentiamo le critiche, i sorrisini ironici, le stroncature,
ecc. di quei compagni - non pochi, purtroppo - che della critica
ai militanti/militonti sembrano fare la loro attività
preferita. Cerchiamo di spiegarci.
Noi non ci siamo mai fatti soverchie illusioni: la formuletta,
ormai stracitata, “il pessimismo della ragione, l'ottimismo
della volontà” ci calza a pennello. Sappiamo, anche
per quel po' di esperienza che abbiamo accumulato in dieci/quindici
anni di esperienza militante, quanto lavoro, quanta dedizione,
quanta umile metodicità siano necessari nella vita quotidiana,
in campo sociale soprattutto, per ottenere un qualche risultato.
Le ventate rivoluzionarie vengono sempre quando meno ce le si
aspetta: gonfiano le nostre bandiere nei cortei, galvanizzano
la combattività delle masse, sembrano confermare per
un momento la facile realizzabilità di tutti i nostri
progetti. Poi, però, la marea si ritira e molte delle
cose (non tutte) che sembravano ormai assodate, irreversibili,
ritornano in discussione; ci si conta e ci si ritrova in meno,
molti meno, a volte. Chi ha vissuto, per esempio, le grandi
speranze ed anche le grandi illusioni dell'immediato dopoguerra,
nel '19/'20 come nel '45/'46, sa quanto tutto ciò sia
drammaticamente vero. E poi oggi basta guardarsi attorno, leggere
i giornali, le lettere dei compagni e delle compagne, respirare
un po' l'aria del “movimento” per vedere quante
cose siano cambiate rispetto a solo uno o due anni fa. Cambiate
in meglio, forse, ma certo anche in peggio.
E fra il “peggio”, al primo posto, mettiamo la sfiducia
ed anche il rifiuto generalizzato (non senza eccezioni, per
fortuna) dello studio sistematico e dell'azione diretta quali
unici strumenti per incidere nella realtà sociale. Noi
crediamo invece che solo lo studio sistematico, critico e mai
definitivo, insieme con l'operare metodico, quotidiano, umile
(ma non per questo rassegnato, anzi) possano contribuire ad
avvicinarsi alla realizzazione dei nostri ideali.
I grandi cambiamenti, le grandi rivoluzioni, infatti, sembrano
ai più l'effetto unico ed immediato degli avvenimenti
precedenti: noi sappiamo che non è solo così.
Senza l'operare costante, tenace, spesso silenzioso e sconosciuto
di molti compagni, i grandi fenomeni sociali non sarebbero avvenuti,
oppure non avrebbero avuto quelle caratteristiche che ce li
rendono particolarmente vicini ed interessanti: pensiamo alla
Comune di Parigi come alla rivoluzione russa, alla rivoluzione
spagnola come al maggio '68.
Se per militanza si intende appunto questa disponibilità
a lavorare con gioia, ma anche - se necessario - con spirito
di sacrificio, per la realizzazione dei nostri ideali, se per
militanza si intende (e per gli anarchici, come potrebbe essere
diversamente?) volontà di unire costantemente il “personale”
ed il “politico”, cercando di vivere già
oggi il più coerentemente possibile con i nostri ideali
di libertà ed uguaglianza, allora non possiamo che riconfermare
- in quest'epoca di diffuso disorientamento, di incertezza ed
anche di confusione - la nostra quotidiana scelta militante
che sola dà un senso pieno alla nostra vita in questa
società.
Altre alternative positive non ne vediamo: le due che oggi sembrano
andare per la maggiore - il ripiegarsi sul “personale”,
nel tentativo di risolvere così i propri problemi da
una parte, il lanciarsi in un donchisciottesco attacco armato
dall'altra - non possono convincere chi come noi non vuole certo
nascondersi le difficoltà del momento storico ma nemmeno
è disposto a farsene scudo per giustificare l'abbandono
dello scontro sociale.
p.f.
originariamente apparso in “A” 67 (agosto/settembre
1978)
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