Mille e mille volte
La
notizia, in bella evidenza su La Repubblica online del
14 aprile, ha rubato la mia attenzione.
Io non ne volevo parlare, colpevolmente, per dimenticarmi che
una vicenda come quella della Diaz sia successa in Italia. E
non volevo parlarne perché non mi piace ragionare per
categorie: se un poliziotto di 42 anni dice oggi che rifarebbe
mille e mille volte quello che si è trovato a fare alla
Diaz, questo qualifica – deve qualificare – solo
lui, non una intera categoria, sebbene sia difficile –
e spesso impossibile – mantenere comportamenti che si
vorrebbero istituzionali su un piano personale.
Io non ne volevo parlare, per viltà, però eccomi
qui che ne parlo, e mi chiedo come possa succedere che –
con qualunque, per me inimmaginabile, spiegazione si intenda
autorizzare quel che è stato fatto ai malmenati, arrestati,
picchiati manifestanti che dormivano alla Diaz – dopo
tanti anni, e dopo la condanna espressa appena due giorni prima
dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, un
poliziotto dica: “Quello che volevamo era contrapporci
con forza, con giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a
chi aveva, impunemente, dichiarato guerra all'Italia”.
“Entusiasmo cameratesco”. Non lo sapevo che si chiamasse
così. Interessante locuzione che evoca alcuni errori
storici, ormai conclamati, eppure mai usciti da un immaginario
tutto maschile di muscoli, esibizione di forza bruta, sopraffazione
che stolidamente passa per applicazione della legge. A volte.
Troppe volte.
L'errore fattuale, quello che spesso si compie ogni volta che
si affrontano questi argomenti, sta nell'intendere posizioni
come quella che dichiaro io in questa sede come ideologiche,
contraffatte dall'aver sposato – in un modo o nell'altro
– uno specifico schieramento politico. È un errore
di sostanza e di prassi. Quel che è in gioco qui non
è l'appartenenza ideologica, ma una elementare questione
di civiltà, di rispetto della vita umana, di gestione
di un potere che malauguratamente è capitato nelle mani
sbagliate (sebbene il potere non “capiti” e non
sia conseguenza di un'assegnazione determinata dal fato). Non
c'entra cioè il fatto che io, per parte mia e in modo
assolutamente individuale, consideri il potere comunque un portato
negativo del nostro vivere. Dovremmo, io credo, sforzarci di
pensare che, in una prospettiva semplicemente umana, la vittima
non è chi picchia, sentendosi autorizzato a farlo, ma
chi è picchiato. La vittima è chi muore. Possiamo
discutere, civilmente, se chi muore sia un eroe, e avere opinioni
diverse su questo. Ma l'esistenza di un morto - e mi si perdoni
la grevità - implica l'esistenza di qualcuno che ha ucciso.
E per quel che mi concerne, nulla, proprio nulla, autorizza
l'uccisione di un essere umano (ho problemi persino con l'uccisione
di animali: pensate un po').
Quindi, quel che penso io è che le storie come quella
del G8 di Genova dovrebbero essere raccontate a prescindere:
per quel che sono, cioè, senza troppi fronzoli. Per questo
ho amato moltissimo, e ritenuto immensamente necessario, un
film come quello di Danilo Monte. Ottopunti (2013) racconta,
in modo sommesso e dal punto di vista del tutto personale di
chi ha vissuto la vicenda (Genova, l'omicidio di Carlo Giuliani,
i fatti della Diaz), attraverso la voce del regista –
scampato per caso al macello – e di Timothy Ormezzano,
una delle vittime. Ci sono voluti 11 anni perché i protagonisti
di questa storia, all'apparenza straniera e tuttavia irrevocabilmente
italiana, trovassero l'energia, la cifra giusta e la voce per
raccontare. Questo fa del documentario un testo necessario:
uno dei quei testi che occorre conoscere per capire di più.
Non vi è nessun gioco su un facile sensazionalismo, non
si vede alcuna immagine, ad esempio, della Diaz nel momento
dell'irruzione, non vi sono proclami né dichiarazioni
di principio astratte. Ci sono due storie: una, soprattutto,
quella di Tim, mediata dal legame profondo tra i due amici.
Tim, come molti altri, è stato picchiato, arrestato e
trattato da malfattore dai praticanti del dell'“entusiasmo
cameratesco” di cui sopra. E qui c'è la sua storia
e quella di Danilo Monte. Ci sono le voci, soprattutto attraverso
la radiocronaca di Radiopopolare. C'è la cifra familiare,
la sensazione di perdita, la paura, lo smarrimento di capitare
in una realtà inconcepibile. C'è il racconto di
come ci si è trovati nudi, alla lettera, nelle mani di
un potere insensato. Ci sono alcuni fatti. Certo, si sceglie
un punto di vista, e tuttavia i fatti restano, e sono difficilmente
controvertibili.
Dunque, per parte mia, penso questo: è sbagliato, mille
volte sbagliato, per noi come paese e come esseri umani, negare
i fatti. I corpi feriti ci sono.
Il corpo di Carlo Giuliani – un eroe? Uno spostato? Ognuno
la pensi come meglio crede: ma Carlo Giuliani è morto,
e questo è tragico, e fa di lui, comunque, una vittima
– è un fatto.
Gli otto punti sulla pelle di Timothy Ormezzano sono un fatto.
Faremmo bene, per una volta, a prendere atto dell'irrevocabile
realtà di questo.
Nicoletta Vallorani
|