No Tav
I tanti perché di una lotta
testi del Controsservatorio Valsusa,
di Livio Pepino e di Luca Perino
foto di Luca Perino
Della più che ventennale
lotta delle popolazioni della Valsusa contro la ferrovia ad
alta velocità ci stiamo occupando fin dagli inizi e con
una certa frequenza. Si tratta di un movimento “di massa”,
multicolore, al cui interno confluiscono componenti politiche
e “non-politiche” tra le più varie.
In questo servizio riferiamo dell'attività del Controsservatorio
Valsusa, un'associazione costituitasi in sostegno alla lotta
No Tav.
E pubblichiamo alcune delle fotografie realizzate da un valligiano,
che per protesta contro le menzogne propalate dai mass-media
si è messo a documentare, dal basso, le molteplici attività
di chi a quel progetto faraonico, assurdo e inquinante, concretamente
e quotidianamente si oppone.
Come spiega lui stesso in un suo scritto.
Presidiare la
democrazia
del Controsservatorio Valsusa C'è
l'Osservatorio Valsusa, messo in piedi dalle istituzioni. Da
qualche anno vi si contrappone il Controsservatorio Valsusa,
che a partire da una scrupolosa attenzione per la legalità
sviluppa un'intensa e documentata attività di controinformazione
e di denuncia. Pubblichiamo l'appello da cui è nata l'associazione.
La vicenda della progettata costruzione della linea ferroviaria
ad alta velocità Torino-Lione ha visto, negli ultimi
mesi, un'offensiva senza precedenti contro il Movimento No Tav
sul piano politico, su quello mediatico e su quello giudiziario.
Ai ripetuti appelli alla razionalità e al confronto (unica
strada utile per attenuare tensioni che hanno ormai raggiunto
e superato il livello di guardia) la politica e le istituzioni
hanno reagito in modo astioso, talora con insulti e false ricostruzioni
della realtà. Alla protesta di un movimento popolare
e democratico profondamente radicato nel territorio e duraturo
nel tempo si sono opposte una delega incondizionata agli apparati
repressivi, la militarizzazione della valle e la criminalizzazione
del Movimento No Tav (a cui vengono disinvoltamente e apoditticamente
attribuiti attentati e sabotaggi la cui matrice è tutta
da accertare).
Mentre in tutti gli altri Paesi interessati è in corso
una riflessione critica sull'utilità e la sostenibilità
economica dell'opera (anche da parte di ambienti liberisti),
in Italia queste doverose analisi sono state rimosse e sostituite
con l'ossessiva ripetizione di luoghi comuni sulla necessità
della nuova linea, sui benefici che la stessa determinerà,
sul (supposto e inesistente) avanzamento dei lavori in altre
realtà territoriali. Alla scelta della politica si è
accodata la maggior parte della stampa, disinteressata a ogni
approfondimento autonomo, concentrata sui soli aspetti scandalistici,
sempre più impegnata nel presentare l'opposizione al
Tav in termini di cronaca nera (enfatizzando anche fatti irrilevanti
e stendendo, per contro, una cortina di silenzio su aggressioni
e danneggiamenti in danno di esponenti o strutture No Tav).
In questo contesto l'intervento giudiziario non si è
limitato alla doverosa (e da nessuno contestata) attività
di indagine e di equilibrata repressione dei reati ma ha assunto
aspetti di diretto coinvolgimento della magistratura nella gestione
dell'ordine pubblico (simboleggiata, in ultimo, dalla presenza
di due pubblici ministeri nel teatro delle operazioni, in evidente
continuum con le forze di polizia il cui operato dovrebbe, anch'esso,
essere oggetto di controllo). Si collocano in tale dimensione
alcune contestazioni abnormi (che hanno finanche evocato, con
effetti dirompenti, i fantasmi del terrorismo), l'uso a piene
mani della custodia cautelare, il ricorso alla tecnica dei processi
“a mezzo stampa”, i ritardi e la prudenza a fronte
di argomentate denunce provenienti dal Movimento No Tav e altro
ancora.
È questo insieme di elementi – e non una inesistente
(pur se da taluno evocata) sottovalutazione della violenza –
che alimenta il conflitto e accresce i rischi di un suo ulteriore
aggravamento. La sopraffazione di un territorio e di una popolazione
non cessa di essere tale se realizzata richiamando, impropriamente,
la legalità, che, al contrario, si fonda sulla giustizia,
sull'eguaglianza e sul rispetto dei principi costituzionali
fondamentali (a cominciare da quelli di tutela dell'ambiente
e della salute e di partecipazione dei cittadini alle scelte
che li riguardano).
L'aggravarsi della situazione, le strumentalizzazioni e le falsificazioni,
l'inasprimento repressivo richiedono una risposta ferma e urgente.
I cittadini devono sapere che cosa sta accadendo in Val Susa
e chi ha a cuore la legalità. Di qui la necessità,
anche a Torino, di un'opera di controinformazione puntuale e
documentata e, in prospettiva, di un controsservatorio permanente
sul punto. In quest'ottica intendiamo muoverci promuovendo in
tempi brevi, unitamente alle realtà cittadine che condividono
la nostra analisi, un dibattito sulle modalità con cui
la questione Tav è affrontata dagli organi di informazione,
un seminario sui caratteri della repressione giudiziaria in
atto e un libro bianco sui principali profili implicati dalla
questione Tav.
Controsservatorio Valsusa
www.controsservatoriovalsusa.org
Intanto il movimento
è cresciuto
del Controsservatorio Valsusa Ecco
una scheda illustrativa dell'esposto sulla situazione in valle
che il Controsservatorio Valsusa ha presentato al Tribunale
permanente dei Popoli (ex-Tribunale Russell).
Nello scorso mese di aprile il Controsservatorio Val Susa e
un folto gruppo di amministratori locali hanno investito il
Tribunale permanente dei popoli della situazione in Val Susa
con richiesta di verificare se nelle questioni relative al TAV
Torino-Lione siano stati rispettati i diritti fondamentali degli
abitanti della valle e della comunità locale ovvero se
vi siano state gravi e sistematiche violazioni di tali diritti.
Di seguito si riportano, in breve, i termini del problema.
La Val Susa collega l'Italia con la Francia mediante ben quattro
valichi alpini ed è situata nella parte
occidentale del Piemonte, a ovest di Torino. Essa comprende
39 Comuni e conta complessivamente, in tutta la sua estensione,
circa 97.000 abitanti. La valle è attualmente attraversata
dalla ferrovia internazionale del Frejus (c.d. linea storica
Torino-Bardonecchia-Modane-Lione), dalla parallela autostrada
A32 (i cui lavori si sono conclusi nel 1994) e da due strade
nazionali, oltre che da strade minori.
Da venticinque anni, quando ancora non era ultimata l'autostrada
che attualmente l'attraversa, essa è minacciata dal progetto
di costruzione di una nuova linea ferroviaria per treni ad alta
velocità/capacità, destinati al trasporto promiscuo
di passeggeri e merci, della lunghezza di 270 chilometri, parte
in territorio italiano e parte in territorio francese, comprensiva
di un traforo di 57 km che dovrebbe bucare le Alpi alla quota
di circa 600 metri. Ad oggi la costruzione del tunnel non è
ancora iniziata ma in Francia sono stati realizzati, tra il
2002 e il 2010, tre cunicoli esplorativi (future discenderie)
mentre in Italia, alla Maddalena di Chiomonte, è iniziato
nel 2012 lo scavo di un tunnel geognostico che dovrebbe essere
ultimato nel giro di cinque anni.
Sin dalla presentazione del primo progetto di nuova linea
ferroviaria si è sviluppata in Val Susa una forte opposizione
con il coinvolgimento massiccio della popolazione, di amministratori
locali, di docenti universitari, di esperti di varie discipline
che hanno evidenziato da subito molteplici aspetti critici.
Le ragioni dell'opposizione riguardavano e riguardano:
a) l'impatto ambientale e i gravissimi rischi
per la salute degli abitanti derivanti dallo scavo del tunnel
in una montagna ricca di amianto e di uranio e dai relativi
lavori preparatori, con diffusione nell'atmosfera delle polveri
sollevate;
b) la conclamata inutilità dell'opera,
voluta da grandi gruppi imprenditoriali e bancari, sia per la
sufficienza della ferrovia già esistente (utilizzata
oggi per meno di un quinto delle sue potenzialità) sia
per la caduta verticale del traffico merci e passeggeri sulla
direttrice est-ovest (in diminuzione anche su strada);
c) lo sperpero di denaro pubblico, ammontando
i costi dell'opera, in base ai preventivi, a 26 miliardi di
euro (in un contesto in cui, nelle grandi opere pubbliche, i
costi finali, nel nostro Paese, superano mediamente di oltre
cinque volte quello preventivato);
d) il mancato coinvolgimento del territorio,
lo scavalcamento delle istituzioni locali e l'assenza di qualsivoglia
meccanismo di consultazione o di partecipazione dal basso alle
decisioni sia dalla fase iniziale (in cui è decisivo
l'intervento delle popolazioni locali, anche alla luce della
Convenzione di Aarhus del 1998).
Nel corso degli anni il movimento di opposizione è cresciuto
e ha organizzato manifestazioni con una partecipazione plebiscitaria
della popolazione (fino a presenze di 70.000 persone), diventando
un punto di riferimento nazionale e internazionale. A fronte
di ciò i poteri economici interessati e, con essi, la
grande stampa e la maggioranza della politica nazionale e regionale
hanno fatto muro respingendo ogni proposta di reale dialogo
e cercando di trasformare l'opposizione di una popolazione in
problema di ordine pubblico da gestire con forze di polizia
e militari (fino all'utilizzo di reparti dell'esercito già
impiegati in Afghanistan).
Il tema di cui l'esposto investe il Tribunale dei popoli travalica
il caso concreto e pone questioni di evidente rilevanza generale:
dalle crescenti devastazioni ambientali lesive dei diritti fondamentali
dei cittadini attuali e delle generazioni future fino alla drastica
estromissione dalle relative scelte delle popolazioni più
direttamente interessate. Di tali questioni, comprensive del
trasferimento a poteri economici e finanziari nazionali e internazionali
di decisioni di primaria importanza per la vita di intere popolazioni
e/o di quote significative di cittadini, il caso Val Susa è
espressione e simbolo. Molte e crescenti, peraltro, ne sono
le manifestazioni nel mondo e nel nostro Paese, a dimostrazione
della loro centralità e attualità. Si tratta di
situazioni in cui la violazione dei diritti fondamentali di
persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto
accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale, ma che
rappresentano – su scala locale e regionale – la
nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono
in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del
pianeta.
Controsservatorio Valsusa
www.controsservatoriovalsusa.org
Un conflitto
aperto
di Livio Pepino Ci sono segnali di
grave involuzione in ampi settori degli apparati repressivi
e della magistratura torinese.
La denuncia del presidente del Controsservatorio Valsusa.
La Val Susa e il movimento di opposizione alla linea ad alta
velocità Torino-Lione stanno diventando sempre più
il crocevia di questioni fondamentali per la nostra democrazia:
il tipo di sviluppo, l'informazione, i processi di partecipazione
alle decisioni politiche ed economiche, il rapporto tra i margini
e le istituzioni centrali, il senso della dialettica tra maggioranza
e minoranze (1) e, da ultimo, anche gli
orientamenti della giurisdizione di fronte al conflitto politico
e sociale. Conviene partire dai fatti.
C'è, in Val Susa, un movimento che dal 1989 si oppone
alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità
Torino-Lione: una linea della lunghezza complessiva di 270 km,
di cui 57 in galleria, che, in prospettiva, dovrà/dovrebbe
sostituire la linea storica (attualmente utilizzata al 30 per
cento delle potenzialità) correndo a lato di un'autostrada
di recente costruzione (conclusa nel 1994) e di due strade nazionali.
Le ragioni dell'opposizione riguardano la tutela dell'ambiente
e della salute della popolazione (essendo la montagna da scavare
ricca di amianto e di uranio), l'inutilità della nuova
linea in considerazione della caduta verticale degli scambi
di merci sulla direttrice est-ovest, lo spreco di risorse in
periodo di gravissima crisi economica, il carattere autoritario
della decisione di costruire l'opera, avvenuta scavalcando popolazione
e istituzioni locali. Il movimento è profondamente radicato
nel territorio (come avverte qualunque visitatore anche superficiale
e come dimostra la partecipazione di massa ai momenti di mobilitazione),
composito ed eterogeneo al suo interno, egualitario nei processi
decisionali, dotato di grande capacità attrattiva anche
fuori dalla valle.
Per oltre vent'anni il conflitto apertosi in valle è
stato del tutto pacifico e gli episodi di attrito tra il movimento
e le forze dell'ordine sono stati quantitativamente e qualitativamente
ridotti: e ciò anche nei momenti più aspri, come
quelli di Venaus di fine 2005 (avvisaglia di quanto sarebbe
accaduto sei anni dopo alla Maddalena di Chiomonte) (2).
Ma in ultimo lo scenario è cambiato, proprio –
e non casualmente – mentre nell'opinione pubblica e persino
in settori della politica ha cominciato a crescere la consapevolezza
dell'inutilità della nuova linea ferroviaria. Dopo un
lungo periodo in cui il movimento è stato ignorato e
trattato come un'armata Brancaleone composta da folkloristici
montanari fuori dalla storia (moderni Obelix o Asterix) e nonostante
l'atteggiamento di chiusura di tutta la grande stampa, il consenso
nei confronti delle rivendicazioni No TAV si è, infatti,
esteso, nel Paese, sino a toccare – secondo l'ISPO di
Mannheimer per il Corriere della sera all'inizio del 2012 –
il 44 per cento degli italiani. E, col tempo, hanno cominciato
a prodursi significativi cambiamenti anche sulla scena politica:
dopo l'irrompere della posizione nettamente contraria al TAV
del Movimento 5 Stelle (giunto a chiedere una commissione parlamentare
di inchiesta sul punto), sono emerse persino alcune incrinature
all'interno del PD (è dell'8 marzo 2014 la dichiarazione
del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, effettuata
nell'assemblea della Rete dei comitati per la difesa del territorio,
di aver “cambiato idea” sul TAV e di voler “dare
battaglia” per cambiare destinazione ai relativi investimenti)
e della CGIL (il cui congresso provinciale di Torino, lo stesso
8 marzo, ha approvato, con 169 voti contro 82, una mozione in
cui si afferma che «occorre riconsiderare, valutando attentamente
le prospettive dei volumi di movimentazione delle merci in ambito
transnazionale, l'opportunità, la praticabilità
e i relativi costi delle grandi opere previste, a partire dalle
opere costose come la TAV»).
Scenari che cambiano
È in questo contesto che, nel 2011, lo scenario cambia,
in concomitanza con la decisione di LTF (la società costituita
per la realizzazione dell'opera) di iniziare, alla Maddalena
di Chiomonte, lo scavo di un tunnel geognostico (necessario
per verificare le caratteristiche del terreno su cui si dovrà
realizzare il tunnel di base). Il movimento, come già
sei anni prima a Venaus, costituisce in loco un presidio e occupa
l'area per impedire lo scavo.
Ma la mattina del 27 giugno un esercito di carabinieri e di
agenti di polizia in tenuta antisommossa, con l'ausilio di ruspe
e di altri mezzi da cantiere, procede allo sgombero del presidio
con un intervento particolarmente violento, comprensivo dell'uso
massiccio di gas per vincere l'opposizione e allontanare gli
occupanti. Le tende del presidio vengono distrutte o imbrattate
(vi si troveranno escrementi e urina) e scompaiono oggetti ed
effetti personali degli occupanti. L'altopiano della Maddalena,
sede di un importante sito archeologico e di una cooperativa
di viticultori, viene trasformato in una sorta di base militare,
con doppia recinzione e sorveglianza continua da parte di uomini
armati. L'assessore alla cultura del Comune di Chiomonte (retto
da un'amministrazione di destra favorevole al TAV...) si dimette
tra le lacrime dichiarando: «La polizia si è piazzata
lì, nelle stanze del museo, senza chiedere neppure il
permesso. E lassù nei boschi della Maddalena c'è
una devastazione vergognosa. È troppo».
Il movimento No TAV, la popolazione della valle, gran parte
degli amministratori locali vivono lo sgombero, la violenza
impiegata, gli sfregi subiti come un sopruso e la temperatura
si alza. Il successivo 3 luglio, domenica, circa 70.000 persone
– abitanti della Val Susa e manifestanti giunti da tutta
Italia – danno vita a un grande corteo che si conclude
intorno alla base militare recintata. All'esito della manifestazione
e fino a sera si verificano diffusi e violenti scontri di una
parte dei dimostranti con le forze di polizia. Inizia, così,
un conflitto aspro e apparentemente senza soluzione. Il movimento
non disarma e intensifica le iniziative di disturbo nei confronti
del cantiere al fine di tenere alta la tensione e l'attenzione
dell'opinione pubblica. In occasione di alcune di tali iniziative,
finalizzate a “tagliare le reti”, spezzoni più
o meno ampi di dimostranti lanciano verso il cantiere oggetti,
sassi e fuochi di artificio mentre le forze di polizia rispondono
con gas lacrimogeni talora sparati ad altezza d'uomo (3).
I danni alle persone sono per fortuna limitati: non si segnalano
gravi lesioni a operatori di polizia mentre alcuni manifestanti
colpiti da lacrimogeni riportano ferite con postumi permanenti.
La costruzione del nemico
A fronte di ciò l'establishment pro TAV si scatena gridando
alla guerra ed evocando, con irresponsabile reiterazione, il
morto. Le forze politiche di governo rinunciano, in modo rigorosamente
bipartisan, a ogni ricerca di dialogo e trasformano il conflitto
in questione esclusiva di ordine pubblico, emanando comunicati
prossimi a bollettini di guerra che criminalizzano l'intero
movimento; il Parlamento vara (nel 2011 e nel 2013) leggi adhoc
con cui il cantiere della Maddalena viene trasformato in «sito
di interesse strategico» (con divieti penalmente sanzionati
finanche di condotte ostruzionistiche, di riproduzione fotografica
e via elencando); il territorio della valle viene militarizzato
nel senso letterale del termine, addiritura con ricorso a forze
armate già impiegate in missioni di guerra all'estero
(4).
A ciò fa da supporto una informazione embedded (assolutamente
prevalente seppur non esclusiva) arruolata dapprima nella attività
di propaganda e, poi, onnipresente partecipe delle operazioni
di ordine pubblico al seguito delle forze di polizia anche dove
è inibito l'accesso a ogni altro (compresi i giornalisti
non accreditati). Strumenti di questa operazione sono, in particolare,
le pagine locali dei grandi quotidiani diffusi in Piemonte (La
Stampa e la Repubblica) e del Tg3, con i relativi siti, sempre
più simili a mattinali della Questura o a uffici stampa
della Procura, talora con manifestazioni grottesche come il
precipitoso ritiro (dai siti) di articoli fuori linea. Inutile
dire che quando, poi, si verificano incendi e attentati in danno
di alcune ditte impegnate, in maggiore o minor misura, nei lavori
per la linea ferroviaria e l'invio di un pacco bomba a un giornalista
de La Stampa, politici e giornali si precipitano ad attribuirne
la responsabilità al movimento No TAV. E ciò,
dimenticando (fingendo di dimenticare) la complessità
di un quadro in cui, pur in presenza di posizioni favorevoli
ad atti di sabotaggio (peraltro limitati alle cose), i principali
siti del movimento hanno respinto ogni coinvolgimento, che le
prevaricazioni mafiose sono in valle una realtà risalente,
che incendi e danneggiamenti toccano da anni presìdi
No TAV e auto o beni di attivisti, che la storia del Paese ci
ha abituati a una moltitudine di attentati simulati, che i gesti
sconsiderati di chi è interessato a pescare nel torbido
o di schegge impazzite di diversa estrazione non sono una novità
(tutte circostanze che renderebbero quantomeno opportuna un
po' di prudenza). È un'ipotesi quasi scolastica di costruzione
del nemico, secondo uno schema ricorrente nella storia, soprattutto
nei momenti di grave crisi economica e sociale, nei quali c'è
bisogno, anche, di diversivi da assumere come bersagli.
Un ruolo significativo in questa operazione ha l'intervento
giudiziario, con effetti di sistema che vanno ben oltre il caso
specifico. Ciò è in parte necessitato ché,
in presenza di scontri e di reati di diversa natura, l'obbligatorietà
dell'azione penale impone di procedere per tutti i reati, in
qualunque contesto commessi: è un principio fondamentale
dello Stato di diritto per garantire legalità e coesione
sociale; di più, il criterio di valutazione di ogni intervento
giudiziario non può essere la convenienza politica di
questa o di quella parte, ma solo la conformità alle
regole e l'attendibilità delle valutazioni effettuate.
Ma non si tratta solo di questo.
L'intervento giudiziario presenta sempre, per definizione, ampi
margini di discrezionalità o di scelta. La gran parte
delle misure cautelari è facoltativa (cioè legata
alla valutazione del caso concreto) e, sempre, la scelta tra
le misure (più o meno afflittive) va effettuata dal giudice
tenendo conto della gravità del fatto e delle caratteristiche
dell'imputato; i confini di molte fattispecie delittuose sono
incerti e labili; le pene previste per i reati variano da un
minimo a un massimo, spesso con una forbice assai ampia (5);
esistono attenuanti e cause di esclusione della punibilità
legate a valutazioni che è il giudice a dover formulare
sulla base dei princìpi generali dell'ordinamento e via
seguitando. La stessa interpretazione delle norme, lungi dall'essere
un sillogismo formalistico simile a un gioco enigmistico, è
un'operazione che implica giudizi di valore, bilanciamento di
princìpi, opzioni culturali. Il riferimento alla discrezionalità
sta a significare che i provvedimenti assunti e le interpretazioni
adottate o le scelte operate nell'ambito di una pluralità
di opzioni (talora, sul piano strettamente tecnico, ugualmente
attendibili) conferiscono all'intervento giudiziario complessivamente
considerato segni assai diversi. Lo ha scritto cinquant'anni
fa, con la consueta acutezza, Achille Battaglia come premessa
all'analisi del ruolo della giustizia nel difficile passaggio
dalla caduta del fascismo alla attuazione della Costituzione:
«Per comprendere veramente che cosa accada in una
società durante un periodo di crisi poco giova l'esame
delle sue leggi, e molto di più quello delle sue sentenze.
Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali
siano state le volontà del ceto politico dirigente,
i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni
e le sue velleità. Le sentenze ci dicono anche quale
sia stata la sua forza, o la sua capacità politica,
e in che modo la società abbia accolto la sua azione,
o abbia resistito» (6).
Orbene, è parso ad alcuni giuristi – non molti,
in verità, avendo i più preferito un prudente
silenzio – che, nell'esercizio della descritta discrezionalità,
l'autorità giudiziaria torinese abbia impresso al proprio
intervento in tema di TAV un carattere di diretta tutela dell'ordine
pubblico, con significative sottovalutazioni del ruolo di garanzia
che compete alla giurisdizione. Ne sono seguite critiche che
hanno provocato nell'establishment giudiziario, politico e giornalistico
delle reazioni spropositate e sopra le righe, quando non grottesche.
È accaduto finanche che la competente Commissione della
Corte d'appello di Torino abbia revocato l'autorizzazione, inizialmente
concessa, all'uso di un'aula del Palazzo di giustizia per un
convegno di studio, organizzato dall'Associazione giuristi democratici
e rivolto prevalentemente agli avvocati, dedicato a «Conflitto
sociale, ordine pubblico, giurisdizione: il caso TAV e il concorso
di persone nel reato» (7), con la
partecipazione di docenti universitari, magistrati, avvocati
e operatori di polizia.
Tali reazioni dimostrano la fondatezza delle preoccupazioni
di chi vede segnali di grave involuzione in ampi settori degli
apparati repressivi e della magistratura torinese. Per questo
il Controsservatorio Val Susa – coerentemente con le sue
finalità di controinformazione – ha ritenuto di
inaugurare la propria collana di quaderni di documentazione
con questo volume dedicato all'intervento repressivo in Val
Susa. In esso l'analisi dei vari profili che caratterizzano
gli interventi istituzionali è accompagnata dalla pubblicazione
di materiali giudiziari, per lo più inediti, utili a
dare tutti la percezione diretta del segno e delle caratteristiche
degli stessi.
Livio Pepino
Tratto dal primo quaderno del Controsservatorio Valsusa
Come si reprime un movimento: il caso Tav.
Note
- Illuminanti, in proposito, le considerazioni di G. Zagrebelsky
in Imparare democrazia (Einaudi, Torino, 2007): «La
ragione d'essere e di operare delle minoranze è la
sfida alla bontà della deliberazione presa, nell'aspettativa
di prenderne un'altra diversa. Per questo, ogni deliberazione
in cui una maggioranza sopravanza numericamente una minoranza
non è una vittoria della prima e una sconfitta della
seconda. È invece una provvisoria prevalenza che assegna
un duplice onere: alla maggioranza di dimostrare poi, nel
tempo a venire, la validità della sua decisione; alla
minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori. Ond'è
che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti
le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa)
chiude definitivamente una partita. Entrambe attendono e,
al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida
di ritorno tra le buone ragioni che possano essere accampate.
[...] La massima: voxpopuli, vox dei è soltanto la
legittimazione della violenza che i più esercitano
sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica,
poiché nega la libertà di chi è minoranza,
la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli
e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi
più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica
o terroristica, non democrazia basata sulla libertà
di tutti»
- Il riferimento è all'intervento delle
forze di polizia, la notte del 6 dicembre, per sgombrare un
presidio organizzato dal movimento a Venaus per ostacolare dei
sondaggi del terreno ivi programmati. L'intervento fu particolarmente
brutale con quindici presidianti feriti (alcuni dei quali con
lesioni serie) e distruzione delle tende. Scriverà, sul
punto, il giudice per le indagini preliminari di Torino nel
decreto di archiviazione 16 giugno 2009 (infra, p. 80 ss.) che
«numerosi fatti costituenti i reati di lesioni personali
volontarie (talora concorrenti con il delitto di violenza privata)
e percosse sono stati perpetrati da operatori di polizia. Ciò
risulta incontestabilmente dalla descrizione fornita dai manifestanti
riscontrata dalle certificazioni mediche: infatti tra le 21
persone che hanno presentato querela [...] e gli altri
14 manifestanti identificati [...] ben 18 (la metà)
risultano essersi recati in ospedale per ricevere cure ([...mentre]
tutti gli agenti ai quali sono stati rilasciati i certificati
medici allegati all'annotazione DIGOS Questura Torino –
con cui sono stati trasmessi gli atti relativi allo sgombero
del cantiere TAV di Venaus del 6 dicembre 2005 – risultano
essere stati feriti in altre circostanze») e addirittura
23 di essi riferiscono specificamente [...] di essere stati
percossi dagli agenti, senza ragione, con manganellate, anche
ripetutamente». Nei giorni successivi la valle si fermò
e l'8 dicembre un corteo di 40.000 persone, partito da Susa
sotto la neve, aggirò gli sbarramenti, arrivò
a Venaus, abbattè le reti di recinzione installate dopo
l'intervento della polizia e rioccupò l'area del cantiere.
Interessante segnalare che i seguiti giudiziari furono pressoché
inesistenti. Ci fu quasi l'impressione di una tacita compensazione
tra l'impunità assicurata agli autori dei pestaggi di
Venaus (di non impossibile identificazione) e l'inerzia nei
confronti dei No TAV per le occupazioni e i danneggiamenti.
Ma la vicenda lasciò il segno: da un lato rinsaldando
il rapporto tra le diverse componenti (dai sindaci ai valligiani,
dai centri sociali di Avigliana e Torino agli ambientalisti),
dall'altro provocando sfiducia e diffidenza nei confronti delle
istituzioni centrali e regionali e delle forze di polizia.
- La circostanza, attestata da numerosi articoli
e filmati, risulta, in modo indiretto ma univoco, dalla stessa
motivazione della misura cautelare 20 gennaio 2012 GIP Torino,
in cui si legge: «Su via dell'Avanà, un grosso
gazebo con scheletro metallico e tendaggi di colore bianco,
veniva ribaltato a terra e utilizzato da decine di soggetti
come scudo per avanzare verso lo sbarramento delle forze dell'ordine,
riparandosi così dal lancio dei lacrimogeni» (vds.
infra, p. 113).
- È del 1 novembre 2013 l'intervista
rilasciata al quotidiano La Stampa dal generale Claudio Graziano,
capo di stato maggiore dell'Esercito, per annunciare l'invio
nel cantiere di Chiomonte di ulteriori «quattrocento soldati
[...] tutti uomini di grande esperienza, che hanno prestato
servizio all'estero, in Afghanistan, in altri scenari internazionali,
alle prese con situazioni complesse e delicate».
- Basti segnalare, a mo' di esempio, che per
il delitto di violenza a pubblico ufficiale la pena prevista
dagli articoli 336 e 339 del codice penale varia da un minimo
di quattro mesi (con la concessione delle attenuanti generiche)
a un massimo di 15 anni (tenuto conto della aggravante della
commissione del fatto in più di dieci persone riunite)...
- A. Battaglia, I giudici e la politica, Laterza, Bari,
1962, p. 3.
- Il convegno si è poi svolto, con
grande partecipazione di pubblico, il 2 dicembre 2013 alla Galleria
d'arte moderna di Torino e i relativi atti sono in corso di
pubblicazione presso l'editore Giappichelli. Non è inutile
segnalare che la gravità dell'intervento censorio dei
vertici degli uffici giudiziari torinesi è stata sottolineata
da centinaia di giuristi che hanno sottoscritto un documento
in cui, tra l'altro, si legge: «La decisione ha dell'incredibile
ché nessun intervento censorio di questo tipo risulta
essere intervenuto dagli anni Settanta ad oggi. E ancor più
indigna il fatto che ciò sia avvenuto con riferimento
a un tema di grande rilevanza pubblica e in polemica con una
associazione forense di solide e radicate tradizioni democratiche.
In un assetto costituzionale in cui la giustizia è amministrata
in nome del popolo i palazzi di giustizia sono per definizione
la casa di tutti e non il fortilizio di alcuni. È assai
grave che ciò sfugga ai vertici della giustizia torinese.
La democrazia – per usare una felice espressione di Norberto
Bobbio – «è il governo del potere pubblico
in pubblico». È sorprendente che ciò venga
ignorato da chi esercita la giurisdizione, che proprio dal dibattito
e dal controllo pubblico trae alimento e credibilità.
È una brutta pagina per Torino e per la giustizia. Come
cittadini e come giuristi riteniamo doveroso denunciarlo pubblicamente
auspicando che essa non passi sotto silenzio ma veda, al contrario,
la ferma protesta di tutti i democratici».
Le
mie fotografie contro la Menzogna
di Luca Perino
Un valligiano racconta perchè e in che modo ha saputo
tradurre la propria rabbia per le continue bugie raccontate
dai mass-media sulle lotte NoTav in una documentazione a tappeto,
dal basso, delle azioni di chi a quel progetto si oppone. Quotidianamente.
Sono ormai 5 anni che, in veste di fotografo freelance, seguo
in modo costante il movimento NoTav e la galassia di movimenti,
associazioni e semplici cittadini che si ribellano alla costruzione
della linea ferroviaria ad alta Velocità Torino Lione.
La molla che mi ha portato, nel tempo, alla realizzazione di
alcune centinaia di reportage fotografici di cronaca è
stata l'assoluta mancanza di verità oggettiva nelle notizie
riportate dai maggiori mezzi di comunicazione mainstream nei
riguardi dell'opposizione al Tav. Giornali e telegiornali hanno
sempre evitato accuratamente di spiegare le motivazioni che
hanno portato una valle intera a ribellarsi alle decisioni dei
governi che si sono succeduti, mostrando unicamente immagini
di violenti scontri con la polizia e prendendo sovente a prestito
immagini di repertorio, talvolta anche riferite ad eventi non
correlati con la notizia che stavano raccontando.
Ho quindi sentito l'esigenza di impegnarmi in prima persona
per tentare di ribaltare questa situazione trasformando, all'occorrenza,
il mio hobby per la fotografia in un vero e proprio lavoro di
fotoreporter.
La mia idea è quindi stata quella di colmare il vuoto
della comunicazione con “fotoracconti”, ossia reportage
minuziosi che seguissero tutte le fasi delle manifestazioni
e degli eventi in un susseguirsi di fotografie che alla fine
potessero dare l'impressione, anche a chi non era presente,
di aver partecipato all'evento. Donne e bambini, giovani e anziani,
passeggini e stampelle, tutti insieme con ogni mezzo disponibile
per sfilare sotto le bandiere NoTav. 10, 20, 50 mila persone
col sole, con la pioggia o con la neve, di giorno e di notte,
per strade o sentieri, sempre in marcia per ribadire la propria
contrarietà al progetto. Tutto questo e molto altro è
ciò che ho provato a raccontare. Una goccia d'acqua nel
mare dell'informazione che, grazie alla diffusione di internet,
mi ha portato a pubblicare più di 13 mila fotografie
e superare i 16 milioni di click con pubblicazioni su siti internet
e riviste in diverse parti del mondo.
Luca Perino
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