Dimenticare il lavoro
Perché lavorare? Per guadagnarsi da vivere, certo, ma come? Per quanto tempo ancora possiamo praticare la politica dello struzzo, quando la maggior parte degli impieghi che ci vengono proposti dall'Impresa sono nocivi per la società o pericolosi per gli stessi lavoratori o inquinanti o, ancora, degradanti – fabbricare armi è un lavoro degradante perché implica il coinvolgimento nella morte di altri esseri umani. La maggior parte dei lavoratori è ridotta a inventarsi giustificazioni che, come sappiamo, non sono veramente tali: lavorano perché hanno una famiglia da mantenere, o perché non sanno fare altro che lavorare. E infatti non è la scuola che ci insegna a sottrarci all'Impresa, ma proprio il contrario, perché questa è sempre di più una specie di centro di apprendistato per futuri adulti, nel quale le opzioni sono scelte dagli allievi in funzione dell'accesso a un lavoro che, così si pensa, tali opzioni possano facilitare in un futuro prossimo (e allora via il greco antico e la geografia, evviva l'informatica e il cinese!). La crisi che sta vivendo questo pianeta e le nostre società non è dunque soltanto la crisi dell'Impresa e del Potere, è anche la crisi del Lavoro che ci porta in un vicolo cieco.
Alle ortiche le false critiche del sistema!
Scriviamo con la maiuscola Impresa perché, come lo Stato, ha diritto a essere scritta così: infatti, è la forma che ben presto prenderà il posto dello Stato, almeno negli auspici dei neoliberisti, tanto più che, impegnati da due decenni in questo senso, ottengono un successo dopo l'altro. Spetta a noi quindi capire la logica dell'Impresa, perché noi sudiamo sangue a lavorare per Lei. Capirla per spaccarla, se non addirittura per portarla alla rovina.
Le cosiddette leggi dell'economia fanno a gara per mostrare
che la logica industriale – ivi compresa l'agroindustriale
– come quella finanziaria è di andare verso il
sempre più: mercato più esteso, lavoratori più
produttivi, imprese più redditizie, profitti più
consistenti ecc. Non serve a niente discutere questo punto,
evidenziato sia dagli adepti al sistema sia dai suoi critici.
Il problema si pone con i “falsi critici” del sistema,
che si limitano a criticare le forme assunte da questi “più”.
Essi si pongono nell'ambito di una critica superficiale, che
suppone che le imprese dovrebbero trattare meglio i lavoratori
perché rientrerebbe nei loro interessi, in particolare
perché i lavoratori sarebbero più felici e in
migliore salute, dunque lavorerebbero meglio – un'idea
del tutto ridicola in una fase in cui i tassi di disoccupazione
sono elevati e in cui un vero e proprio esercito di riserva
è completamente a disposizione dell'Impresa, che dunque
non ha bisogno di prendersi la briga di vezzeggiare i suoi “protetti”.
Queste false critiche fanno appello a una migliore distribuzione
delle risorse, tramite diversi tipi di tassazione, le cui percentuali
sono talmente ridicole, anche in questo caso, che ci si chiede
come una simile polvere negli occhi riesca ancora ad abbagliare
alcuni di noi. La Tobin tax è l'incarnazione della inanità
di tali proposte, nel momento in cui i debiti accumulati dagli
Stati, dalle Imprese e dalle famiglie sono quasi il triplo del
prodotto lordo planetario, vale a dire 200.000 miliardi di dollari
nel 2014.1 Ebbene, questa cifra,
che non osiamo neppure definire astronomica, indica una duplice
realtà.
I due segreti del sistema economico
In primo luogo, questo sistema funziona perché la stragrande maggioranza di noi non sa come funziona, e perché coloro che lo capiscono ne sono quasi sempre i beneficiari, i complici o delle persone ciniche – degli “avidi”, direbbe l'economista Joseph Stiglitz.
In secondo luogo, riprendiamo quanto diceva lo storico Marc
Bloch:2 questo sistema funziona
perché ci sono sempre dei crediti in corso e si sovrappongono
gli uni agli altri. Sono questi che fanno vivere l'economia,
che fanno vivere l'Impresa, come lo Stato, come le famiglie.
Infatti, e prima di tutto, constatiamo che già da decenni
le banche centrali non possiedono più le riserve in oro
corrispondenti al valore facciale del denaro che emettono; ebbene,
esse continuano a emettere miliardi di dollari, di euro o di
yen senza che le monete perdano valore, come dovrebbe accadere
se la legge “più ce n'è, meno vale”
fosse vera. Purtroppo, la Vera Legge è: “Più
ci si crede, più il sistema funziona”, e poiché
abbiamo tutti interesse a credere nel valore del denaro, allora
possiamo indebitarci, inventare della moneta che non ha un controvalore
né in oro né in qualsiasi altra cosa, a parte
dei pixel su dei monitor. Non dobbiamo far altro che fare affidamento
sul nostro... lavoro per rimborsare alla banca i nostri debiti.
Le imprese, invece, funzionano su un modello più complesso,
perché sono tentate di fare soldi speculando, e qui non
possiamo approfondire oltre questa tentazione che pure è
decisiva agli effetti delle cause della crisi attuale. Torniamo
dunque all'Impresa in rapporto con i lavoratori.
Questi ultimi le sono necessari perché producono e consumano ciò che hanno prodotto. Più contraggono crediti, più si fanno schiavi del proprio lavoro, poiché il lavoro resta l'unica fonte della loro “ricchezza” pecuniaria, e quindi l'unica loro possibilità di rimborsare il loro “debito”. Questo circolo “virtuoso” dal punto di vista dell'Impresa porta a produrre sempre di più per soddisfare sempre meglio dei lavoratori... sempre più alienati dai prodotti che producono e che, in ultima analisi, hanno solo lo scopo principale di applicarsi, mani e piedi legati, alla sopravvivenza del sistema, quindi dell'Impresa, quindi del padrone che fornisce loro il famoso Lavoro... che però li distrugge in quanto esseri umani pensanti, che si ritengono liberi e che dovrebbero adoperarsi per l'emancipazione di tutti gli esseri umani. Il cerchio è, al tempo stesso, vizioso e oliato. [...]
Obiettivo: l'abolizione del lavoro
Non pensiamo che il rifiuto di essere distrutti da un sistema,
nel 2015, sia qualcosa di diverso da una tensione, anche se
tale tensione potesse sfociare, molto velocemente grazie a un
qualche movimento, per reazione a questa o quella evoluzione
politica, in un rifiuto del lavoro di ampio respiro –
in quello che, in linguaggio politico-sindacale, viene chiamato
uno sciopero, e che noi preferiamo definire qui un tentativo
di stare insieme.
Il lavoro non è sostenibile e non è costitutivo
dell'essere umano. Noi siamo gli unici animali che lavorano
– alcuni animali possono dare l'impressione di lavorare,
come il castoro, ma in realtà, la sua attività
di costruttore ha scopi diversi da quello di trarre profitto...
Eppure, la maggior parte di noi affermerebbe che il lavoro è
tipico dell'essere umano. Ma perché? Anche l'arte, per
fare solo questo esempio, è uno degli elementi “tipici”
dell'essere umano. E la creatività vale assai di più
del lavoro! Dopo tutto, anche l'estetica è una spiegazione
del mondo: potremmo decidere di fare questo invece di quello,
perché questo è bello e quello è brutto,
anche se quello è più redditizio di questo!
Infine, nel lavoro, ci sono numerose categorie di attività.
Non dovremmo far rientrare in questo stesso termine la persona
che coltiva il proprio orto per nutrirsi e nutrire la propria
famiglia con sistemi naturali,3
e l'agricoltore industriale che coltiva distese immense per
trarre profitto, mediante macchine agricole, pesticidi, fertilizzanti...
Non bisogna agire contro ciò che ci permette di vivere,
è un totale non-senso. Il capitalismo è un sistema
produttivo fondato sulla distruzione: tramite le guerre e tramite
proprio il suo sistema di produzione.
Questa evoluzione si produce “disobbedendo” alle
ingiunzioni dell'Impresa – che, con Lewis Mumford, possiamo
anche chiamare la “Megamacchina”. Si rifiuta un
po', poi un po' di più e così via. E in tal modo
si costruisce la propria liberazione – che, naturalmente,
non può essere totale né perfetta nel quadro di
questo sistema, ma, di fronte alle catastrofi attuali o future,
la costruzione di alternative concrete e credibili, benché
modeste, e la riflessione che collega tra loro tutte le pratiche
emancipatrici e contestatarie ci permetterà di andare
verso il non-agire, nel senso di smettere di agire contro gli
altri e contro questo pianeta e, in ultima analisi, contro noi
stessi.
Philippe Godard
Francia
Note
- Cfr., per esempio: http://www.economiematin.fr/news-dette-mondiale-augmentation-remboursement-pays-PIB-crise-bulle-sannat.
- Su questo argomento fondamentale cfr. Massimo Amato,
Il luogo dell'economia? Il debito, in “Libertaria”,
ottobre-dicembre 2007.
- Cfr. l'edificante e magnifica Lettre aux paysans sur
la pauvreté et la paix, di Jean Giono, éditions
Héros-Limite, Genève 2013; tr. it. Lettera
ai contadini sulla povertà e la pace, Ponte alle
Grazie, Milano 1997.
Globalienazione/Cancella il tuo prossimo con un click
Una delle caratteristiche più conosciute (e dileggiate)
dell'anarchia è che essa presuppone che l'uomo, per costituzione,
sia buono, o meglio che sia empatico, che per natura si interessi
del benessere degli altri.
Questa sorta di ottimismo connaturato alla teoria anarchica
è uno dei motivi per cui l'anarchia viene considerata
come utopistica, irrealizzabile. Il tutto sulla base della constatazione
che l'uomo non sembra affatto buono per natura, anzi più
conosciamo i nostri simili meno affidamento tendiamo a fare
sulle loro capacità empatiche.
Eppure...
Un anarchico direbbe però che basta poco per dimostrare
la natura empatica dell'uomo.
Pensate di stare uscendo di casa e, dalla porta di fronte, esce
un vostro vicino che si sente male. La grande, stragrande maggioranza
di noi non volterebbe la faccia dall'altra parte, ma al contrario
chiamerebbe l'ambulanza, cercherebbe di portare un piccolo aiuto,
quasi certamente rimarrebbe il tempo dell'arrivo dei medici.
E cosa ancora più importante, dopo si sentirebbe bene,
in pace con se stesso, nella coscienza di avere fatto qualcosa
per qualcun altro disinteressatamente.
Quand'è casomai che la naturale propensione all'empatia
può venir meno? Immaginate di uscire dalla porta e trovarvi
non un vicino che sta male, ma tutti gli abitanti dell'intero
quartiere che stanno male. A quel punto vi trovereste in una
situazione in cui non potete dare una mano a tutti, anzi addirittura
non potete nemmeno dare retta a tutti; in quel caso le reazioni
possibili sono varie, dal panico fino all'ostilità nei
confronti di tutti i vicini, “rei” di essere malati.
Grandi numeri
Sono i grandi numeri a renderci disumani, come ben sapevano
i nazisti. Un malato, uno straniero non suscita il nostro odio,
ma tanti malati, tanti stranieri, tanti poveri ci creano diffidenza
perché rappresentano qualcosa con cui è difficile
relazionarsi singolarmente.
Non è un caso che il rapporto uomo-massa sia stato alla
base della riflessione filosofico/politica per un lungo periodo
di tempo, diciamo dall'Umanesimo fino al XX secolo, tanto che
uno dei principi della democrazia intesa in senso rappresentativo
è che la guida della comunità sia scelta in base
alle sue qualità nella gestione dello stress di doversi
porre in rappresentanza di una massa di individui.
Ma con la globalizzazione lo stesso rapporto uomo-massa è
diventato obsoleto, e non sul piano filosofico, quanto su quello
reale.
Il “tempo zero” della comunicazione virtuale, priva
di vincoli e di confini, ha permesso lo spostamento immediato
di enormi quantità di denaro da una zona all'altra del
globo, il che – sul piano sociale, nella vita di tutti
i giorni per intenderci – ha comportato la possibilità
di decidere della vita di un'enorme quantità di individui
attraverso un semplice click. Basta un click per fare fallire
un'azienda, per distruggere i risparmi di milioni di individui,
per mandare sul lastrico l'economia di intere nazioni. Con un
click, un atto che ciascuno di noi compie centinaia di volte
al giorno.
La globalizzazione ha generato una forma di alienazione, di
spersonalizzazione di livello ancora più maestoso dei
vari tipi di alienazione studiati nei due secoli precedenti:
potere decidere della vita degli individui senza nemmeno doverli
mai vedere in faccia, esercitando semplicemente il proprio diritto
a spostare dei soldi da un posto all'altro. Se non sai cosa
causerà un tuo semplice gesto, di cosa puoi essere accusato?
Nell'era della globalizzazione finanziaria, il male non ha le
mefistofeliche sembianze di un gerarca nazista, quanto di un
impiegato grigio con gli occhi perennemente rivolti ad uno schermo
pc: ci aveva visto giusto Hannah Arendt quando parlava di “banalità
del male”.
Anche se ci crediamo assolti
Beh, direte voi, chi muove le fila, chi materialmente ha il
potere di disporre delle vite di migliaia di individui attraverso
un click è soltanto una piccolissima parte della popolazione,
quel famoso 1% cui fa riferimento un celebre slogan dei manifestanti
di Occupy.
Orbene, non è così semplice.
Guardiamoci allo specchio, guardiamo cosa indossiamo, che prodotti
mangiamo, dove lavoriamo. Indossiamo capi “made in China”
perché sono tra i pochi che ci possiamo permettere, compriamo
generi alimentari prodotti in Puglia e in Campania perché
costano meno, lavoriamo per persone e istituzioni ai cui ideali
mai e poi mai intenderemmo allinearci. E non stiamo, così
facendo, nel nostro piccolo, supportando lo sfruttamento dei
lavoratori cinesi o dei migranti schiavi nelle piantagioni pugliesi?
Come il Jocker di Full metal jacket – che esponeva
sul vestiario sia il simbolo della pace che la scritta “Born
to kill” – tutti noi portiamo sul corpo i segni
della nostra incongruenza, (in)consapevoli vettori di ideali
che dovremmo combattere. Comprare prodotti creati attraverso
lo sfruttamento non è come sfruttare direttamente le
persone, ma ne siamo proprio certi? Anche operare in borsa non
è come espropriare dei beni migliaia di persone, ma per
molti versi lo è.
La risposta dell'Anarchia
Le contraddizioni che caratterizzano la realtà odierna,
che ci caratterizzano, finiscono per minare la stessa appartenenza
ad ideali anarchici “classici”.
Per questo è decisamente avvertita, oggi, la necessità
di riconsiderare il pensiero anarchico utilizzando chiavi di
lettura della realtà che siano compatibili con la situazione
attuale, e che soprattutto permettano di opporsi al sistema
dominante in maniera fattiva e proficua.
Non mancano sicuramente studi teorici su tale tematica, e la
stessa Rivista che ospita il presente intervento si è
fatta spesso carico di affrontare tale tematica; manca casomai
un quadro di insieme che permetta di individuare chiaramente
le varie ipotesi formulate per dare concretezza all'azione anarchica
nel mondo globalizzato. Come dimostra la nuova legge elettorale
italiana e le dinamiche attuali che regolano il rapporto tra
governo e cittadini, è assai complicato avere un peso
tangibile sulla scena politica, e la cosiddetta società
civile sembra completamente scollata e ininfluente non solo
all'interno dell'agone politico, ma anche su quello che potremmo
definire ideologico, o culturale. Non è un caso, quindi,
che all'interno del movimento anarchico si rilevino posizioni
che intendano affrontare la situazione in modo assai differente:
da chi volge gli occhi verso l'ambito internazionale per prendere
nota e far tesoro delle nuove forme di opposizione attiva e
orizzontalmente organizzata a chi ipotizza la necessità
di affiancare, dentro i confini nazionali, quelle forze politiche
che in determinate battaglie presentano aspetti affini al pensiero
anarchico; da chi, ancora, vuole preservare gli indirizzi del
pensiero anarchico classico e intende muoversi lungo quella
direttrice; a chi sposta il baricentro della lotta politica
sul piano individuale, focalizzandosi più sul comportamento
quotidiano che sulla militanza in senso stretto.
Auspicio di questo intervento è, in conclusione, che
si possa definire chiaramente tale quadro interpretativo dell'essere
anarchici oggi, ed in tal senso si propone quale volano per
una discussione chiara, priva di ambiguità (ma anche
delle semplificazioni spesso poco efficaci sul piano concreto,
quali ad esempio “stare dalla parte degli ultimi”)
sull'argomento.
L'Anarchia ha moltissimo da offrire nel mondo contemporaneo,
ma perché questo sia possibile è soprattutto necessario
che si palesi cosa voglia dire essere anarchici senza ricorrere
a frasi fatte o principi ideali che poco si possono accordare
con la concreta condizione esistenziale che ci troviamo a vivere.
Igor Cardella
Palermo
Valsusa/Critical Wine No Tav
Nei giorni 8-9-10 maggio, si è svolta a Bussoleno, nel
cuore della Valle di Susa, la quarta edizione di Critical Wine
No Tav.
È una iniziativa nata quattro anni fa, raccogliendo lo
slogan Terra è libertà, che dà il nome
alla manifestazione, per coniugare la lotta contro il tav con
l'esperienza concreta di piccoli produttori di vino, che vogliono
realizzare un rapporto diverso con la terra e la natura che
ci circonda. In questo modo, si cerca di portare a conoscenza
di un pubblico più ampio le ragioni e le proposte delle
nostre lotte; non solo: il ricavato del critical wine no tav,
dedicato ad alcuni compagni che non ci sono più, sarà
devoluto alla cassa di resistenza per le spese legali.
Quest'anno l'iniziativa ha avuto un grande successo, soprattutto
nella giornata di sabato. Erano presenti 22 produttori di vino,
provenienti da tutta Italia, accompagnati da stand gastronomici
e di piccoli artigiani in proprio; musica di strada, concerti
popolari, canzoni degli Anonimi Coristi e del Coro di Micene,
mostre fotografiche, teatro per le vie della città, hanno
completato la manifestazione in cui erano presenti anche banchetti
informativi di vari comitati no tav.
Stiamo già pensando alla prossima edizione, la quinta,
che si svolgerà presumibilmente nel maggio 2016, sempre
in Valle di Susa.
Invitiamo altri produttori di vino, che condividono le nostre
motivazioni, a contattarci, c'è spazio per tutti.
Per informazioni: tlcwbussoleno@gmail.com
Ugo Viretta Usseglio
Giaveno (To)
Primo maggio.1/Alcune considerazioni
“Devastazione e saccheggio”, parole forti, parole
da quindici anni di galera per chi viene beccato con la mazzetta
in mano, per chi è stato preso nel mucchio del riot cittadino,
nei pressi di una vetrina infranta o di un auto in fiamme o,
a posteriori, ne verrà riconosciuta la presenza attraverso
analisi fotografiche e video. Chi ci sta lo sa.
A chi devasta territori e ambiente, a chi saccheggia le risorse
comuni, a chi ci fa morire di amianto, d'inquinamento, di discariche
abusive, a chi ha un altro tipo di “mazzette” in
mano, sappiamo bene che lo Stato e i suoi apparati repressivi
(polizieschi, giudiziari e carcerari) non riserva altrettanto
trattamento. E non potrebbe essere altrimenti: Stato e Capitale,
nella loro complice e collusa alleanza, non possono certo “accusarsi
e arrestarsi” a vicenda. E anche questo noi lo sappiamo.
A Milano, il Primo maggio, una grande manifestazione di oltre
trentamila persone, in maggioranza di giovani, donne e uomini,
sia del luogo che provenienti da varie parti del paese e d'Europa,
ha animato le vie della città percorrendo, in vario modo,
i pochi chilometri di strade 'concessi' dalle Autorità
locali sotto stretto controllo dei vertici nazionali. L'obiettivo
era quello di disvelare il reale significato di quel baraccone
fieristico rappresentato da Expo 2015; di denunciare che quanti
hanno contribuito al disastro alimentare ed agricolo di paesi
e di parti consistenti di interi continenti non possono ora
presentarsi come paladini della lotta della fame nel mondo,
del rispetto delle biodiversità e della vita e del lavoro
di che la terra la lavora; di accusare il sistema di malaffare,
di corruzione, di speculazione selvaggia che ha regnato su Expo
e che regnerà sulle aree del sito alla conclusione dell'evento;
di opporsi ad un modello di sviluppo basato sul lavoro precario,
gratuito e sulla pauperizzazione del paese.
Un corteo di meno di quattro chilometri ottenuti a fatica, dopo
il divieto, giunto a pochi giorni dalla manifestazione, di passare
per il centro città, trasformata in una sorta di zona
rossa, una sorta di provocazione in una giornata che è
sempre stata simbolo della lotta per la liberazione dalla schiavitù
del lavoro salariato, in una città che ha visto negli
anni lo svolgimento di grandi e partecipate May Day.
Un corteo composito ed eterogeneo, che raccoglieva il lavoro
svolto nel tempo dai comitati No Expo e lo sforzo organizzativo
di rappresentare sul campo le diverse anime e sensibilità
che sul terreno della lotta a quel modello di società
e di sviluppo si muovono. Un corteo costruito assemblearmente
dopo diversi mesi di riunioni, di confronti, di decisioni costruite
sul consenso e sull'accordo. In testa più di duecento
musicisti, appartenenti a bande di vari paesi d'Europa, reduci
dalla cena serale d'accoglienza presso la sede della FAI di
Milano curata dalla Banda degli Ottoni, a dare un segnale di
festa e di calore, a seguire i comitati No Tav, No Muos, No
Expo, la rete 'Genuino clandestino', quelli di lotta sul territorio
e per la casa, il sindacalismo di base della CUB e dell'USB,
lo spezzone rosso nero con lo striscione 'Expropriamo Expo',
dietro cui sfilavano circa duecento compagni e compagne tra
FAI, il Circolo anarchico di Via Torricelli 19, l'USI e Iniziativa
Libertaria di Pordenone con i loro striscioni, oltre a diverse
individualità. A seguire, e a chiudere il corteo, il
SI.COBAS, il 'Sindacato è un'altra cosa', e infine vari
partiti, da Rifondazione al PCL.
Imponente lo schieramento di polizia, con mezzi blindati e reticolazioni
semoventi, a chiusura delle varie possibilità d'accesso
al centro città; anche se rimane 'curioso' il fatto di
aver lasciato parcheggiare le auto lungo il percorso del corteo,
così come il fatto che siano rimasti al loro posto i
cestini per i rifiuti ed altre suppellettili cittadine che generalmente
vengono rimosse in previsione di cortei 'caldi e vivaci' come
ci si aspettava che fosse, soprattutto dopo la campagna mediatica
preventivamente criminalizzatrice e le conseguenti perquisizioni
e sgomberi delle giornate immediatamente precedenti.
La formazione del corteo è stata lentissima anche perchè
si partiva dalla grande piazza di Porta Ticinese per imboccare
lo stretto omonimo Corso, ma senza grossi problemi perchè
il posizionamento dei vari spezzoni era stata concordato da
tempo. Quello che non poteva essere concordato era il posizionamento
di quanti, provenienti da fuori Milano e da fuori Italia, non
avevano partecipato al percorso organizzativo e che si presumeva
si potessero posizionare alla coda del corteo. Nei fatti quello
che è successo è che queste realtà si sono
posizionate all'interno degli spezzoni a loro più affini,
soprattutto nella parte centrale del corteo dove si è
evidenziato un comportamento assolutamente refrattario al rispetto
degli accordi presi precedentemente. Volontà politiche,
sicuramente autoritarie e prevaricatrici, ed in/sofferenze sociali
si sono mischiate dando origine ad uno spezzone che ha cercato
un suo protagonismo attivistico prima nella contrapposizione
con le forze di polizia, poi con quelli che sono stati identificati
con i simboli del potere capitalistico. Ma chi cerca di trovare
un nesso unico, una regia unica, in quello che è successo
sbaglierebbe.
Lasciando alla destra tradizionale e a quella renziana le urla
di sdegno e gli editti accusatori, la minaccia di rappresaglie
ed i progetti di leggi liberticide, quello che ci interessa
mettere a fuoco è come il Primo maggio a Milano si sia
messo in scena non tanto una replica di quanto già visto
a partire da Seattle in poi, quanto una prima concretizzazione
di quello che le politiche di austerità, di impoverimento
sociale, di rafforzamento autoritario, di restringimento degli
spazi di espressione e di organizzazione, stanno producendo:
una espressione, fluida, anche contraddittoria, di un malessere
sociale ed esistenziale, che nel conflitto, nelle sue varie
forme possibili, cerca uno sbocco.
Così, alcune centinaia di manifestanti si sono misurati
prima con la polizia che, con un numero spropositato di lacrimogeni
urticanti (si dice più di 400) e con l'uso degli idranti,
li ha respinti, per rivolgere poi la loro attenzione alle vetrine
di banche, negozi di vario tipo, auto, pensiline dei mezzi pubblici,
semafori, ecc., mischiando le banche, simboli classici del sistema
di sfruttamento capitalistico con attività generiche
(un barbiere, un ottico, un ortofrutta...). Insomma tanto lavoro
per assicurazioni ed artigiani mentre Maroni e Pisapia hanno
già offerto rimborsi e organizzato manifestazioni: il
2016 con le elezioni della nuova giunta non è poi così
lontano.
Trovandosi al centro del corteo il rischio del coinvolgimento
dell'intera manifestazione è stato ovviamente molto alto
– è stato avanzato anche il sospetto che alcuni
all'interno di quello spezzone lavorassero per trasformare tutto
il corteo in un terreno di scontro complessivo – ma se
così non è stato è grazie alla determinazione
delle componenti iniziali organizzatrici della manifestazione
che hanno tenuto fede agli impegni presi assemblearmente sia
mantenendo le posizioni, sia concludendo il percorso tra i fumi
dei lacrimogeni e delle auto incendiate. In questo contesto
non si può tacere delle tattiche poliziesche tese da
una parte a contenere i danni tra i 'suoi' e dall'altra ad evitare
che ci fossero delle vittime tra i manifestanti, tali da 'sporcare'
l'inaugurazione di Expo. Del 'buon cuore' ipocrita del Ministro
degli Interni non sappiamo che farcene.
Detto questo rimangono sul tappeto alcune considerazioni da
fare.
La crisi sta scavando sempre di più nel corpo sociale
del paese, le politiche riformistiche non hanno più gambe
né fiato né sirene da suonare, la disoccupazione
cresce e soprattutto quella giovanile, non c'è uno straccio
di politica industriale all'orizzonte, le rappresentanze politiche
più o meno tradizionali si sono dissolte, le divaricazioni
sociali crescono così come cresce il controllo sociale
fino a prefigurare scenari di militarizzazione sociale complessiva,
leggi sempre più autoritarie e restrittive sono all'orizzonte
sia sul campo degli scioperi dove si vuole imporre un criterio
maggioritario alla tedesca, sia nel campo delle manifestazioni
di piazza. Non ci vuole molto a capire che, in mancanza di una
capacità politica rivoluzionaria in grado di costruire
uno sbocco praticabile e condiviso alla situazione che stiamo
vivendo e che andrà sempre più aggravandosi, la
violenza acefala diventerà l'unica forma di espressione
possibile. Esorcizzare quanto è successo non ci aiuta,
il moralismo perbenista nemmeno, il settarismo autoreferenziale
men che meno. C'è da rimboccarsi le maniche, sempre più
e sempre meglio, sulla strada della lotta quotidiana, dell'autorganizzazione,
del duro lavoro di costruzione di un movimento libertario che
sappia essere agente reale e concreto della trasformazione sociale.
Le compagne e i compagni della Federazione
Anarchica Milanese
Primo maggio.2/Le distanze dalla violenza
Ciao, leggo assiduamente A-rivista, su internet.
Ho letto il volantino di No-Expo, e concordo in parte con questo
documento. Sono anarchico, individualista. Boicottare l'Expo
è giusto, ma la violenza fa soltanto male agli ideali
anarchici, mi piacerebbe prendeste le distanze dalla violenza,
rispetto molto il vostro lavoro e leggo davvero con interesse
la maggior parte di quello che scrivete, credo altresì
che anarchia non voglia per forza dire sindacato, che anarchia
possa voler dire anche individualismo, con tutto il rispetto
per ogni singola individualità. credo sarebbe meglio
mostrare che si può coltivare, piantare, fare agricoltura
diversamente da come vorrebbe farci credere Expo, e credo che
sarebbe meglio farlo all'interno di Expo. È solo la mia
opinione certo, ma spaccare un'Audi del 2004 non significa colpire
i padroni, ma un povero cristo che se l'è comprata usata,
magari a rate.
Ecco solo questo. Un caro saluto.
Maurizio Caggiano
Potenza
Primo maggio.3/Mario Calabresi, i black bloc e la polizia
“Dal G8 di Genova si discute solo delle violenze e degli
errori della polizia, mai delle devastazioni dei manifestanti:
chiaro il risultato”. Cosa può avere spinto Mario
Calabresi a uscirsene con una frase del genere, su Twitter,
il primo maggio, dopo le ignobili azioni dei Black Bloc per
le strade di Milano? La frase è infelice per diversi
motivi, alcuni più attuali, alcuni meno. Lo è,
ad esempio, perché offre il fianco a una cupa - e facile
- ironia, provenendo da chi ahimè vede il proprio cognome
legato a uno dei più terribili casi di “errore”
della Polizia nella storia del nostro Paese. Ma lo è
anche perché definire “errori” i crimini
commessi dai poliziotti in occasione del G8 di Genova, che la
Corte europea dei diritti dell'uomo ha recentemente condannato
come gravi violazioni, è una forma sottile di negazionismo:
quel negazionismo travestito da moderazione, che modifica la
storia piano piano, una parola alla volta, quasi a mezza voce.
Si potrebbe indugiare a lungo sul primo punto. Notare come,
al primo tweet (condiviso più di seicento volte), ne
sia seguito a stretto giro un secondo, in polemica con coloro
che avevano fatto battute richiamando l'affare Pinelli. Notare
come a questo secondo tweet (anch'esso condiviso centinaia di
volte) siano arrivate risposte cariche di ossequioso sostegno
da parte di commentatori di passaggio, di quelli sempre pronti
a sedersi dov'è più comodo: “Direttore ...
non badi agli idioti ... chissà se l'hanno mai letta
davvero, la storia di suo padre”. Notare quindi che “la
storia di suo padre”, vittima del terrorismo, scritta
proprio dal giornalista e diffusa da un grande editore e quindi
da canali di comunicazione di massa, è abbastanza accessibile
al grande pubblico, mentre per il ferroviere anarchico nessuno
ha davvero spinto la notte più in là.
Si potrebbe indugiare anche sul secondo punto: cosa significa
parlare di “errori” della Polizia rispetto ai fatti
di Genova? Significa certamente ridimensionarli, e in qualche
modo umanizzarli. Difficile però pensare che davvero
Mario Calabresi volesse umanizzare gli orrori della Diaz: è
un giornalista preparato, intelligente, e anche una buona penna
- cosa che non si può dire di tutti i grandi nomi della
carta stampata al giorno d'oggi. E allora quale poteva essere
lo scopo di un tweet del genere, di una simile dichiarazione,
che offriva il fianco a così tante polemiche, facili
e meno facili secondo i punti di vista?
Lo scopo era, probabilmente, proprio quello di provocare queste
polemiche. Aspettare al varco quelli che avrebbero nominato
Pinelli, tacciare di mala fede quelli che avrebbero, con altri
argomenti, contestato il lessico e il senso dell'affermazione.
Litigare, ribattere, nel limitato spazio di colpi e contraccolpi
lunghi 140 battute, dove prolifera lo slogan e non c'è
spazio per l'approfondimento che sarebbe necessario quando si
commentano cronache di violenza politica e civile. Probabilmente,
lo scopo di quel tweet, con le sue più di 600 condivisioni,
e le circa 200 risposte (in polemica o in accordo), era esattamente
quello di provocare una piccola bagarre. Sembra purtroppo che
sia diventato un principio cardine della comunicazione, nella
piazza virtuale come in quella reale, seminare un po' di rissa.
Altrimenti non ti ascolta nessuno.
A me, leggendo la frase di Mario Calabresi su Twitter, era venuta
voglia di rispondere. Ma quello che ho scritto, pacificamente,
in queste righe, giusto o sbagliato che sia, in un tweet non
ci sarebbe stato. Per farcelo stare, avrei dovuto limitarmi
a qualche battuta secca, che sarebbe suonata faziosa, aggressiva,
come le parole di tutti quelli che, su quel social, hanno reagito.
Insomma, partecipare a quella piccola polemica online mi sarebbe
parso un atto di violenza. E allora, anche se non sono certo
di potermi definire anarchico, mi sono riletto proprio una frase
di Giuseppe Pinelli, tratta da una sua lettera: “l'anarchismo
non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo subirla”.
Ho chiuso Twitter, e ho scritto questo pezzo.
Federico Giusfredi
Pavia
Primo maggio.4/Il conflitto e la sua rappresentazione
L'agire rivoluzionario, nell'attraversare un percorso di trasformazione
radicale delle relazioni politiche e sociali, è, costitutivamente,
anche narrazione.
La diffusione e l'accessibilità pressoché universale
di strumenti di comunicazione ha enormemente amplificato il
carattere discorsivo dell'azione di piazza.
Sottile è il confine tra rappresentazione e rappresentanza.
Su questo confine si giocano partite di egemonia, che spesso
sfuggono all'analisi e al controllo di chi partecipa alle iniziative,
pur avendo contribuito a costruirle.
Il dibattito/scontro sul Primo Maggio milanese si inceppa su
una faglia solida ma prismatica, dove si intrecciano più
piani.
Uno è quello dei media, che, come cinicamente rilevava
qualche amante del “realismo”, fanno la loro partita
e contribuiscono a costruire una narrazione difficile da ignorare,
perché spesso costituisce e costruisce una parte dell'opinione.
Nel dibattito di queste settimane non è mancato chi –
leggete l'ultimo editoriale su infoaut - pur rivendicando il
“riot”, lo avrebbe preferito più “civile”,
più forte nel proporre una comunicazione dove l'atto
distruttivo fosse immediatamente leggibile dal filtro dei media.
Pur condividendo l'aspirazione ad una comunicazione che sappia
farsi opinione più allargata, dubitiamo che i media siano
governabili dai movimenti.
Quest'analisi della giornata mette in scena una rappresentazione
della piazza, disegnata da chi vorrebbe farsene “rappresentante”,
ben al di là dello spazio di una may day milanese, in
cui le anime scisse della post autonomia, si sono contese il
monopolio della visibilità.
Al di là della trasparente rabbia di chi pensava di condurre
il gioco ma non ha portato a casa il risultato pieno, colpisce
che il concetto sensato della chiarezza degli obiettivi, venga
delegato allo specchio dei media. Ci permettiamo di immaginare
che se il “riot” avesse colpito solo banche e auto
di lusso, la narrazione mediatica non sarebbe cambiata.
Parte di chi ha agito il “riot” ha affidato ai graffiti
la propria narrazione. Un cuore intorno al foro di una vetrina
infranta, una scritta su un negozio aperto il Primo Maggio,
allusioni poetiche ad una narrazione rivolta ai propri affini,
che raramente riesce a farsi opinione condivisa al di fuori
di chi ha la chiave di decodifica culturale del messaggio.
Scartiamo intenzionalmente il concetto di “opinione pubblica”,
perché l'epoca in cui la diffusione aurorale della stampa
quotidiana produceva “opinione pubblica” è
tramontata e i piani su cui si costruiscono le narrazioni condivise
sono molteplici, a volte intersecati ma non sempre comunicanti.
La giornata delle spugnette dove la sinistra Mastrolindo è
scesa in strada per ripulire la città è frutto
della proposizione della tematica del bene comune in chiave
nazional-popolare. Quella giornata, ben più degli scontri
del Primo Maggio, ha messo in secondo piano la devastazione
e saccheggio rappresentati dal modello Expo. L'appannata amministrazione
Pisapia ha recuperato punti, l'Expo probabilmente meno.
Nelle prime ore dopo la manifestazione milanese i social media
pullulavano di complottisti che ripetevano la noiosa litania
sugli infiltrati nero vestiti: fortunatamente in meno di 24
ore questo argomento buono per tutte le stagioni è stato
riassorbito in un dibattito meno banale. Il ricorrente comparire
di queste tesi afferisce all'incapacità di confrontarsi
con pratiche eccedenti la normalità: se c'è la
lunga mano della questura tutto va a suo posto, non c'è
lacerazione, non c'è divaricazione, non c'è conflitto,
non c'è divisione tra buoni e cattivi, perché
i “cattivi” sono ridotti al rango di burattini.
È un'interpretazione intrinsecamente rassicurante. Niente
dibattito, niente confronto. I buoni sono buoni e i cattivi
sono finti. Una favola triste e inutile.
Una favola che fa sempre meno presa sull'immaginario.
La narrazione sconfitta è stata quella delle assemblee
che hanno costruito le giornate No Expo, il cui punto di arrivo
e ri-partenza avrebbe dovuto essere il Primo Maggio milanese.
Un corteo comunicativo e conflittuale era la proposta per una
may day che mettesse insieme, nello stesso spazio, una rappresentazione
plurale dove l'agire comunicativo fosse condiviso da tutte le
anime del corteo. Una scommessa che il “riot” ha
fatto saltare, svuotando di senso la giornata dei “blocchi”
del 2 maggio e portando alla cancellazione dell'assemblea finale.
Il No Expo proseguirà, ma il momento magico della rappresentazione
corale non potrà essere recuperato.
Forse era una scommessa impossibile, forse la rete No Expo ha
tentato la quadratura del cerchio. Di certo sullo sfondo c'era
un'aspettativa non detta ma sussurrata di bocca in bocca: il
primo maggio a Milano il “riot” avrebbe riempito
la scena. Forse era una storia già scritta. Forse.
Lo abbiamo messo con le virgolette “riot”. Lo abbiamo
scritto in inglese perché se avessimo scritto sommossa,
o rivolta sarebbe stata chiara a tutti la distanza tra
le parole e le cose.
“Riot” ha invece in se la potenza semantica dell'immagine
stereotipa che si riproduce di piazza in piazza, di continente
in continente. Ragazzi mascherati, lacrimogeni, polizia, auto
in fiamme e banche sfondate. Roba che ritorna a tutte le latitudini,
tanto che qualcuno sta teorizzando il ritorno delle rivolte,
senza accorgersi, che non hanno mai smesso di esserci.
L'immagine iconizzata del lancio della boccia parla la lingua
del conflitto, racconta quello che ogni giorno non accade: è
innegabilmente seduttiva per tanti, perché narra l'immediatezza
di un agire che non rimanda ad altro, che si concreta nel subito,
che ha in se il proprio fine: comincia e finisce con la vetrina
infranta. A due passi dagli scontri i supermercati erano aperti,
un gelataio spalmava coni con un occhio alla strada, a Rho migliaia
di volontari lavoravano per l'illusione di salire il mezzo scalino
che divide i sommersi dai salvati.
La stessa retorica sulla distruzione dei simboli del potere
e del capitalismo, la narrazione di alcuni settori di movimento,
ha una logica debole, vista l'incomparabile distanza tra le
infinite macerie del capitalismo e i vetri infranti nel centro
di Milano.
La seduzione è nel gesto, non nella sua rappresentazione
politica.
Su questo sentire che ha una propria intrinseca onestà
c'è chi ha provato a giocare il vecchio gioco dell'egemonia.
Ma è una tela dalla trama logora, che gioca sporco con
i propri stessi compagni di “riot”, perché
nega loro dignità politica, relegandoli nella sfera della
spontaneità. Una spontaneità che non escludiamo
si sia data in qualche occasionale processo imitativo ma è
improbabile che sia appartenuta ai più.
Diciamolo chiaro: Milano non è Baltimora o Istanbul.
A Milano non c'è stata una sommossa ma un settore della
piazza che per un'ora e mezza ha messo in scena la sommossa.
Lo diciamo con rispetto. Il rispetto dovuto a chi rischia, a
chi è stato arrestato, a chi potrebbe perdere la propria
libertà per anni. La vendetta dello Stato affina i propri
strumenti e sarà segno della maturità dei movimenti
che nessuno sia lasciato solo, che chi è nel mirino abbia
sostegno attivo, perché nelle Procure stanno tessendo
la rete delle prossime operazioni repressive.
Eravamo al corteo del Primo Maggio a Milano. E non siamo pentiti
di esserci stati, anche se avevamo creduto alla scommessa di
un corteo conflittuale e, insieme, comunicativo. Eravamo in
coda. Dietro a tutti, rioter compresi, e siamo arrivati sino
in fondo.
Un corteo è un corteo. Doveva essere la rappresentazione
collettiva delle lotte che in ogni dove danno corpo al mondo
nuovo che vogliamo e che stiamo già costruendo, nel conflitto
e nell'autogestione. Non lo è stato. Ci saranno altre
occasioni, se sapremo costruirle.
Non ci interessano le vetrine rotte, ci interessa la storia
che raccontano. Il fatto, nudo e crudo, è che quel settore
della piazza milanese non era lo specchio di lotte reali ma
il loro sostituto. Lo diciamo con l'umiltà di chi sa
quanto sia arduo un percorso di lotta radicale, un percorso
che osi mantenere chiara all'orizzonte l'urgenza dell'anarchia,
l'urgenza di un mondo senza servi né padroni. Senza stati,
né eserciti.
Lo diciamo con la chiara consapevolezza che quanto avvenuto
ci interroga tutti sull'efficacia del nostro agire, sulle prospettive
di lotta. Dobbiamo registrare un'assenza. Un'assenza pesante
come un macigno, un'assenza che abbiamo visto evocare in questi
anni da tanti compagni e compagne, intelligenti e generosi.
Un'assenza che non possiamo ignorare. Manca la proiezione rivoluzionaria,
manca la tensione a credere possibile un mondo realmente diverso
da quello in cui siamo forzati a vivere. La precarietà
iscritta nella materialità del vivere quotidiano, diviene
condizione esistenziale, chiusura prospettica. Senza tensione
ad un mondo altro, senza una rottura quotidiana dell'ordine
imposto, il sasso che spezza il vetro, la molotov che brucia
il macchinone bastano a se stessi.
Il problema non è il volo ma l'atterraggio: le lotte
sui territori solo occasionalmente riescono a coniugare radicalità
e radicamento.
Questa continua ad essere la nostra prospettiva, una prospettiva
costitutivamente estranea a logiche egemoniche, perché
allergica ad ogni forma di potere. E di contropotere.
La strada da fare è tanta. Il conflitto, quello vero,
lo agiamo giorno dopo giorno nei territori dove viviamo e che
attraversiamo. E ne conosciamo la difficoltà.
Il Primo Maggio sempre più gente va a lavorare.
Questa è la vera sconfitta che noi tutti abbiamo patito
quest'anno: pochi hanno scioperato, perché le reti di
sostegno a chi lotta sono troppo deboli, perché la divisione
tra sfruttati ha aperto solchi profondi, perché la rappresentazione
di un altro futuro, come di un AlterExpo deve ancora fare breccia
nei cuori e nelle menti di tanti con cui, nei nostri quartieri,
facciamo un pezzo di strada insieme.
I compagni e le compagne della Federazione
Anarchica Torinese
|
Un nostro adesivo pubblicitario degli anni '70, realizzato da Fabio Santin e Marina Padovese |
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Modo Infoshop (Bologna),
100,00; Anna Ubizzo (Marghera – Ve) 4,00; Giuseppe
Idem (Forcoli – Pi) 5,00; Daniele Romagnoli
(Sant'Olcese – Genova) 4,00; Roberto Angelini
(Spoleto – Pg) 10,00; Enrico Calandri (Roma)
150,00; Andrea Ronsivalle (Lodi) 10,00; Nuccia Pelazza
(Milano) 100,00; Giovanna e Antonio Cardella (Palermo)
40,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00;
Marco Bianchini (San Giuliano Milanese – Mi)
10,00; Aldo Curziotti (Felegara – Pr) 10,00;
Enrico Calandri (Roma) 100,00; Rino Quartieri (Zorlesco
– Lo) 50,00; Carlo Ottone (Gattinara –
Bi) in ricordo di Giuseppe Ruzza e Delfina Stefanuto,
30,00; Piero Torelli (Sermoneta – Lt) 10,00;
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Attilio, Libera
e Libero Bortolotti, 500,00; Libreria San Benedetto
(Sestri Ponente – Ge) 1,70; Davide Giovine (Torre
Pellice – To) 15,00; Marco Pandin (Montegrotto
Terme - Pd) 30,00; Piero Torelli (Sermoneta - Lt)
10,00. Totale € 1.209,70.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Lucia
Zanardi (Genova); Maurizio Frongia (Busachi –
Or); Agostino Perrini (Brescia) 110,00; Enzo Boeri
(Vignate – Mi) 200,00; Misato Toda (Tokyo –
Giappone) per dieci anni, 1.200,00; Gruppo Caos (Genova);
Paola Mazzaroli (Trieste). Totale €
1.910,00.
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