Da 31 anni e 3 mesi.
Non male.
Ho iniziato a scrivere su “A” dal numero 118, aprile 1984. Negli anni precedenti erano uscite parecchie cose a mio nome su Rockgarage (la fanzine che avevo contribuito a costruire) e Rockerilla: su quelle pagine mi occupavo preferibilmente di punk anarchico e la cosa aveva incuriosito la redazione. Mi è stato offerto dello spazio ed eccomi qui oggi, ancora insieme a tutti voi, a festeggiare il numero 400 e i trent'anni abbondanti di collaborazione. Sentite, però: non mi va di celebrare guardando indietro con nostalgia e delirando sui chilometri di strada fatta insieme. Piuttosto, pensavo di fare una lista s/ragionata delle cose che non ho fatto e che non ho detto e che, per un motivo o per l'altro o senza alcun motivo particolare, ho lasciato fuori da queste pagine. Poi ho cambiato idea. E ho cambiato idea ancora una volta. Ma andiamo per disordine.
Tra il 1984 e il 1987, gli anni d'oro del punk in Italia, sono rimasti chiusi fuori a volte per loro esplicita richiesta un sacco di gruppi. Senza andare nel dettaglio si potrebbe dire quella certa ala dura-e-pura che non cercava attenzioni né spazio (tranne qualche centimetro quadro di “pubblicità”) su quello che veniva considerato un organo di propaganda degli anarchici “tradizionalisti”. Peccato. Avrei dovuto insistere e convincerli, oppure scrivere di loro fregandomene delle raccomandazioni, e invece no e vaffanculo.
Fin dall'inizio
Ma vi ho raccontato dei lavori di collettivi italiani come Fall Out, Revoluzione, Wops, Hyxteria, Upset Noise, Warfare, Detonazione, Franti, Tribù Liberate, Kina, Rivolta dell'Odio, Soglia del Dolore, Blu Bus, Attack Punk, Plasticost, Contrazione, Joel Orchestra, Camun Sound Band (alcuni di loro da un po' si fanno chiamare i Luf), Funkwagen, Thelema, Orsi Lucille, Politrio (nel gruppo c'era Giorgio Canali), Teatro Quotidiano, Truzzi Bros., Negazione, Environs, eccetera, e presentato fanzine e riviste come Nashville Skyline, If, Extra, Volontà d'Azione, Nuova Fahrenheit, Il sofffione (con tre effe), Controrock, Amen, Crash, Inflammable Material, War and Death, Schizzi di Sangue, East of Eden, Usmis, Musiche, Lame di Luna e altre ancora. Dietro c'erano tutte ragazze e ragazzi press'a poco della mia età, anche loro conosciuti alle manifestazioni, ai concerti, nelle cantine, in radio, nelle stanze occupate dei primi piccoli centri sociali e negli spazi autogestiti e precari fioriti di lì a breve in giro per l'Italia. Eravamo tutti diversi, eppure ci si assomigliava, ciascuno con qualche nodo segreto dentro al cuore che ci rendeva fragili (per certo ricordate anche voi questa canzone: “la rabbia di quei giorni brucia ancora dentro, ma forse tanto veleno poi é tornato dentro di noi / gli altri stanno ancora ridendo, e noi qui a guardarci dentro”), tutti innamorati ed impegnati a cercare una colonna sonora adatta. Non eravamo capaci di suonare e di cantare, ma non era grave: avremmo preso i pezzi dai dischi e dalle cassette degli altri, cucendoli in un patchwork che ci rassomigliava.
C'è stata una crescita collettiva, che dalla politica si è trasferita alla musica e in qualche caso viceversa, che ha riguardato un vasto settore di quella categoria sociale che va sotto il nome di giovani. Il processo ha seguito una linea più o meno retta per dieci-undici anni, dal ‘65 al ‘75-'76, dopo di che è entrato in crisi profonda, e attualmente si sta risistemando su basi diverse. In altre parole, tutto ciò vuol dire chiedersi com'è avvenuto l'incontro delle generazioni cresciute nella scuola di massa con la cultura, con le culture. La scolarizzazione generalizzata (...) ha prodotto non degli incolti, gente che non ha cultura, com'è diventato luogo comune ricorrente, bensì gente che non ha una cultura, perché ne ha molte e contraddittorie, e non solo a causa della scuola come didattica, ma per il tempo, la quantità di tempo sociale consumato in essa: più che risultarne il luogo dove s'impara, la scuola è il catino dove si tenta di incastrare insieme le informazioni ricevute dalla varietà dei media. Quali ideologie, quali trasformazioni, quali rivoluzioni potevano nascere in chi era affascinato in eguale misura dalla classe operaia e dal viaggio in California, dalla rivoluzione cinese e dalla decadenza occidentale, dalla tecnologia e dal naturismo, dalla rivolta e dalla fuga, (...) dal padre e dal rifiuto del padre? In questa vera e propria bolgia alla musica è stato affidato il terribile compito di fare da collante, di tenere le fila, di sostituire gli altri linguaggi quando essi venivano meno.
È Alessandro Carrera che scrive, da “Musica e pubblico giovanile” (ed. Feltrinelli, 1980): faceva parte della cooperativa l'Orchestra, è un ottimo traduttore di Bob Dylan. Per dire: uno che c'era, che sa, che sa bene. La citazione l'avevo ritagliata per “Nel cuore della bestia”, un libro curato da Stefano Giaccone e da me che con ogni probabilità è stato il primo libro sul punk italiano (molto presto esaurito, poi diffuso via internet: c'è in giro una voglia grossa di ristamparlo). Dopo gli anni di piombo e di eroina, chiuse e/o videosorvegliate le piazze e dissolti gli assembramenti, la musica è stata comunque un buon pretesto per piantare e cementare amicizie, un terreno fertile di confronto e di incontro. Lo stesso, le divergenze in fatto di gusti musicali sono state scusa ufficiale frequente per interrompere, anche in malo modo e con strascichi rancorosi, proprio quelle stesse amicizie e quegli stessi incontri di cui si parlava appena due righe fa. Ma non importa, magari è così che va (citazione da Stefano Giaccone).
Bastava una cartolina
Se ci penso adesso eravamo proprio poveri e malmessi: le collette
a cento lire alla volta, i viaggi incoscienti in autostop o
senza il biglietto del treno, nello stomaco solo un pezzo di
pane e una birra condivisa. Per tenere i contatti bastava una
cartolina, due righe su un biglietto con un francobollo riciclato
(tanto chi vuoi che se ne accorga), un paio di gettoni: altro
che internet e banda larga, i ragazzi di oggi non capiscono
come facevamo a sopravvivere -e bene- senza il telefono e la
televisione... Tante volte ci si incontrava davanti alla vetrina
di un negozio di dischi per afferrare qualche scampolo di quei
suoni nuovi che uscivano da dischi che difficilmente avremmo
potuto comperare. Ma presto l'aspetto dei nostri vent'anni ribelli
ha smesso di portare folklore, i nostri colori e le nostre risate
hanno cominciato a infastidire i clienti: ci hanno cacciato
per questo, o accusandoci -e non senza un po' di ragione, almeno
per quanto mi riguarda- di furto. Sradicate le panchine, i chiodi
conficcati sui gradini per non farci sedere sopra più
nessuno, né chiappe nostrane né immigrate. Chi
non ha un cazzo da fare vada a farlo da un'altra parte. Qui
per voi non c'è posto.
Quando “A” ha compiuto vent'anni ho scritto una
lettera (”A” 179, febbraio 1991), grosso modo dicevo
che era bello cambiare idea, e cambiarla ancora (vedi all'inizio).
Su questo no, non ho cambiato idea. Quella lettera mi è
capitata sotto gli occhi neanche mezz'ora fa, stavo rimettendo
in ordine le vecchie annate rilegate e improvvisamente mi sono
perso. Gli anni Novanta significano per me due figlie arrivate
a distanza breve e un carico pesante di problemi familiari:
Valentina era gravemente disabile e bisognosa di cure ed assistenza
continua. Problemi grossi e spigolosi che mi hanno a lungo tenuto
lontano da tutto, ma non da tutti. Magari “la gente”
lì fuori, “la gente” che non ha problemi
o che sa magicamente come risolverli in fretta, non si rende
conto di quanto sia importante una canzone ascoltata con le
cuffiette di sera, tardi, quando riesci a raccogliere qualche
briciola di calma dopo una giornata disastrosa passata con un
bambino in braccio che ci si ostina a desiderare sano. Mi sono
ritrovato spesso ad aggrapparmi denti e unghie alla vostra voce
amica, le parole cantate adoperate come lettere da lontano,
come abbracci veri, forti. Molto spesso gli articoli che ho
inviato alla redazione tra il 1992 e il 2008 sono stati scritti
da una stanza d'ospedale, collage fatti di una frase scritta
adesso e un'altra chissà quando, dopo, forse.
Vi ho fatto conoscere i lavori di Loris Vescovo, Lalli, Gigi
Masin, Ste
fano Giaccone, Ishi, Detriti, Marmaja perché le loro
erano musiche e canzoni che mi facevano sentire bene (questo
i Detriti però no) e soprattutto mi facevano sentire
meno solo (questo i Detriti sì), e un po' ingenuamente
speravo potessero avere anche per voi simili capacità
benefiche. A proposito di lettere: ma quanto mi avete scritto,
ma in quanti continuate a scrivermi. Io continuo a perdermi,
ma poi ritorno. Mi dispiace non aver risposto a tutte le vostre
lettere, di aver lasciato che le vostre chiamate finissero nella
cassetta della segreteria telefonica ad aspettare una risposta
che non c'è stata. Non ho accennato neanche di striscio
a tutte le iniziative musicali a sostegno di “A”
che ho curato e pubblicato. Non è grave, dai: magari
lo farò in occasione dei 50 anni di “A”.
Oppure per festeggiare il numero 500. Farò del mio peggio,
per esserci.
Marco Pandin
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