Primo fu Georges, poi...
Quattrocento di questi numeri!
Quattrocento numeri... però però però:
qui corre l'obbligo dell'autocelebrazione. E per quel che riguarda
propriamente il sottoscritto, la rubrica su cui vi scrive in
questo momento debutta sulla rivista nel numero 284 dell'ottobre
2002. Son dunque ben più di cento numeri e dieci anni
che vi tedio su fatti più o meno musicali e con personaggi
piuttosto libertari! C'è di che provare a spegnere qualche
candelina...
Lo
faccio alla mia maniera, riportando in poche righe alcuni “mostri
sacri” e geniali sconosciuti (quantomeno per la cultura
italiana) di cui v'ho parlato in tutti questi anni. Valga come
centone, come zibaldone, come sprone ad andare a ripescare -
facendo una mangiata di polvere sugli scaffali, magari online
o anche ascoltando qualche brano su Youtube, che allora non
s'usava - quelle antiche righe, che un po' sono ingiallite,
ma - a scanso di qualche aggettivo entusiasta di troppo - testimoniano
la mia fame e il mio entusiasmo di musica ribelle. Col tempo
mi sono dato una calmata e non uso più “sublime”
e “geniale” a ogni piè sospinto, ma credo
di poter ancora affermare che questa è una rubrica fatta
d'amore più che di conoscenza... sempre che le due cose
non coincidano.
Georges Brassens (1921-1981),
da qui si comincia sempre, e su di lui siamo tornati più
e più volte, anche con un intero dossier del maggio 2012
(“A” 371). Il pedagogo libertario per eccellenza,
l'individualista buono studiato, imitato, tradotto da generazioni
su generazioni di cantanti, in tutte le lingue e i dialetti
del mondo. A distanza di trentacinque anni dalla sua morte,
ad appena 60 anni, la maniera garbata di far passare rivolta
per ironia, ritmo per carezza e poesia per canzone (o il contrario)
continua a convincere. C'è un rispetto del pubblico che
diventa rispetto sommo per l'umanità, un modo sommesso
di rivendicare dignità a ogni grano di sale, amore a
ogni uomo e bellezza a ogni donna. Forse il suo sistema di valori
appare quello di un signore un po' vecchiotto e inoffensivo,
ma basta che il vento degli eterni ritorni dell'imbecillità
levi un po' la polvere dai dischi, ed ecco che il vecchio leone
impagliato tira fuori le unghie e graffia a fondo la stupidità
becera del razzismo, del nazionalismo, dei guerrafondai. A 285.
Jacques Brel (1929-1977),
e come ci si fa a non innamorare di lui? Era un punk, era un
disperato braccato da se stesso, era la vitalità fatta
persona. Sudava, perdeva litri ad ogni concerto, vomitava stretto
nel fascio dei suoi nervi ogni volta prima di andare in scena.
Nato nel milieu filisteo e alto-borghese di Bruxelles, rinnega
i “sacri” valori di famiglia, per vivere un sogno
bohème nei cabaret parigini degli anni '50. La gavetta
miserabile, poi un successo universale. Ogni sua canzone è
un teatro in miniatura di versi infuocati, d'impareggiabile
energia interpretativa, e sconvolge anche le star del Rock and
Roll (celebre la versione di Bowie di La mort/My death).
All'apice del successo il ritiro a 35 anni, senza ripensamenti...
o forse non ne ha avuto il tempo. Divorato da un tumore, rifugiato,
come Gaugin e Stevenson, nelle isole del Pacifico, aspettava
la morte, mentre milioni di francesi facevano la fila per acquistare
il suo ultimo LP. A 287
Léo Ferré
(1916-1993), il gigante monegasco torrenziale, apocalittico,
visionario, ha un approccio del tutto diverso: musicista per
formazione, aspira alla pienezza orchestrale, mettendo in musica
i più grandi poeti francesi.
Timido come interprete all'inizio, affida la popolarità
delle sue canzoni ad altre voci, poi - man mano che trova il
proprio urlo e il furore e la carezza - ha sempre più
parole, fino a prorompere nell'oceano inarrestabile dei suoi
poemi monologhi-sinfonici.
Nel '68 non rifiuta il ruolo di profeta rivoluzionario, qualche
volta lo contraddice... oggi emergono alcune pesanti allusioni
al suo passato familiare che mostrano il lato di umana ambiguità
di un genio che forse aveva più talento per l'arte che
per la vita.
Paco Ibanez (1934), oh,
interrompiamo la serie dei francofoni con un cantautore che
per di più è vivo e che ha raggiunto, in piena
forma artistica, una bella età! Viva Paco!
M'è capitato più d'una volta d'incrociare il suo
cammino, la sua fiera anarchia bonacciona (un po' alla Brassens,
tanto per cambiare), la sua passione per la poesia propriamente
detta, quella che nasce per i libri e non per la chitarra.
L'impegno di una vita di Paco è stato quello di mettere
in musica e cantare con la sua voce - da qualche anno ridotta
a un filo, ma sempre profonda - i tesori della poesia castigliana,
dai tempi del barocco a quelli più recenti in cui i poeti
vivevano in esilio o morivano in carcere. A 285
Atahualpa Yupanqui (1908-1992)
un nome da Dio per una divinità della musica... un nome
che ispira una soggezione ancora palpabile per questo ricercatore
del folklore, che con un'invidiabile tecnica di chitarra classica
e un raschio vegetale nella voce, seminava per il vasto mondo
versi su versi.
Si confonde in lui il poeta popolare e il popolo tutto, l'agitatore
politico e il gaucho dai silenzi eloquenti, l'ambasciatore dell'arcaico
stile della milonga, argentina e uruguayana, e il guardiano
della memoria condivisa, cui un continente intero si abbevera
di senso. A 289
Violeta Parra (1917-1967)
a sedici anni avevo, come tutti, un numero consistente di sogni,
fra questi c'era quello di sentire la versione di Gracias
a la vida, la più bella preghiera laica mai scritta,
cantata dall'autrice: ci era arrivata in moltissime versioni
(Joan Baez, Mercedes Sosa, Gabriella Ferri, ecc.), ma proprio
quella era irreperibile. Sapevo bene - ben prima che diventasse
la trama di un film di successo - della vita difficile di questa
donna dal carattere forte e impossibile, libero e intrattabile.
Sapevo del suo impegno politico di militante comunista, sempre
in viaggio per il mondo, della fama come pittrice, come ricercatrice,
come tessitrice di arazzi. Sapevo dei suoi figli diventati cantanti,
del suo sentirsi messa da parte, del suo appoggiarsi all'amore
bugiardo fino all'ultimo giorno. Sapevo del suo suicidio a cinquant'anni
e del fatto che poco prima aveva scritto una canzone che è
il più bell'inno alla vita. Lo sapevo e volevo ascoltarlo
dalla sua voce e quando l'ascoltai mi sconvolse, e mi sconvolge
ancora. A 357
Bulat Okudzava (1924-1997)
è nella memoria dei testimoni un mormorio teso nel pubblico
di una conferenza stampa gremita all'inverosimile: quella del
Club Tenco nel 1985 a Sanremo, quando dopo numerosi tentativi
il direttivo riuscì a invitarlo per conferirgli il Premio.
Era un mondo diverso, i russi erano sulla bocca di tutti: nemici
o speranza, cruccio o attesa, dissidenza o servilismo.
Un cantautore russo era un marziano, quella società che
si voleva liberata, ma che s'infagottava in uniformi mostruosamente
piene di medaglie e patacche, aveva partorito un omino secco
e dimesso, un gigantesco poeta che col linguaggio quotidiano,
con ironia disillusa, con immagini e melodie popolari, faceva
a pezzi la retorica del regime.
I poeti in Russia sono due secoli e mezzo che sfidano il potere,
che muoiono malamente, e grazie tante se gli viene lasciata
l'opzione del suicidio... Okudzava era lì, figlio di
un fucilato e di una deportata, era lì a testimoniare
che la poesia è una fragile lastra di ghiaccio in equilibrio
fra un abisso e un altro. A 288
Aleksandr Galich (1918-1977)
invece è un panzer, un carrarmato. Quanto Okudzava è
soffuso e in fondo carico di speranza per un'umanità,
magari silenziosa ma viva, tanto Galich è irridente,
sarcastico, definitivo.
C'è stata una scelta precisa fatta al tempo degli assassini:
da una parte il sacro, i poeti, quelli che si sono opposti e
hanno pagato, dall'altra i torturatori, i servi, gli indifferenti...
nessuna stretta di mano, nessun sorriso complice, il quieto
vivere sarebbe la seconda morte di chi pagò cara la sua
libertà di pensiero.
Galich, come russo, come ebreo, come uomo è stato tradito
troppe volte dal potere e ha messo la sua patria in una cattedrale
di parole a cui si tiene stretto, mentre il mondo va alla deriva.
Costretto all'esilio, lo trovarono un giorno folgorato per un
misterioso incidente domestico. A 351
Vladimir Vysockij (1938-1980)
l'immensa popolarità di questo poeta cantante e attore
è dovuta - come per i suoi maestri - al “samizdat”,
alle cassette clandestine che circolavano in milioni di copie
e ai concerti in case private, fuori dal controllo dello stato,
che non essendo più tempo di purghe e di Siberia, si
limitava a sommergere nel silenzio obbligatorio i suoi migliori
artisti.
Vysockij, fisico da lottatore e carattere indomabile, sfidò
con la sua fame di vita il silenzio bianco che lo circondava,
alcolizzato e morfinomane, venerato e tenuto in disparte, durò
finché era umanamente possibile durare. Il suo funerale,
non annunciato, fu la più grande manifestazione spontanea
nell'URSS: chilometri di coda per andare a vedere l'eroe del
popolo. È lì che una crepa s'è aperta nel
muro di un mondo che era già finito. A 338
Herbert Pagani (1944-1988)
tanto in italiano quanto in francese, tanto in canzone quanto
in pittura, tanto su disco quando in teatro, tanto in una radio
commerciale quanto in un'arringa politica, ha abitato il destino
di questo girovago eclettico e tragico. Ebreo libico di origini
italiane, infanzia trascinata per mezza Europa da due genitori
separati e litigiosi, uomo dalle incrollabili convinzioni umanitarie
e internazionaliste, ma legato a un impossibile sogno sionista,
Herbert è generoso quanto ferito, un talento popolare
nelle movenze di una principesca grazia. Oggi gli italiani lo
hanno dimenticato, perché è più comodo
piangere che capire. A 295
Giovanna Marini (1937) è una compositrice,
una cantante, una ricercatrice, una poetessa e una straordinaria
pedagoga. Che un personaggio del genere non abbia nel suo paese
un conservatorio da dirigere, uno spazio permanente dedicato
alle sue creazioni, è il segno del maschilismo sempre
strisciante negli ambienti culturali e della diffidenza nei
confronti degli artisti impegnati.
Il fatto che Giovanna, oltre che nei teatri di tutto il mondo,
continui a portare la sua arte e il suo sapere nelle piazze,
nei centri sociali, nelle associazioni culturali e politiche
più periferiche e oscure, è la riprova dell'umiltà
e della generosità del genio. A 353
Paolo Ciarchi (1942) chitarrista jazz di formazione,
accompagnatore e testimone della migliore stagione del Cabaret
(Jannacci e Milly), collaboratore principale del Teatro Politico
di Dario Fo. Ciarchi s'è inventato una forma di arrangiamento
basato sull'ordine del caos e sulla rivoluzione formale dei
suoni, che fa da contraltare giocoso alle seriose canzoni del
repertorio politico dei Dischi del Sole.
Questo musicista fantasioso ha toccato, con la grazia e la danza
di un Re Mida della cultura, tutti i generi di spettacolo (le
canzoni di Della Mea, il teatro di Franco Parenti, il cinema,
l'improvvisazione pura) ed è rimasto invisibile ai più.
A 356
Non saprei e non vorrei concludere questo compendio senza segnalarvi
tre nuove uscite, di tre cari amici e inestimabili colleghi
di musica... perché che senso avrebbe parlare di canzoni
se tutto fosse passato?
Gang, il gruppo marchigiano capitanato dai fratelli Marino
e Sandro Severini, dopo un secolo di attesa, ha finalmente partorito
un disco di nuove canzoni dal titolo “Sangue e Cenere”.
I fratelli si amano e si seguono senza discuterli, la loro arte
è senza tempo ma racconta del nostro tempo, la loro urgenza
punk s'è fatta monumento quotidiano alla memoria, attenzione
al minuto. Delle virtù rivoluzionarie pare abbiano distillato
il meglio: il sorriso e la pazienza si sono aggiunte alle radici
e alle ali.
Marco Rovelli, quest'intellettuale non pacificato,
mette coi suoi libri profondità filosofica e narrativa
al servizio di cause buone e necessarie. Fra le molte frecce
al suo arco ci rivela un pugno di grandi canzoni nel nuovo CD
“Tutto inizia sempre”. La produzione musicale, del
mio storico collaboratore Rocco Marchi, cuce narrazioni cantate
e spunti lirici in una sorta di trasparenza armonica, una sinfonia
di suoni inaspettati che nell'insieme hanno un incedere classico.
Il brano d'apertura Il tempo che resta offre la consolazione
lancinante di un diamante pazzo.
Davide Giromini, il più talentuoso e caotico scrittore
di canzoni in attività, è appena uscito con un
libro/CD che, come sempre, merita la massima attenzione. Su
un doppio indecifrabile binario corre la narrazione cibernetica
del romanzo di (de)formazione di un robot e l'assalto a parole
armate di una serie di canzoni memorabili, che portano nell'oblio
“pixellato” del presente gli incubi mal digeriti
del passato coloniale (Volto nascosto) e delle “Rivoluzioni
Sequestrate” (Esilio di Lev, Un treno per Lenin, Robespierre)
che danno il titolo al progetto.
Alessio Lega
alessiolegaconcerti@gmail.com
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