Diverso è il mondo
In piedi nel parco di Porta
Venezia, a Milano, guardando dritto nella telecamera, Ziggy
(al secolo, Tsegehans Weldeslassie) racconta sommariamente come
è arrivato in Italia, cosa ha significato lasciare il
suo paese e cosa si prova ad abbandonare la propria città
sapendo che non vi si tornerà. Ziggy dice del viaggio,
dell'attraversamento del deserto, della paura di ritrovarsi
perduto per sempre, con una casa alle spalle e nessuna casa
davanti. Della traversata per mare, che nessuno può volere
né scegliere. Dell'arrivo in Italia, e di tutto il resto.
Ziggy racconta, nel film Asmarina. Voci e volti di una eredità
postcoloniale (A. Maglio e M. Paolos, 2015), la sua storia
intermittente, alternandola a quella di altri personaggi, cittadini
di questa città impegnata a dimostrare che sa fare l'EXPO,
mentre si dimentica di essere già meticciata e inconsapevole,
tollerante nel sonno e involontariamente accogliente. Voci diverse
raccontano una cosa importante sulla Milano di oggi, nella comunità
eritrea (che è il soggetto primario del film) e fuori
di essa. E Asli Haddas, occhi grandi e diretti in una nuvola
di capelli ricci, in tutto questo ricorda che si dovrebbe pensare,
quando si ha davanti qualcuno, che questo qualcuno non è
nero o bianco, ma, prima di tutto, una persona.
Non
saprei dire perché Asmarina mi ha colpito tanto.
È un bellissimo film, ma questo non basta. È una
combinazione di voci, e questo è già più
raro. È un mondo di persone, e questo si avvicina a essere
unico. Ed è un film che si chiude dicendo di fatto allo
spettatore: guarda quante differenze, e pensa quanto c'è
da imparare.
Ci ho pensato, e mi sono resa conto che il punto è proprio
questo. Facciamo molta filosofia sull'accoglienza, sulla necessità
di immaginare politiche per i migranti, teorie nuove per spiegare
il fenomeno dei flussi, magie per curare una eterogeneità
crescente che ci preoccupa. E credo che la preoccupazione, alla
fine, nasca essenzialmente da questo: non siamo capaci di pensarci
diversi senza pensarci anche gerarchici. Tu sei differente da
me, ma io sono meglio. La versione cattolico-populista è:
io sono meglio, e ti curerò dalla tua differenza. È
un processo mentale che qui sto applicando agli stranieri, ma
che di fatto vale per ogni genere di anomalia: rimozione e normalizzazione.
E se va proprio male, spersonalizzazione. Chi ci turba non è
davvero una persona, ma un numero in una statistica.
Così arrivo alla seconda, necessaria differenza di cui
volevo raccontarvi oggi
Dagmawi Yimer è arrivato coi barconi. Come altri, dei
quali non sappiamo la storia e in verità neanche la vogliamo
sapere, poiché è più comodo, più
rapido – più meravigliosamente efficiente –
pensare per luoghi comuni. Nella versione 2.0 dell'accoglienza,
l'ultima generazione di intellettuali di sinistra svirgola allegramente
verso la felice ambiguità dei numeri: siamo accoglienti,
ma sovraffollati, perciò che fare?
“Che fare?”, col punto di domanda, è una
delle espressioni-chiave della sinistra – ammesso che
ve ne sia una – di questi tempi. Nell'in-between space
tra la criminalità organizzata, che trae profitti
economici dai garbugli di un'accoglienza impossibile, e la buona
volontà della gente comune, che mette pezze su una situazione
che nessuna istituzione europea pare disposta a risolvere, l'intellettuale
di sinistra, o presunto tale, boccheggia e dice: “Che
fare?”. Aspettandosi che qualcuno risponda, e fornendo
numeri. Intanto, i barconi colano a picco dal 1996, e un programma
di assistenza è stato sostituito da uno di protezione
dei confini. Quindi i numeri aumenteranno.
Il fatto è, però, che i morti non son numeri,
ma persone. Dagmawi Yimer, lo si diceva, è arrivato coi
barconi. Ora fa il regista. Ha già lavorato con Andrea
Segre in Come un uomo sulla terra (2008). Ora fa da solo
e realizza Asmat – Nomi, che è dedicato
al naufragio del 3 ottobre 2013, il più grave (circa
300 morti) prima di quello recente, che ha triplicato la posta.
Dagmawi Yimer realizza un'opera poetica divisa in due parti.
La prima è di uomini e mare, figure incappucciate e per
metà immerse in acqua, col capo coperto da un lenzuolo
per simulare la sensazione di soffocamento. C'è anche
una parte di animazione, con colori intensi e profili accennati,
come nei disegni di un bambino. La seconda parte è una
recita di nomi. Tutti quanti. In lingua nativa e in italiano.
Nomi. Uno per ogni singolo annegato. Uno per ogni singola persona
che ha perduto la vita in quel viaggio. Un nome, una persona,
un morto. Dovremmo cominciare a renderci conto di questo quando
magari ci auguriamo, come ha fatto di recente a voce alta qualche
improbabile politico, che li si lasci affogare tutti. Dovremmo
forse anche capire che il mondo non più essere diviso
in due, e che le molteplicità sono la norma, una norma
vitale e colorata, con la quale è necessario, sebbene
difficile, misurarsi.
Nicoletta Vallorani
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