Fogli
e foglie per sentire il profumo dell'anarchia
Accaniti stampatori intemperanti, gli anarchici, le anarchiche,
con tutta una loro punteggiatura particolareggiata d'A cerchiata,
son sempre stati autodidatti contro gli Stati del comune senso
del pudore editoriale. Editavano schizzando temerari inchiostro
intemperante. Macchiavano di nero con vecchie macchine il destino
clandestino degli ultimi arrivati. Sperimentavano Altre e Alte
Libertà accendendo le micce dell'autoproduzione popolare,
costruendo la costituzione incostituzionale del nuovo Libro
Orizzontale.
È per questo che l'aria della microeditoria, oggi, profuma
d'anarchia!
Prendete fogli, foglie, timbri e stampe, prendete i libri truccati
e manipolati, strappati e ricuciti, scolpiti di collage, bucati
e bruciacchiati ad arte dall'affascinante folgore dell'autonomia
e, di nuovo, sentirete il profumo dell'anarchia. Uno sventagliar
di pagine particolari, un vento leggero e libero di libri che
si librano.
Troglodita Tribe
Serrapetrona (Mc)
troglotribe@libero.it
Expo 2015 / Alla Fiera dell'Ovest
Quando Letizia Moratti convocava conferenze stampa per parlare
dell'impegno profuso a favore di Expo 2015 a Milano, veniva
presa sottogamba.
Appena qualche anno più tardi, l'esercizio delle conferenze
stampa a favore di Expo veniva svolto con la medesima dedizione
da Enrico Letta. Non gli andò meglio. Forse l'ex Presidente
del Consiglio immaginava di potersi godere la ribalta mediatica
da premier in carica, al momento dell'esposizione universale.
Non ce l'ha fatta: tradito dai suoi vecchi compagni. Lo hanno
scaricato appena un competitore più forte s'è
fatto avanti.
Le dichiarazioni di Letta sull'Expo venivano, ovviamente, cestinate
nello spazio di una notizia. Nessuno poteva prendere sul serio
le promesse di una grande fiera, dalla quale sarebbero discesi
a ruota gli aumenti del PIL, il drastico calo della disoccupazione
e lo spettacolare rilancio dell'immagine turistico-commerciale
e socio-culturale dell'Italia nel mondo.
Già queste premesse basterebbero a non prendere sul serio
quando previsioni simili vengono ripetute dall'attuale Presidente
del Consiglio. La sorpresa è che queste dichiarazioni
vengono riportate molto più frequentemente dagli organi
di stampa al gran completo e prese sul serio da uno squadrone
di analisti (economisti, politologi, sondaggisti e immancabili
soubrette), che nemmeno i famigerati plastici del servizio radiotelevisivo
pubblico sui delitti irrisolti di casa nostra.
Come si può prendere sul serio cose di questo tipo? La
gran parte della forza lavoro cooptata per Expo non riceverà
alcun compenso (e ne riparleremo a brevissimo). L'allestimento
dei padiglioni ha scontato ritardi mostruosi e ancor più
mostruose inchieste su presunta sottrazione di denaro pubblico.
Non aiuta, poi, che lo scenario trionfante di questa esposizione
sia quello di un Paese che viene da otto anni di profondissima
crisi economica. Se nel 2007 ci avessero trasportato su un altro
pianeta, impossibilitati ad aver notizie del Bel Paese, tornando
oggi ci chiederemmo: ma che diavolo c'è da festeggiare?
Tutto il battage mediatico su Expo ha dell'incredibile.
La maggior parte delle imprese coinvolte ha scelto, facilitata
da un tessuto normativo ormai inaridito, un'opzione di reclutamento
delle lavoratrici e dei lavoratori davvero intrigante: stage,
o forme varie di tirocinio, assolutamente non retribuiti, come
grande opportunità formativa. Siamo all'assurdo.
Appena entrato in vigore il Jobs Act, siamo già al Jobs
Act 2.0. Non solo il tirocinante svolge a tutti gli effetti
delle normali mansioni lavorative (per la cui retribuzione sarebbe
bastato ricorrere a “normali” contratti di lavoro
a tempo determinato), non solo non viene pagato, ma gli si dice,
col sereno atteggiamento didascalico del caso, che è
un miracolo dell'intelligenza italica che non debba essere lui
a pagare l'impresa. Eh già... e quando ricapita una così
bella offerta formativa a costo zero? Con tutto quello che costano
i master, gli studi, i molteplici corsi di specializzazione?
Questo tirocinante è a tutto voler concedere un lontano
nipote del leggendario Charlie Chaplin di Modern Times: si sobbarca
una trasferta inaudita per poter lavorare; gli sono date mansioni
ripetitive, inumane e standardizzate sotto la soglia della sopportazione;
non riceve in massima parte compenso alcuno. Ma una bella pacca
sulla spalla e l'implicita richiesta di dover ringraziare.
Il lettore davvero smaliziato, gufo e cattivone, noterà
che: a) se lo scopo dell'attività di formazione è
abituare il soggetto che viene formato a ciò che farà
nella vita, non c'è da stare allegri; b) Modern Times
è un film del 1936, sebbene i distratti possano dimenticare
cosa casualmente successe esattamente tre anni dopo l'uscita
della pellicola. Sì, non c'è da stare allegri.
L'Expo si svolge, per altro verso, in un periodo di grandi difficoltà
civili e sociali per l'Italia. Il termine “difficoltà”
è certamente più neutro di “tensione”.
Ed è sinceramente anche più appropriato e preciso:
nonostante quanto sia successo in Italia perlomeno nell'ultimo
quinquennio, non si è ancora delineata una vera organizzazione
del disagio. Ne abbiamo due spie rivelatrici.
Tanto per cominciare, i diversi esecutivi succedutisi continuano
a riproporre, su molti punti qualificanti, le stesse politiche:
la corda viene tirata, non si vede all'orizzonte il momento
del suo spezzarsi. Il potere ha certo perso pudore, ma costitutivamente
il potere non fa da sé ciò che lo pone in una
condizione di minaccia e perdita di se stesso: si può
proseguire, finché non giunge l'altolà di una
pugnace opposizione. In secondo luogo, serpeggia in Italia una
certa fatalistica acquiescenza. Le cose così vanno (male)
perché così devono andare.
La dinamica della comunicazione politica industriale sta finalmente
realizzando il suo scopo fondativo, la ragion d'essere della
propria esistenza. Un potere paternalistico può limitarsi
a dire con sufficienza: le cose così vanno perché
così devono andare. Già il potere post-democratico
da Colin Crouch in poi si misurava e si misura con un altro
tipo di informazione: le cose così vanno (male) perché
così devono andare. Ora è in atto la terza fase:
le cose così vanno perché così devono andare
e si sappia che stanno andando bene, alla grande. Hegel, nelle
retrovie, è in gran fermento, perché alla fine
questo potere somiglia alle più distorte interpretazioni
della sua concezione idealistica.
Ciò che è razionale è reale, e ciò
che è reale è razionale. Il potere versione “Expo
2015” può conservare la stessa struttura grammaticale,
la stessa analisi del periodo. Ciò che è deciso
è ottimo, e ciò che è ottimo è ottimo
perché è in questo modo che è stato deciso.
Raccapricciante...
Domenico Bilotti
Rende (Cs)
Quando il denaro non è più lo sterco del diavolo
Dal 20 al 26 agosto 2015 si è svolto l'annuale meeting
di CL che si tiene a Rimini, polo turistico e del divertimento
senza freni, da 35 anni a questa parte.
E già ci si potrebbe chiedere il perché di una
location così tanto antinomica rispetto al messaggio
cattolico, dietro il quale la nota organizzazione nasconde il
suo operato.
Comunione e Liberazione è un movimento patrocinato da
Don Giussani che nasce da una costola dell'Azione Cattolica,
nelle aule del liceo classico Berchet a Milano, nel 1969.
Essa in nuce aveva un orizzonte di azione fortemente contrapposto
rispetto all'idea di rivoluzione social-comunista, ipotizzando
il raggiungimento della “liberazione” – ossia
la salvezza – tramite la comunione con Cristo.
Il 24 e il 25 agosto mi sono dunque recato al raduno, con l'obiettivo
di carpire il significato proprio di questa esperienza cristiana
secondo i giovani che la animano e di farne un reportage video.
I ragazzi e ragazze, tra i 16 e 22 anni, erano all'incirca tremila,
provenienti soprattutto dal Nord Italia.
Nonostante i continui tentativi di ostruzionismo da parte degli
organizzatori, affinché i volontari non rispondessero
alle mie domande – a loro detta – scomode e provocatorie,
sono riuscito comunque nel mio intento di inchiesta.
Il volontario ciellino deve tutto al movimento e ha cieca fede
in esso.
Quest'occasione rappresenta per lui un'enorme esperienza di
vita in cui cementifica il suo legame con gli altri militanti
– cosa che potrebbe poi tornargli utile in futuro.
Egli è smisuratamente coinvolto nel suo impiego, tanto
da non essere in grado di riconoscere la natura dello stesso,
equiparandolo a un comune servizio svolto a favore dei bisognosi.
Nonostante la quantità di denaro impiegata nel meeting,
di circa 8 milioni, all'organizzazione non basta solo sfruttare
il suo lavoro, ma per giunta non gli fornisce nemmeno vitto
e alloggio.
Sorprendente è stato il fatto che alla domanda su cosa
fosse la Compagnia delle Opere, nessuno degli intervistati sia
stato in grado di rispondere. Nessuno.
Mi sono quindi sentito in dovere, forse peccando di superbia,
di spiegare loro di cosa si occupasse quest'organizzazione con
la forza di una lobby e un peso economico superiore a quello
dell'Opus Dei.
Il CdO è una rete che comprende 36mila imprese con un
fatturato annuo pari a 70 miliardi.
Tale ente non può non intaccare il tessuto economico-finanziario
del nostro Paese, andando a inserirsi all'interno del sistema
politico e ponendo personaggi di rilievo del movimento in ruoli
chiave.
Dietro al finanziamento a sei zeri del meeting, troviamo le
più importanti aziende italiane e alcune note multinazionali:
Trenitalia, Fiat, Finmeccanica, Eni e Enel, Nestlè, Sky,
Gioco del Lotto e la Compagnia delle Opere sopracitata.
Tramite il ministro Mauro, alla difesa e il ministro Lupi, alle
infrastrutture, entrambi ciellini, per esempio Finmeccanica
e la Compagnia delle Opere, hanno ricevuto agevolazioni per
ciò che concerne la costruzione di armamenti militari
l'una e appalti pubblici l'altra.
Troviamo poi Intesa San Paolo, nota finanziatrice dell'industria
bellica.
Eni invece, multinazionale del petrolio, che ha costruito negli
anni la sua fortuna corrompendo i governi degli stati africani
produttori di greggio.
Scorrendo si arriva poi a Nestlé, condannata per sfruttamento
minorile e la commercializzazione di prodotti non idonei al
commercio nei paesi in via di sviluppo.
Gioco del Lotto infine, a cui è stata condonata un'evasione
fiscale per la pantagruelica somma di 7 miliardi.
Se durante la prima giornata di meeting mi sono occupato prevalentemente
della fenomenologia del volontario, la seconda ha coinciso con
il Renzi Day.
Seguendo il flusso di giornalisti veniamo rinchiusi e ghettizzati
all'interno di un'area transennata e sorvegliati a vista da
una coppia di militanti ottuagenaria.
Da sottolineare l'intransigenza delle due, che non permettevano
il deflusso dalla zona da loro supervisionata, per metà
coperta da una tettoia.
Ferve l'attesa e la tensione è palpabile, i volontari
si caricano a vicenda dandosi continuamente il cinque, mentre
i giornalisti divorano nicotina.
All'improvviso, il miraggio: “Matteo è fra noi!”.
La macchina – rigorosamente blu – scorta in lontananza
si fa sempre più vicina nel preciso momento in cui inizia
a diluviare. Gli operatori tutti fuggono dalla postazione esterna
ammassandosi al coperto per evitare di rompere le attrezzature.
Prontamente estraggo l'ombrello rosso datomi in dotazione da
mia madre e lo porgo al mio operatore di ripresa: siamo stati
dunque gli unici a riprendere l'arrivo dell'attesissimo Premier,
con grande invidia delle più grandi emittenti italiane.
Prontamente i volontari, stringendosi le mani, fanno cordone
insieme ai carabinieri, affinché “Matteo, Matteo!”
possa arrivare illeso alla sua destinazione. La calca è
asfissiante. È guerra: cameramen e giornalisti si azzuffano
alla ricerca di un'immagine o di una parola del “Nostro”.
Renzi invece sta sereno e continua a salutare: saluta, saluta,
saluta, ma chi saluta? Sorrideva e salutava persino verso il
muro, come fosse matto, ma lo spettatore a casa non se ne accorgerà.
Si avvicina verso me e abbraccia un signore, che scopro poi
non abbia mai incontrato in vita sua: per le telecamere questo
e altro.
La mia voce viene timidamente sopraffatta, nel tentativo di
chiedergli se fosse venuto a caccia di voti, dalle grida osannatrici.
Una ragazzina mi si para davanti e, con voce rotta dall'emozione
esclama: “Mi ha toccato la mano” e si allontana
piangendo; una scena al confine del biblico, in cui Renzi non
può che interpretare Gesù Cristo.
Procedendo per sillogismi appare dunque evidente il significato
di tale comportamenti; Renzi rappresenta il potere, CL lo brama,
i ciellini adorano Renzi – forse non solo metaforicamente.
Il vero volto di Comunione e Liberazione si cela dunque dietro
un crocifisso.
L'interesse – in primis quello economico – è
il fondamento sul quale si basa la rete di scambi di favori
di questo sistema, le cui sfumature ricalcano non poco quelle
di una cosca. Viene inoltre abbandonato il principio di carità
a favore del profitto, facendo circolare cifre esorbitanti tanto
che “se Gesù Cristo fosse vivo si vergognerebbe
delle tonnellate d'oro e delle loro banche”.
Dice Papa Francesco – Papa Francesco I per l'esattezza
– : “La logica del profitto è come un brutto
virus che colpisce la testa.”
Tommaso Proverbio
Milano
Ma gli anarchici devono essere liberisti?
Cari compagni, scrivo per esprimere un'insoddisfazione,
che mi coglie ogni qualvolta il nostro giornale parla di temi
economici. Mi pare infatti che faccia difetto una critica anarchica
dell'economia dominante, e che si esprimano sempre posizioni
subalterne rispetto a quelle della sinistra statalista. Mi riferisco
in particolare alla polemica nei confronti del cosiddetto “neo-liberismo”.
Premetto che, a mio avviso, un anarchico, indipendentemente
dalla scuola di appartenenza, non può che essere “liberista”,
ossia favorevole alla libertà in ogni campo, e quindi
anche in campo economico. Tertium non datur, o si ritiene
che ognuno sia libero di intraprendere come vuole, anche a livello
di comunità, ovvero si ammette che vi sia un'autorità,
la quale sia incaricata di stabilire quando si possa intraprendere
e quando no.
Lungi da me difendere gli attuali capitalisti, soprattutto quelli
di grande dimensione. Solo che mi aspetterei che, in una rivista
anarchica, si mettesse di più in luce come tale grande
capitale sia in primo luogo complice del gigantesco potere dello
Stato per accumulare ingiusti profitti.
Non v'è oggi grande impresa che non sia ammanicata,
in un modo o nell'altro, con lo Stato. Si pensi all'industria
degli armamenti, all'energia (trilioni di dollari di
sussidi alle industrie petrolifere, con ogni conseguenza in
termini di attentato all'ambiente), alla grande finanza
too big to fail, ai grandi concessionari di opere pubbliche,
ma anche alle industrie statualmente protette da brevetti, marchi
e copyright.
Esiste poi la questione del monopolio della moneta; questione
tanto più attuale alla luce delle vicende relative allo
strapotere della BCE e di altre banche centrali. Che cosa hanno
da dire gli anarchici su questo argomento? Marx ha scritto migliaia
di pagine sul denaro senza accorgersi che stava trattando un
monopolio statale e non un prodotto del mercato, mentre invece
Proudhon, Warren e Tucker se ne erano accorti. Perché
non valorizzare tale filone? Del resto, anche nel più
estremo dei comunismi vi sarà libertà di concorrenza,
perché gli uomini sono ontologicamente divisi, anche
se interagenti in una Terra comune. L'opposto di comunismo non
è capitalismo, ma monopolio. Il capitalismo è
la fase di passaggio tra il monopolio e il comunismo, e questo
Marx l'aveva appena intuito negli accenni “anarco-capitalisti”
dei Grundrisse.
Oggi non vige nulla di tutto ciò, non abbiamo alcun liberismo,
vecchio o nuovo, ma solo idiocrazia (da “idion”, “privato” in greco), ossia il dominio di signori
privati che usano la forza per sottrarsi alla concorrenza.
Saluti libertari.
Fabio Massimo Nicosia
Milano
Dibattito ricerca scientifica.1/ Appropriarsi della scienza
All'articolo di Philippe Godard sul tema della scienza (“Basta
con la ricerca scientifica!”, “A” 397,
aprile 2015) è già seguita una risposta di Marco
Cappato (“Ricerca scientifica. Altro che bloccarla, lottiamo
per la sua libertà”, “A” 399, giugno
2015). Ospitiamo qui di seguito altri due interventi su questo
argomento.
Ben volentieri recepiamo l'invito al dibattito apparso su A
Rivista numero 397 in merito all'articolo di Philippe Godard
sulla ricerca scientifica. Da tempo pensiamo che sia necessario
avviare una riflessione in campo anarchico in merito alla questione
della scienza e della tecnica, sia nei risvolti applicativi
della metodologia scientifica, le tecnologie, che nel merito
della metodologia scientifica in sé e per sé.
È oramai fatto accertato che l'ultimo secolo e mezzo
di storia umana abbia visto una profonda accelerazione sia delle
scoperte scientifiche “di base” che dell'invenzione
di tecnologie basate sulle scoperte stesse. Questa accelerazione,
riscontrabile in più campi, si è sviluppata insieme
all'attuale sistema sociale, basato su determinati rapporti
di produzione, ma al contempo mostra i limiti dell'ambiente
stesso in cui si è sviluppata.
Al contrario di Godard noi non crediamo che la “scienza”
sia legata in modo inestricabile ad un sistema di dominio. Intanto
bisogna capire di che cosa stiamo parlando: la scienza non è
un oggetto, o meglio una collezione di oggetti-nozioni, ma bensì
è un metodo. La metodologia scientifica è, a nostro
modo di vedere, una metodologia intrinsecamente libertaria:
l'onere della prova, la falsificabilità, la verificabilità,
la riproducibilità, ovvero i capisaldi dei modelli di
spiegazione scientifici, hanno sostanzialmente permesso di strappare
dalle mani dei sacerdoti la spiegazione del mondo eliminando
l'autoritaria dimostrazione per ipso-dixit e facendo
stracci dei modelli finalisti e teologici cari alla tradizione
cristiana e in generale alle tradizioni trascendentali.
Se pensiamo alla storia del pensiero umano come ad una storia
di successioni di diversi modelli di spiegazione del mondo non
possiamo non notare quella gigantesca linea di frattura, frastagliata
certo, che separa l'epoca medioevale in cui tutto veniva ricondotto
all'azione divina dall'epoca moderna in cui i modelli di spiegazione
del mondo devono essere continuamente rimessi in discussione
e non peccano di una visione finalistica e antropocentrica.
È caratteristica intrinseca della scienza stessa il mettersi
continuamente in discussione da un punto di vista dialettico.
Basti pensare all'evoluzione delle teorie in campo fisico: dal
modello meccanicista-classico newtoniano alle formalizzazioni
dell'elettromagnetismo di Maxwell alla formulazione della teoria
della relatività alla fisica quantistica. O ancora ai
diversi modelli di spiegazione dei fenomeni biologici che si
sono susseguiti dall'inizio dell'età moderna ad ora,
dalla teoria degli umori alle più recenti scoperte nel
campo della genetica e al legame tra genetica e stimoli ambientali.
Ogni teoria scientifica, invero, contiene il germe del suo stesso
superamento dialettico. Nei fatti anche i modelli più
formalizzati da un punto di vista logico-matematico sono per
loro stessa natura incompleti o incoerenti (semplificando fino
alla brutalizzazione il teorema dell'incompletezza di Goedel)
e quindi destinati ad essere superati.
Quindi la scienza è neutrale? No, affatto, anzi: la scienza
è di parte in quanto per sua natura mistifica e supera
modelli di spiegazione non più atti allo scopo. E in
questo contiene anche le possibilità di superare un modello
di organizzazione sociale basata sul dominio.
Ma la ricerca scientifica avviene ovviamente all'interno di
una società che, al momento attuale, ha trai suoi principi
cardine quello del dominio dell'uomo sull'uomo e dell'uomo sull'ambiente.
Chi si occupa di ricerca vive all'interno di un certo zeitgeist
ed è attraversato da certe strutture sociali e tenderà
a riprodurle.
Ma questo non elimina un fatto fondamentale: la tecnologia e
la scienza hanno un immenso potenziale di emancipazione che
è al momento posto sotto sequestro dal capitalismo. Sulla
scorta di svariati pensatori possiamo tranquillamente affermare
che le storture sociali che viviamo sono dovute al permanere
di una condizione di scarsità, per quanto sempre più
artificiosa rispetto al passato, dovuta a dei particolari rapporti
di produzione. Liberare le forze emancipatrici della tecnologia
e indirizzarle verso un uso liberatorio significa liberare l'uomo
dalla schiavitù del lavoro salariato e dalla schiavitù
derivata dal mancato soddisfacimento dei propri bisogni primari.
Nei fatti la questione non è bloccare o meno la ricerca
scientifica ma strappare la ricerca scientifica dalle mani dei
detentori dei mezzi di produzione.
Una società anarchica che voglia essere includente e
universabilizzabile non potrà basarsi su paradigmi primitivisti:
tornare ad un presupposto stato di natura per liberarsi dalle
catene del capitale significa solamente incatenarsi ad un modello
di vita meschino, abbruttito e, in ultima analisi, non desiderabile.
Il primitivismo è, a nostro parere, un paradigma estremamente
autoritario in quanto è vivibile solamente da quegli
individui che hanno la ventura di nascere sani. E non raccontiamoci
che un principio di solidarietà farebbe in modo che questi
individui vivrebbero protetti dalle proprie comunità:
con certe malattie, senza un adeguato supporto medico, semplicemente
muori. Soffrendo. Dovrebbe essere quindi una forma passivizzata
e artificiosamente naturale di eugenetica la nostra proposta?
Tra le spire del capitale e fuori
Il vero limite, come già ricordato, risiede nelle strutture
sociali all'interno delle quali si ritrova ingabbiata la ricerca
scientifica e non in un problema epistemologico.
L'attuale modo di produzione e i rapporti di produzione hanno
relegato le applicazioni della scienza alla progettazione e
alla realizzazione di beni di consumo di massa o di beni di
distruzione, intrappolando la tecnologia all'interno di cicli
di distruzione-produzione tipici del modo di produzione capitalista.
Appropriarsi dei saperi tecnici e della metodologia scientifica
significa dotarsi di un potentissimo strumento e privare il
nemico dei vantaggi derivanti dalla detenzione di certe tecnologie
strappandole al monopolio delle strutture sociali autoritarie.
Ora, intendiamoci, uno dei maggiori volani delle scoperte scientifiche
dalla fine del XIX secolo è stato il complesso militare-industriale
in quanto è quello che detiene le risorse necessarie
a finanziare la ricerca scientifica. Ma, attenzione, le strutture
autoritarie hanno dovuto inventarsi una serie di escamotage
per ingabbiare un metodo che non è loro. Si pensi ai
vari metodi per bloccare la libera diffusione di informazione
e applicazioni tecnologiche, anche fondamentali per la sopravvivenza
delle persone come i farmaci, tramate l'apparato di brevetti,
copyright, imposizioni di segretazioni sulle ricerche.
Il metodo scientifico è anche quello che ha permesso
l'aumento della qualità della vita per miliardi di persone,
debellato epidemie, ridotto le carestie, creato infrastrutture
resilienti alle calamità; il metodo scientifico è
ciò che permette di individuare in modo preciso l'orrore
della società capitalista: si pensi al ruolo delle scienze
sociali nel denunciare l'orrore di una società basata
sull'accumulazione di denaro o al ruolo delle scienze naturali
nel denunciare la distruzione dell'ecosistema.
A meno che non si preferisca credere alle panzane delle scie
chimiche e dimenticarsi dell'effetto serra e del global warming
è evidente che la prospettiva politica dell'anarchismo
deve necessariamente legarsi all'uso di metodologie scientifiche.
E non affermiamo di certo una novità in campo anarchico
e libertario: si pensi a figure come Reclus o alla formazione
scientifica di un Kropotkin o a pensatori come Bookchin.
La vera questione è: perché in un secolo e mezzo
di movimenti sociali organizzati non siamo stati in grado di
strappare la ricerca scientifica dalle mani del nemico? Per
quale motivo, al posto di usare la tecnologia per meccanizzare
i lavori ripetitivi e pesanti e liberare il tempo per individui
e comunità, permettiamo che questa tecnologia venga usata
per asservire e disciplinare la forza lavoro o per estromettere
milioni di individui nei vari momenti di ristrutturazione del
capitale?
Per quale motivo, al pari della volpe di fedriana memoria davanti
all'uva troppo alta, abbiamo preferito raccontarci la storiella
autoconsolatoria, vero vessillo di impotenza, della scienza
costitutivamente cattiva al posto di riflettere seriamente sulle
modalità di azione da adottare davanti alla barbarie
dello stato e del capitale?
Lorenzo Coniglione
Reggio Emilia
Dibattito ricerca scientifica.2/ Ma la scienza va socializzata
L'articolo di Philippe
Godard (“A” 397, aprile), anche a prescindere
dalla specifica proposta di arrestare la ricerca scientifica,
mi sembra inserirsi in una diffusa atmosfera di diffidenza,
quando non addirittura avversione, nei confronti della scienza
e, soprattutto, della tecnologia. Una tale atmosfera è
chiaramente avvertibile anche all'interno del movimento anarchico,
come dimostra, solo per portare un esempio recente, l'accesa
polemica sulla vaccinazione che ha avuto luogo nelle scorse
settimane sulle pagine di Umanità Nova.
Vorrei quindi partire da alcuni specifici aspetti dell'articolo
di Godard (che sintetizzerò in corsivo all'inizio di
ogni sezione) per proporre alcune considerazioni personali di
carattere più generale.
– La scienza è una spiegazione astratta del
mondo reale. La scienza si basa effettivamente sull'astrazione,
cioè prescinde da una serie di caratteristiche concrete
ed individuali che giudica (magari a torto: da ciò la
possibilità di errore) irrilevanti per la comprensione
dei fenomeni. Si concentra, invece, su altre caratteristiche,
per lo più di natura quantitativa (donde l'importanza
della matematica), che ritiene più adatte ad individuare
la costanza o la regolarità dei fenomeni studiati oppure,
cosa altrettanto rilevante, le connessioni con altri fenomeni
apparentemente diversi o relativi ad ambiti distinti. L'astrazione,
quindi, è in realtà solo un mezzo per elaborare
generalizzazioni corrette; prescinde dagli aspetti individuali,
ma senza per questo necessariamente svilirli.
Di per sé, infatti, la scienza non esclude altri tipi
di approcci, incentrati sulla comprensione concreta, particolareggiata,
del singolo evento e, ancor più, della singola persona.
Non si tratta di approcci che si autoescludono, ma che al contrario
si completano: lo stesso fenomeno può essere analizzato
sia da un punto di vista astratto e generalizzante che da uno
mirato all'individualizzazione e alla ricerca del particolare.
Nel primo caso andranno perse moltissime sfumature, magari anche
fondamentali; nel secondo caso andrà persa invece la
possibilità di individuare relazioni e costanti.
Ora, se uno scienziato nega la validità di ogni altra
spiegazione che non sia quella prevista dalla scienza (o, peggio
ancora, dalla sua particolare disciplina scientifica), ciò
rivela un suo personale limite intellettuale, non un limite
intrinseco della scienza come disciplina rivolta all'acquisizione
di uno specifico tipo di conoscenza. Singolare che proprio Godard
assuma (probabilmente solo a scopo polemico) il punto di vista
di questo ipotetico scienziato di corte vedute, quando sostiene
che, se ci fosse davvero una teoria unificata, non potremmo
più pensare al di fuori dei canoni scientifici. E perché?
Cosa lo impedirebbe?
– La scienza ha acquisito autonomia rispetto ad ogni
altro ambito umano. In primo luogo, questa è, a sua
volta, proprio un'affermazione astratta, che fa della
scienza una sorta di entità indipendente, autonoma rispetto
agli esseri umani reali che la praticano e la sviluppano quotidianamente.
In secondo luogo, è un'affermazione scorretta. Il vero
problema (riconosciuto del resto anche da Godard nel suo scritto
e nella sua risposta a Marco Cappato in “A” 399,
giugno), semmai, è proprio che la ricerca scientifica
è ormai completamente asservita alle esigenze del sistema
di dominio e di sfruttamento e non è mai lasciata libera
di perseguire il proprio autentico intento conoscitivo, anche
a prescindere dall'eventuale utilità o profitto immediato
che le classi dominanti possano trarne. È tale sistema,
non la scienza in sè, a sostenere la tecnologia nucleare
e la produzione di OGM.
Nel capitalismo ogni cosa viene mercificata, cioè prodotta
non tanto per soddisfare un bisogno quanto per realizzare un
profitto. Ciò vale per qualsiasi attività e tuttavia
non possiamo certo pensare di bloccare, per esempio, la produzione
di abiti e rinunciare a vestirci, solo perché questi
vengono prodotti al fine primario di realizzare un profitto
e perché l'industria dell'abbigliamento è in grado
di condizionare con le mode milioni di persone, inducendo falsi
bisogni funzionali all'incremento di tale profitto. Possiamo
invece pensare ad un nuovo modo di produrre e distribuire abiti,
in un contesto sociale dove il primo obiettivo sia soddisfare
un bisogno, non vendere l'ennesimo paio di scarpe.
Anche la scienza, in questo sistema sociale, deve produrre le
sue particolari “merci”, cioè scoperte e
relative applicazioni remunerative. Le ricerche fini a se stesse
o senza un'immediata ricaduta applicativa, la cosiddetta “ricerca
pura”, vengono pesantemente sfavorite in termini di finanziamento
e riconoscimento sociale di chi le svolge, come possono confermare
migliaia di ricercatori condannati al precariato e a remunerazioni
ridicole. Oppure basta pensare, per fare un esempio che rasenta
il luogo comune, all'abbandono in cui versano le ricerche di
terapie per malattie che interessano le popolazioni più
povere del pianeta, non in grado di pagare i farmaci eventualmente
derivati da tali ricerche.
Oltre a ciò, esiste un altro fattore che determina la
perdita di autonomia della scienza e che potrebbe condizionarla
anche in una società non più asservita al profitto:
ormai la ricerca è impossibile senza una strumentazione
tecnologica sofisticata ed enormemente costosa. Tale dotazione
tecnologica può essere finanziata solo dalle istituzioni
pubbliche o da grandi consorzi privati. È questo che
lega la scienza al potere ed al denaro, non la sua particolare
strategia conoscitiva.
L'obiettivo da perseguire, quindi, è la socializzazione
del patrimonio tecnologico per impiegarlo secondo le esigenze
dell'uomo, non secondo i dettami del capitale. Auspico una società
nella quale gli scienziati autogestiscano i propri “mezzi
di produzione” (i laboratori) e contrattino con gli altri
corpi sociali il finanziamento, le condizioni e, soprattutto,
gli orientamenti della ricerca.
L'autonomia della scienza è, quindi, non un male, ma,
al contrario, un obiettivo da perseguire. Forse che l'arte,
la letteratura, l'etica non rivendicano anch'esse (e giustamente!)
la propria autonomia rispetto alle pressioni sociali? E proprio
per essere più autentiche?
– La scienza non mira più alla felicità
e all'emancipazione, ma solo al sapere e al potere.
La scienza deve mirare solo al sapere (al suo peculiare tipo
di sapere, s'intende). Sta poi alla saggezza dell'uomo,
e alla sua organizzazione sociale, orientare tale sapere in
vista della felicità e dell'emancipazione e non
in vista del dominio e dello sfruttamento.
In questo senso la proposta di fermare la ricerca mi pare inutile.
In primo luogo, non sarebbe veramente realizzabile senza un
radicale cambiamento della struttura sociale attuale. D'altro
canto, se si riuscisse a cambiare tale struttura, fermare la
ricerca sarebbe irragionevole, dal momento che potrebbe essere
finalmente indirizzata a scopi socialmente utili.
– Alla scienza occorre contrapporre una visione olistica.
Non c'è bisogno di contrapposizione. La scienza
deve essere integrata con una visione olistica del mondo, che
non si limiti all'analisi di ambiti sempre più
ristretti e, soprattutto, sappia meglio rendere conto del dinamismo
intrinseco della realtà, che nella sua complessità
sfuggirà sempre, almeno in parte, a qualunque teoria
scientifica. Bisogna, però, anche riconoscere che oggi
una tale visione olistica rimane ancora solo allo stato di aspirazione,
soprattutto se si rifiuta (come giustamente fa Godard) ogni
soluzione misticheggiante o New Age; ed in ogni caso, anche
una visione olistica deve affrontare la verifica, la smentita
o, più modestamente, l'approssimazione ai fatti.
Un conto è contestare la limitatezza (e, spesso, la presunzione
e mancanza di umiltà) degli specialisti, che rinchiudono
il mondo negli schemi della loro, spesso ristrettissima, disciplina.
Ben altro è però contestare la specializzazione
stessa in quanto strumento intellettuale utile per incrementare
l'efficacia conoscitiva della scienza: il problema, ancora una
volta, non è l'esistenza di un limite (l'astrattezza,
la specializzazione o quant'altro) di un qualsiasi approccio
al mondo, ma l'assenza di consapevolezza di tale limite, che
inevitabilmente induce a creare una gabbia mentale, anche al
di là delle intenzioni individuali.
Oltre alla visione olistica, non bisognerebbe poi dimenticare
la filosofia; sono esistite diverse scuole filosofiche (lo scienziato
anarchico Kropotkin, per esempio, aderiva ad una di queste)
che, in vario modo, hanno considerato compito precipuo della
filosofia proprio la ricerca di quegli elementi (sia formali
che sostanziali) comuni alle più diverse attività
umane (fra cui, ovviamente, anche la scienza), al fine di elaborare
una visione del mondo coerente ed armonica, per quanto sempre
suscettibile di modifica e perfezionamento in corrispondenza
alle dinamiche della realtà naturale e sociale. L'approccio
filosofico è, anch'esso, limitato nella misura in cui
presuppone che esista veramente una tale coerenza razionale
del mondo, cosa improbabile; ma la sua capacità di elaborare
un'immagine complessiva, in grado di ridimensionare ogni pretesa
egemonica di un singolo approccio particolare, non va comunque
svalutata.
– La scienza mira solo al dominio del mondo e, quindi,
non può essere utilizzata in un percorso di emancipazione.
La scienza offre strumenti e tecniche che possono essere
diversamente utilizzati in relazione allo scopo che si persegue.
Non è una forma di conoscenza inevitabilmente condannata
a rafforzare le strutture di dominio. Per esempio, il movimento
No Tav, fin dalla sua nascita, accompagna alle mobilitazioni
di massa anche un'analisi prettamente scientifica sull'inutilità
e nocività dell'alta velocità (il cosiddetto
“dissenso esperto”). Tali analisi, riconosciute
come di elevata qualità anche dagli avversari in buona
fede, sono svolte proprio da fisici, geologi ed ingegneri (per
lo più del Politecnico di Torino, cioè una delle
strutture accademiche più direttamente sottoposte alla
pressione per ricerche orientate esclusivamente al profitto).
Al di là della specifica proposta, comunque, mi sento
di contestare proprio l'assunto di fondo della tesi di Godard.
La scienza, insieme naturalmente alla socializzazione delle
sue applicazioni tecnologiche, non ostacola ma favorisce un
reale percorso di emancipazione: non solo dal dominio e dallo
sfruttamento, ma anche (per quanto possibile) dalla fatica,
dalla malattia e dal dolore.
Non la scienza da sola, naturalmente; la stessa libertà
della ricerca scientifica va inserita in un più complessivo
processo di emancipazione umana. Ma su questo, credo, non ci
sono divergenze.
Massimiliano Barbone
Bergamo
emmebi@inventati.org
L'anarchia contro il digitale: mini-manifesto per la ricerca
futura
Affinché il movimento sia pieno di naturalezza, pur
nell'artificio di un linguaggio raffinato che si protende al
sublime, è necessario coinvolgere i differenti piani
dell'essere (fisico, emotivo, mentale) per ottenere con fluidità
un'unità olistica di cui spesso neanche si è del
tutto consapevoli.
Fabio Grossi (ballerino)
L'anarchia, qualsiasi forma prenda, non può sposarsi
con il lavoro: è sempre una disgiunzione “anarchia
o lavoro” e mai una congiunzione “anarchia e lavoro”.
Se una congiunzione è vera quando lo sono entrambi i
congiunti... beh, allora dimentichiamoci questo sodalizio. Sappiamo
perché, dopo infinite ricerche sul tema, e ormai non
ha più senso ricordarlo: ma ha invece senso riaffrontare
il discorso in chiave “digitale” - vengo e mi spiego.
Gli anarchici contemporanei hanno visto nell'era digitale, se
usata con le giuste precauzioni, una grande risorsa: le analisi
di Colin Ward hanno fatto scuola in tal senso, ma pensiamo anche
più in generale a come la comunità anarchica abbia
sempre considerato positivamente tentativi open source, per
non parlare di Linux. Il motivo è nobile: il dono attraverso
il web che consente di sperimentare economie alternative, comunità
in dialogo, resistenza al dominio dei colossi informatici (che
oggi sono, senza mezzi termini, i centri nevralgici del potere
organizzato). Eppure ciò che i primi anarchici dell'era
digitale non potevano vedere è come l'epoca contemporanea
sia riuscita, de facto, a compiere l'assoluta dittatura del
lavoro anche quando non si lavora.
Byung-Chul Han ha sostenuto che attraverso il digitale cade
completamente la distinzione tra luogo di lavoro e di non lavoro: “ciascuno si trascina appresso il posto di lavoro come
un campo di lavoro. Così, non possiamo più sfuggire
al lavoro”. Hanno reso possibile la mobilitazione totale
tanto auspicata durante il nazismo.
L'anarchia si trova dinnanzi a una sfida che è, addirittura,
più complessa di quelle che ha dovuto affrontare nel
passato: il web, con la sua emancipazione parziale, in realtà
esalta ed estende la mercificazione del nostro tempo. Lavoriamo
ovunque, e dunque anche gli spazi anarchici residuali - quelli
che Gilles Clément definisce “Terzi paesaggi”
- vengono a mancare, perché il luogo del potere, ovvero
dello Stato, non ci lascia mai, viene insieme a noi: c'è
campo ovunque (e se non c'è è una tragedia), i
telefonini sono ovunque, la rete è appunto “una
rete”: intrappola. Basterebbe scollegarsi? Teoricamente
si, in pratica è verso l'impossibilità di scollegarci
che stiamo andando: orologi digitali (tipo Apple Watch), occhiali
(tipo Google Glass), innesti biomeccanici postumani, sono ciò
che rende la vita umana un “apparato umano” da cui
è impossibile scindersi.
Ora, diciamolo senza girarci attorno, più Homo Sapiens
evolve, più diventa improbabile l'anarchia: globalizzazione
e digitale sono, congiuntamente, dei nemici (quasi) imbattibili.
L'anarchia con il suo sogno di micro-comunità
organizzate cade dinnanzi all'enormità della statalizzazione
al di là dello Stato, dell'economia a sistema
nervoso decentralizzato, della perdita di ogni specificità
in favore di un'omologazione dell'umano planetaria.
Sulla soglia del digitale come lavoro totalizzante si innesta
un nuovo campo di ricerca per i teorici dell'anarchia
che è, onestamente, ancora tutto da esplorare - eppure
dobbiamo cominciare subito, nessun lusso al rimandare. Si potrebbe
pensare a un “principio Thoreau” tale per cui
lo scollegamento totale (un ritorno alla lentezza) sia l'unica
possibilità adesso, qui e ora, prima che il collegamento
coatto di cui dicevo prenda il sopravvento accelerazionismo
scia di Noam Chomsky o Robert Paul Wolf, se l'anarchia
sia possibile o quanto tale modello politico sia aderente alla
natura umana. Si tratta di capire quali siano le differenze
tra movimento e nomadismo: pensare il nostro futuro, il futuro
anarchico, comincia proprio da qui.
Leonardo Caffo
Torino
Podemos/Botta... Ma i pregiudizi non servono
Il panorama politico e sociale della Spagna è cambiato
parecchio in meno di un lustro. Bastano due fotografie per rendersene
conto. Prima fotografia: maggio 2011, le piazze spagnole sono
invase da migliaia di persone che pacificamente chiedono un
cambiamento politico, sociale e culturale. È il movimento
del 15-M, internazionalmente noto come movimento degli indignados.
Non sventolano bandiere di nessun tipo, al massimo quelle della
Seconda Repubblica spagnola. Ci sono solo cartelli fatti a mano
con le scritte più disparate. Lo slogan più gridato
è “No nos representan” (“Non ci
rappresentano”). Si condanna il sistema politico che
ha portato alla crisi economica, alle misure di austerità,
al dramma degli sfratti, alla mancanza di prospettive per le
nuove generazioni. Non a caso uno dei movimenti che convocò
le prime acampadas nella madrilena Puerta del Sol si
chiama Juventud Sin Futuro (Gioventù Senza Futuro).
Seconda fotografia: giugno 2015, migliaia di persone si raccolgono
spontaneamente nelle piazze di molte città della penisola
iberica e festeggiano la formazione di alcune delle nuove giunte
comunali. Si tratta di comuni che, dopo i risultati delle elezioni
amministrative del 24 maggio, iniziano ad essere governati da
liste civiche formate da movimenti sociali, partiti di sinistra
e semplici cittadini: Ahora Madrid e Barcelona en
Comú nelle due metropoli della Spagna, Por Cádiz
Sí Se Puede a Cadice dove il tasso di disoccupazione
è superiore al 40%, Zaragoza en Común a
Saragozza, la Marea Atlántica, Compostela Aberta,
Ferrol en Común nelle città galiziane di La
Coruña, Santiago de Compostela e El Ferrol... In
molti casi, poi, si tratta di comuni che erano stati governati
per vent'anni o più dalla destra neoliberista
e turbocapitalista del Partito Popolare di Aznar e Rajoy. Nelle
piazze c'è allegria, c'è speranza.
Lo slogan più gridato in questo caso è “Qué
sí que nos representan” (“Sì che
ci rappresentano”). E le persone, in molti, moltissimi
casi, sono le stesse che erano nelle piazze in quella calda
primavera del 2011.
Le fotografie colgono un momento – un cambiamento senza
dubbio epocale per la Spagna –, ma non riescono a spiegare
quel che c'è stato nel mezzo. In questi quattro anni
c'è stato il riflusso del movimento degli indignados.
Un movimento che non poteva continuare nella modalità
dell'occupazione sine die delle piazze e che si è
radicato nei quartieri portando avanti lotte quotidiane e concrete,
in modo simile, con tutte le differenze del caso, a quanto successo
negli Stati Uniti con Occupy Wall Street. C'è
stato il rafforzamento della lotta contro gli sfratti per mutui
ipotecari (oltre 500 mila dal 2007 al 2013 in Spagna) con la
Plataforma de Afectados por la Hipoteca. Ci sono state
le mareas, quella bianca della sanità pubblica, quella
verde della scuola, quella azzurra in difesa dell'acqua pubblica,
quella gialla in difesa del sistema biblitoecario... Di tutto
questo ne avevamo parlato in un articolo pubblicato su questa
rivista nell'estate del 2013 (“Spagna.
Due anni dopo” in “A” 382, estate 2013).
C'è stato anche l'approfondimento di una crisi che ha
colpito duramente una popolazione di oltre 47 milioni di abitanti:
la disoccupazione ha superato il 25%, pari a quasi sei milioni
di persone, e ora si attesta su un drammatico 23,4%. C'è
stata la morsa del governo di Rajoy, che dispone dal novembre
del 2011 della maggioranza assoluta in Parlamento, con dosi
massicce di austerità – sempre secondo il lemma
dell'”avete vissuto al di sopra delle vostre possibilità”
– unite a dosi sempre maggiori di repressione, culminata
con la recente approvazione della Riforma del Codice Penale
che punisce duramente qualunque minimo tentativo di proteste
e financo di libertà di espressione. C'è stato
poi l'emergere della questione catalana con le grandi manifestazioni
dell'11 settembre degli ultimi anni che hanno portato nelle
strade di Barcellona oltre un milione di persone che hanno chiesto
a gran voce l'indipendenza della Catalogna. C'è stato
a inizio del 2014 la nascita di Podemos, partito che si è
proposto come erede delle rivendicazioni del movimento del 15-M
e delle differenti lotte in difesa del Welfare: alle elezioni
europee del maggio 2014 Podemos ha raccolto oltre un milione
di voti, a inizio 2015 i sondaggi lo consideravano il primo
partito in intenzione di voto e alle elezioni amministrative
di maggio ha ottenuto buoni risultati, attestandosi come terza
forza nella maggior parte delle regioni (alle comunali non si
presentava in solitario, ma solo in alcuni casi all'interno
di liste civiche di confluenza).
Il panorama, insomma, è cambiato velocemente. E continua
a cambiare molto velocemente. Provare ad immaginare cosa succederà
nei prossimi mesi può essere paragonabile al tentativo
di fare tredici alla schedina o di vincere all'enalotto. Il
tutto, spesso, si converte in uno scetticismo assoluto o in
un atto di fede, a seconda delle idee che si professano. Credere
o non credere alla possibilità di un cambiamento, in
fin dei conti. A che prezzo, però? Con quali metodi?
Con quali fini? Su Podemos si è scritto molto ultimamente,
anche in Italia. Cos'è Podemos, in realtà? Niente
di più di un nuovo progetto riformista e socialdemocratico?
O è piuttosto una reale possibilità di cambiare
le cose, di maggiore giustizia sociale, di una società
più libera e egualitaria? È un progetto aperto,
basato sulla democrazia diretta, dove i cittadini possono prendere
la parola e partecipare o è un partito novecentesco guidato
da un “leader” e con una burocrazia di partito che
vuole semplicemente sostituire quelle esistenti nell'amministrazione
della cosa pubblica? Insomma, in cosa si convertirà Podemos?
Ci sono opinioni diverse al riguardo, come è normale
che sia. Opinioni, spesso, preconcette. Il che è lecito,
sia chiaro, ma è poco utile. È ancora troppo presto
per poter dare una risposta a queste domande: sarà il
futuro a fornircele ed allora ci saranno le schiere di saggi
e provvidi opinionisti che ci diranno “ve l'avevamo detto”.
Quello che molto umilmente si può fare è osservare
criticamente, cercando, quando e se possibile, di agire nel
presente per fare in modo che le cose vadano in una direzione
e non in un'altra. È fatica sprecata? È lo sforzo
inutile di Sisifo? Potrebbe esserlo, come spesso lo è
stato nella storia delle classi sfruttate. Ma potrebbe non esserlo
e, se così fosse, con questo nostro “rifiuto a
prescindere” ci porteremmo sulla coscienza la responsabilità
di non aver dato il nostro appoggio per spingere quel masso
sulla cima del monte e per fare in modo che non rotoli un'altra
volta a valle. Sfidare gli dei è sempre stata un'ardua
e difficile impresa. E ha spesso voluto dire scendere a compromessi,
perché da soli, checché se ne dica, non ce la
si può fare. Per bloccare l'avanzata del fascismo, la
CNT è entrata nel governo della Seconda Repubblica spagnola
dopo lo scoppio della Guerra Civile e ha deciso coraggiosamente
di difendere una repubblica “borghese”. Per sconfiggere
il nazifascismo, molti militanti anarchici e libertari italiani
hanno lottato nelle montagne con i partigiani comunisti, socialisti,
azionisti, liberali e anche monarchici. Per sconfiggere il neoliberismo,
l'austerità e il dominio dei mercati – che sono
il fascismo del XXI secolo – non varrebbe la pena, almeno,
porsi la questione della possibilità di appoggiare, per
quanto criticamente e senza assegni in bianco, chi dice di promuovere
una società più giusta e egualitaria?
Steven Forti
Barcellona (Spagna)
Podemos/...e risposta Un errore grave fiancheggiarli
Il dilemma sull'atteggiamento di fronte a Podemos posto da Steven
non è del tutto nuovo. Nella storia dell'anarchismo,
italiano e non solo, ci sono stati frangenti in cui il tema
si è posto con urgenza e drammaticità. Lui ricorda
la classica Spagna del 1936-39 e la Resistenza del 1943-45.
Evidentemente il paragone parte da qualche tratto di similitudine,
ma ricorda di più elementi di differenziazione e incomparabilità.
In entrambi i casi siamo all'interno di una guerra vera con
morti e distruzioni enormi e con il rischio costante e quotidiano
della vita individuale e collettiva. L'urgenza e il senso di
responsabilità (eccessiva secondo alcuni compagni) spinse
la CNT-FAI verso la collaborazione con gli ex nemici e repressori
repubblicani in una sorta di tregua imposta dall'emergenza golpista.
Va tenuto conto che il movimento anarchico e libertario aveva
una forza e un radicamento tali da poter determinare, soprattutto
nei primi mesi, l'agenda politica del governo antifascista spagnolo.
Quindi la soluzione del problema si poneva, come sa bene Steven,
fra un isolamento dal contesto bellico, che aveva scarse possibilità,
e una partecipazione, via via meno riluttante, alla gestione
del potere sul piano militare oltre che politico. La scelta
della collaborazione bellica e istituzionale era quasi obbligata
(l'ipotesi della rivoluzione in solitario, che l'ineffabile
García Oliver definì come “dittatura anarchica”)
fu accettata da buona parte della militanza anche se alquanto
diffidente. Uno dei motivi di fondo di tale posizione, incoerente
con l'Ideale e la storia anarchica spagnola, fu quello di difendere
l'esperienza della rivoluzione sociale in corso nelle campagne
e nelle città. Nessuna possibilità di sviluppo
rivoluzionario libertario sarebbe stata possibile, anche secondo
Helmut Rudiger esponente dell'AIT attivo in terra iberica, in
caso di vittoria di Franco.
Nell'ambito della Seconda Guerra Mondiale l'opzione di combattere
con altri antifascisti, superando perfino l'odio per la repressione
bolscevica del maggio 1937 a Barcellona, fu seguita da gran
parte dei militanti con alcune importanti eccezioni. Ad esempio,
Umberto Tommasini si astenne dal prendere le armi nell'Appennino
bolognese pur avendo lottato concretamente e duramente contro
il regime fascista, come dimostra la partecipazione all'attentato
di Gino Lucetti a Mussolini nel 1926 e all'analogo progetto
del 1937. Il compagno triestino tenne conto delle minacce ricevute
per le sue proteste contro l'assassinio di Berneri e delle esplicite
indicazioni del PCI di eliminare gli estremisti, sia libertari
che marxisti, in quanto “nemici del popolo”. Altri
invece, come l'emiliano Enrico Zambonini, pur essendo stato
ferito da fucilate comuniste nella Barcellona del 1937, entrò
nella Resistenza e finì con l'essere fucilato con un
gruppo di antifascisti, tra cui un prete. Laddove i compagni
avevano la forza (Carrara, Piacenza, Milano...) costituirono
formazioni proprie oppure preferirono collaborare con le bande
non comuniste. Anche in questo caso il contesto non permetteva,
o quasi, di mantenersi estranei alla guerra guerreggiata.
Il ragionamento di Steven può essere comparato, secondo
me, con due esperienze vissute nell'Italia degli anni Settanta:
la candidatura Valpreda alle elezioni del maggio 1972 col Manifesto
e il referendum sul divorzio del 1974. Nella prima circostanza,
che rievocava le candidature-protesta promosse da socialisti
e repubblicani tra fine Ottocento e primi Novecento, ben pochi
furono coloro che accettarono quello che fu definito un “ricatto”:
l'uscita di prigione del principale detenuto della montatura
statale (di cui si voleva da anni la liberazione con una campagna
di controinformazione che ha avuto pochi pari nella recente
storia italiana) in cambio dello snaturamento della mobilitazione
sempre crescente che stava “processando” lo Stato.
Il movimento anarchico, quasi al completo e malgrado le tradizionali
divisioni interne, rifiutò la proposta elettoralistica
e potenziò le agitazioni contro la Strage di Stato nelle
piazze, nelle scuole e università, nei luoghi di lavoro.
E Valpreda restò in galera ancora per qualche mese: nel
dicembre del 1972 venne varata una legge per cui anche gli imputati
di reati che prevedevano l'ergastolo potevano andare in libertà
vigilata. Fu definita pubblicamente, con ironia, la “legge
Valpreda”. Si dimostrò con fatti concreti che la
via parlamentare non apparteneva all'anarchismo e ai movimenti
di base che pullulavano in ogni contrada d'Italia. Si confermò
come, a volte, una grande protesta extraistituzionale potesse
risultare vincente.
Un paio di anni più tardi il dibattito sulla partecipazione
al referendum indetto dalla chiesa cattolica contro il divorzio
fu più articolato e animato. I compagni che sostenevano
l'utilità della scheda referendaria puntavano sulla necessità
di battere la sfida clericale anche recandosi alle urne. Essi
ritenevano che la consultazione non prevedesse alcuna forma
di delega a un partito con lo scopo di insediarsi al governo
e quindi esercitare il dominio statale. Al contrario, la tendenza
astensionista sosteneva che si trattasse di “refreghendum”,
un tranello della competizione tra partiti laici e cattolici
che avrebbe comunque demandato allo Stato la facoltà
di regolare con apposite norme obbligatorie le relazioni sessuali
e familiari. L'alternativa vera sarebbe stata quella di emanciparsi
dalla tutela legale e realizzare invece libere unioni di liberi
esseri umani fondate sull'accordo paritario e solidale. Alla
vittoria, per molti sorprendente nelle proporzioni, della linea
divorzista ci furono in ambito anarchico poche esaltazioni del
risultato che mostrò comunque che il clerico-fascismo
(solo la DC e il MSI pretendevano di abolire il divorzio) non
era maggioritario nella società italiana.
Evidentemente le due scadenze elettorali degli Anni Settanta
si svolgevano all'interno di comportamenti sociali che andavano
ben al di là delle contese politiche e mentre si respirava
un'aria di imminenti e profondi cambiamenti a tutti i livelli.
In questo contesto di grande e duraturo fermento, le aspirazioni
rivoluzionarie e libertarie erano spesso viste con simpatia
da chi scendeva in strada e si opponeva all'autoritarismo e
allo sfruttamento.
Senza entrare troppo nel merito della situazione spagnola di
oggi, di certo la scena non può essere assimilata a quella
spagnola del 1936-39 o a quella italiana del 1943-45. L'uso
del termine “guerra”, a cui fa ricorso Steven, appare
troppo semplicistico e generico. Ciò non vuol dire sottovalutare
la posta in gioco, non solo in Spagna, con l'inasprimento del
controllo statale e il deterioramento, indotto dal neoliberalismo,
delle condizioni di vita dell'umanità e della natura.
Forse è inevitabile che si riproponga il miraggio della
soluzione elettorale agli angoscianti problemi attuali e alle
prospettive negative che si intravedono. Non è inutile
ricordare che queste proposte “alternative” ai governi
puramente conservatori hanno radici lontane (socialisti di fine
Ottocento, comunisti post 1945,...) e relativamente vicine
(radicali dei primi anni Settanta, grillini di qualche anno
fa...). L'esperienza dimostra l'involuzione di questi
e altri movimenti-partiti man mano che essi sono entrati nei
meccanismi istituzionali burocratici.
Qualcuno potrebbe sperare che Podemos, in quanto erede del movimento
degli indignados che nel 2011 aveva entusiasmato anche
ambienti libertari al punto di suscitare nella madrilena Plaza
del Sol la commossa adesione di un filosofo anarchico di antica
data quale Agustín García Calvo, (assemblee costanti,
solidarietà popolare alle vittime del sistema bancario,
slogan come “i nostri sogni non entrano nelle vostre urne”,
...), sia diverso dai precedenti movimenti-partiti. Logicamente
saranno i fatti, nudi e crudi, prodotti dall'esercizio del potere,
al momento solo municipale, a dare gli elementi per una valutazione
fondata e convincente che vada al di là delle, comunque
utili, chiavi di lettura fornite dalla teoria e dalla storia
antiautoritaria. I segnali in corso non sono favorevoli ad una
rottura definitiva col potere del passato fatto di clientelismo
e di pura propaganda, oltre che di controllo e di impoverimento
sociale.
Sarebbe quindi, dal mio punto di vista, un errore grave fiancheggiare
la sfida elettorale e filo istituzionale di Podemos, mentre
credo sia più produttivo osservare, con critica e disincanto,
l'evoluzione di tale tendenza politica, culturale e sociale.
Essa rappresenta ad ogni modo una certa novità di cui
tener conto, ma senza farsi risucchiare in una logica che non
può appartenere alla speranza e alla lotta per un mondo
di liberi/e ed uguali.
Claudio Venza
Trieste
Un racconto/ Esami di terza media
Su una terrazza del meridione, una pianta grassa, nata al nord,
è fiorita dopo oltre dieci anni di vita e, nel vaso di
una pianta rampicante, un uccellino ha fatto il nido e vi ha
deposto alcune uova. Venere e Giove sono allineati.
I miei alunni agli scritti dell'esame di terza media si sono
difesi egregiamente. Alla quinta prova nazionale hanno avuto
dei risultati corrispondenti alle fasce di livello in cui sono
collocati. In sostanza hanno ottenuto un pareggio. E un pareggio
contro l'Invalsi equivale a una vittoria. Quindi III W batte
Invalsi 20 (il numero degli alunni) a zero. All'orale hanno
travolto la commissione esaminatrice.
Lo studente G. si è seduto di fronte a noi, ha abbracciato
la fisarmonica e chiuse le palpebre ci ha trascinato sulle note
di Children's suite n. 1 del musicista sovietico Vladislav Zolotaryov.
I suoni hanno distratto, dalle scartoffie, la presidente di
commissione che si è precipitata in classe proprio mentre
i nostri timpani venivano investiti dalle note più roboanti
del brano... al termine dell'esibizione eravamo tutti in piedi
ad applaudire...
La presidente di commissione ha abbracciato G. Gli applausi
hanno cominciato a scemare. Quando noi insegnanti abbiamo smesso
completamente di battere le mani le alunne, che assistevano
all'esame, hanno ripreso gli applausi con più vigore
di prima. Io, capita l'antifona, mi sono rimesso ad applaudire.
Poi G. ha sorriso alla presidente di commissione e, facendo
cenno di smettere, ha spiegato: «Mi stanno aiutando a
introdurre un brano tratto da Arcipelago Gulag di Solženicyn,
in cui si racconta che, in epoca stalinista, dopo una conferenza,
approvato un messaggio di fedeltà a Stalin, tutti si
alzano ad applaudire... ma nessuno vuole essere il primo a smettere,
potrebbe sembrare un atto di critica e dissenso che porta diritto
all'arresto».
La studentessa M. ha iniziato a pizzicare le corde delle sua
chitarra. S'interrompe, abbassa la testa e lascia che i capelli
le nascondano il volto... chiede scusa, poi riparte... e fa
scaturire nitido l'arpeggio di Stairway to Heaven, dei Led Zeppelin...
There's a lady who's sure all that glitters is gold... tira
fuori una voce con dei toni così ignoti e profondi che
non so da quale anfratto dell'universo li abbia scovati... una
ragazzina di tredici anni. Orfana di padre, morto in un incidente
stradale, alle elementari scrisse una lettera a suo papà
e con le maestre andò a depositarla sulla tomba.
«Ma è commovente! Commovente!», esclama la
presidente... Io non trattengo le lacrime... e mi sfugge una
parola: «Resilienza...».
«Che cosa porti in italiano?...», le chiede la presidente.
«Non si è accontentata», intervengo io, «di
portare un semplice brano, ha portato un libro... la biografia
di Jim Morrison!».
Credo che la presidente abbia fatto un faccia un po' stupita
perché M. si è voluta giustificare: «Il
professore mi ha detto che la potevo portare all'esame».
«Certo!», esclamo io rivolto alla presidente, «un
giorno, durante la lezione, la sorpresi con quel libro aperto
sul banco... “ah, bene! Vorrà dire che lo porterai
all'esame!”». E tra me rifletto che M., in quell'occasione,
mi aveva chiesto: «Ma... si può? Si può
portare all'esame la biografia di Jim Morrison?».
M. racconta la vita del Re lucertola, di quando attraversando
il deserto, in auto, con i genitori, vide degli indiani che
giacevano sull'asfalto sanguinanti e moribondi, dopo che il
loro autocarro era andato a sbattere contro un macchina e Jim
era solo un bambino “e un bambino”, scrive Morrison, “è come un fiore con la testa scossa dal vento”.
«In The end, ci sono dei versi che potrebbero suscitare
scandalo... se vuoi puoi dirceli... magari in inglese, così
ci togli dall'imbarazzo...».
«Jim elabora il complesso di Edipo», risponde M.
«Benissimo... ma, le parole scandalose?».
«Father... I want to kill you... Mother, I want to...
fuck you».
«Come possiamo interpretare queste parole?».
«Kill your father... significa, elimina le idee non tue,
che ti sono state inculcate... Fuck your mother... significa,
prendi cura di te stesso...».
«Qual è il libro che ha cambiato il modo di essere
di Jim Morrison?».
«Così parlò Zarathustra di Nietzsche».
«No! Non è possibile!», sbotta la presidente,
«adesso non mi venite a dire che una ragazzina di tredici
anni conosce Nietzsche! Sa che esiste Così parlò
Zarathustra!».
«Ha anche provato a leggerlo», dico io, «ma
per ora lo ha accantonato».
Guardo M. in viso e sommessamente le dico: «Tu sei oro...
oro che ha riacquisito la forma originaria dopo essere stato
deformato...».
Faccio una pausa.
«Anzi! Dimmi qual è l'unità di misura che
indica la quantità di oro puro in un gioiello?».
«Il carato».
«Brava! In questi tre anni i tuoi carati sono aumentati...
ma è anche merito delle tue compagne e dei tuoi compagni
di classe... sei tu che poco fa mi hai cantato “when all
are one and one is all”... come avresti fatto senza le
silenziose, i casinisti e le casiniste? e senza G., fisarmonicista
magico, che ha attirato qui la nostra ospite e ti ha preparato
il palcoscenico?».
Mentre dei docenti pensavano di fare uno sciopero della fame
contro la riforma della scuola di Renzi e la gioventù
greca si apprestava a dire oxi, ho fatto la gratificante fatica
di salire a piedi sul cratere dello Stromboli.
Osservando e ascoltando le eruzioni laviche che illuminavano
la notte, ho preso consapevolezza del ribollire del magma che
mette in tensione la crosta terrestre.
Ermanno Battaglini
Oria (Br)
Herbert Pagani e il suo sogno sionista
Un plauso, ancora una volta, più che meritato, ad Alessio
Lega, che, oltre che cantautore (anche quando propone brani
non suoi, li reinterpreta), è ormai un validissimo critico
musicale e studioso di musica. Un plauso per aver ricordato
uno chansonnier (lo definirei così, anche se forse
è limitativo) come Herbert Pagani, ingiustamente dimenticato,
come Lega ricorda.
Questa non è una excusatio non petita, premetto,
ma solo una premessa (repetita juvant? Non sempre, anzi
me ne scuso) per fare una precisazione ed esprimere un'opinione
un po' diversa: la precisazione è nel fatto che
Pagani era Ebreo libico, ma non di origini italiane, bensì
un Ebreo libico cui il cognome italiano fu attribuito per motivi
coloniali, di imposizione colonialista-nazionalista.
L'opinione divergente: “uomo dalle incrollabili convinzioni
umanitarie e internazionaliste, ma legato a un impossibile sogno
sionista” (cito ovviamente dal testo
su Pagani, p. 59 del numero di “A” 400, estate
2015). D'accordissimo sulla prima parte, mentre sul sionismo
e il suo “impossibile sogno”, no. Chi ha detto che
sia un “sogno impossibile”? Finora non realizzato,
certo, ma in futuro, chissà.
Il sionismo all'inizio, quello di Theodor Herzl, era tollerante,
umanitario, “internazionalista”, poi, con e dopo
Ben Gurion, si lega a uno Stato, quello d'Israele, costantemente
minacciato, però, e memore dello sterminio, della Shoah.
Chiunque sia anche vagamente di origini ebraiche (io da parte
della nonna paterna, dall'inequivocabile cognome di città
italiana, per la precisione toscana) sente la minaccia, il ritorno,
strisciante o meno, della Bestia (sarò biblico-apocalittico,
ma mi va benissimo) - non credo che il nazismo (non nazionalsocialismo!
Dopo l'espulsione dei fratelli Strasser, di socialista il nazismo
non ha più nulla!) si possa definire altrimenti.
Ma, tornando a Herbert, vorrei segnalare alcune cose: scrivendo
il testo dell'inno del Partito socialista francese (PSF),
musica di Mikis Theodorakis, Pagani (era il 1977, quando si
preparava il ritorno al potere della “Gauche”,
dopo anni di gaullismo e di... peggio, era il socialismo a suo
modo libertario di François Mitterand, era lontana la
svendita attuale al neoliberismo con Hollande & Co), diceva-cantava:
“Changeons la vie ici et maintenant/C'est aujord'hui
que l'avenir s'invente” (Cambiamo la via
qui e adesso/È oggi che l'avvenire s'inventa”).
Siamo, volendo, allo “changer la vie et changer le monde”
(cambiare la vita e il mondo) che il surrealismo ricavava dalla
sintesi tra Rimbaud (changer la vie) e Marx (changer
le monde). Due anni prima e qui forse qualche problema si
pone, Herbert aveva scritto e detto (recitativo con musica)
il suo “Pladoyer pour ma terre. Terre d'Israel”
(“difesa della mia terra”. Il resto è molto
chiaro). In esso lo chansonnier (nonché attore,
pittore, scultore, scrittore, poliglotta perfetto), diceva che
sì, “siamo dei rompiscatole” (noi Ebrei),
“è nella nostra natura”, “Abramo
(rompeva, e.g.) con il suo Dio unico, Mosé con le tavole
della Legge, Gesù con l'altra guancia sempre pronta
a ricevere il secondo schiaffo”.
Poi rivendicava Freud, Marx, Einstein e qui credo siamo tutti/e
d'accordo, rivendicandoli come “rivoluzionari, nemici
dell'ordine” (costituito, diremmo magari in italiano).
Qualche più che giustificata riserva da parte mia su
Henry Kissinger, certo persona intelligente e grande diplomatico,
ma coautore (è ormai ampiamente dimostrato) del golpe
pinochetiano in Cile. Ma il resto è vero, che i Patriarchi
biblici, a suo modo, anche Cristo (per quanto ne sappiamo, stanti
i travisamenti e le interpolazioni dei Vangeli), il fondatore
della psicoanalisi, Marx, con le contraddizioni che volete/vogliate
evidenziare, il rifondatore della fisica moderna e non solo,
fossero dei rivoluzionari. È questo, credo, che Pagani
voleva evidenziare.
E lasciamo da parte, senza dimenticarlo, lo scivolone su Kissinger.
Nessuno è perfetto.
Eugen Galasso
Firenze
Reggio Emilia / “A'' in centro
Reggio
Emilia, Libreria del Teatro - Nell'imminenza della festa
per i 400 numeri di “A” svoltasi a Massenzatico
(Re) nel corso dell'ultimo fine settimana di giugno, la
storica Libreria del Teatro, in pieno centro, si è
così addobbata per “salutare” l'evento
e la nostra rivista. Ci fa piacere pubblicare questa foto
e cogliamo l'occasione per salutare il vecchio Nino Nasi,
grazie al quale “A” è reperibile lì
fin dal primo numero (febbraio 1971).
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I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Angelo Pagliaro (Paola –
Cs) per “A” 400, 10,00; a/m Fausto Saglia,
Luciano Scarpa (Cassio – Pr) 30,00; Libreria
San Benedetto (Sestri Ponente – Ge) 4,70; Ugo
Usseglio Viretta (Giaveno – To) 40,00; Gabriella
Ciancimino (Palermo) per versione PDF, 10,00; a/m
Errico Alfonso, Centro sociale occupato e autogestito
Scuria (Foggia) 25,00; Claudia Pinelli (Milano) 10,00;
Antonio Cecchi (Pisa) 10,00; Davide Andrusiani (Castel
Verde – Cr) 10,00; Nicolò Comotti (Londra
– Gran Bretagna) 115,00; Antonio Abbotto (Sassari)
10,00; Jonatha Trabucco (Pisa) 10,00; Luca Magni (Monza)
in memoria di Mikhail Bakunin, 75,00; Enrico Calandri
(Roma) 100,00; Angelo Roveda (Millano) 50,00; a/m
Claudio Mazzolani, Paolo Mazzolani (Imola –
Bo) 10,00; Rino De Michele (Zero Branco – Ve)
50,00; Gianlorenzo Pignatti (Barberino del Mugello
– Fi) 30,00; Peter Sheldon (Sydney – Australia)
250,00; Davide Giovine (Luserna San Giovanni –
To), 15,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo
– Sa) 40,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Federico Arcos, 500,00; ricavato dalla festA 400 a
Massenzatico (Reggio Emilia) il 27–28 giugno,
414,00; Enrico Moroni (Settimo Milanese – Mi)
10,00; Giuseppe De Vincenti (Brescia) 10,00; Biblioteca
Franco Seranrini (Pisa) 100,00; Giuseppe De Vincenti
(Brescia) 10,00; Alberto Ciampi (Sam Casciano Val
di Pesa – Fi) “Magnifico 400”, 20,00;
Orazio Gobbi (Piacenza) 10,00; a/m Nicola Zamagna,
dalla festa del 1° maggio dell'ANPI – Associazione
Nazionale Partigiani d'Italia – di Santarcangelo
di Romagna, 50,00; Luciano Collina (Sala Bolognese
– Bo) 10,00; Monica Bagnolini e Enrico Torriani
(Bologna) in memoria di tutti i migranti naufragati
nel canale di Sicilia, 10,00; Sante Cutecchia, 10,00;
Roberto Colombo (Boffalora Ticino – Mi) 50,00;
Giulio Spiazzi (Verona) 50,00; Giorgio Bigongiari
(Lucca) per “A” 400, 20,00; Francesco
Vendrame (Ponte San Pietro – Bg) 10,00; a/m
Angelo Roveda, Francesco Roveda (Milano) 50,00; Rino
Quartieri (Zorlesco – Lo) “auguri alla
redazione e... 400 di questi numeri”, 100,00;
Fondazione Giorgio Gaber (Milano) quale contributo
per la collaborazione nell'organizzazione della sera
“Pietro Gori, anarchia, resistenza” al
teatro Garibaldi di Carrara il 2 agosto scorso, 500,00;
a/m Giovanni Stiffoni, Caflo Romani (Rio de Janeiro
– Brasile) 100,00; Mauro Tassetto (Milano) 30,00;
Laura Cipolla (Casalmaiocco – Lo) 30,00; Libreria
San Benedetto (Sesri Ponente – Ge) 3,70; Diego
Razzitti (Angolo Terme – Bs) 20,00; Davide Foschi
(Gambettola – Fc) 10,00; Roberto Ceruti (Albissola
Marina – Sv) 10,00; Roberto Palladini (Nettuno
– Rm) 20,00; Ugo Fortini (Signa – Fi)
ricordando Milena e Gasperina, 30,00; ; Robeto Solati
(Venezia) 50,00; Lorenzo Partesana (Sondalo –
So) 10,00; Angelo Del Boca (Torino) 10,00; Davide
Foschi (Gambettola – Fc) 10,00; Pino Fabiano
(Cotronei – Kr) 10,00; a/m Danilo Sidari, Jack
Grencharoff (Quama – Australia) 100,00; Luca
Magni (Monza) in memoria di Pëtr Kropotkin, 35,00.
Totale € 3.317,40.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Paola
Mazzaroli (Trieste); Luca Vitone (Berlino –
Germania); Sergio Santoni (Monte San Vito –
An); Andrea Albertini (Merano – Bz) 150,00;
Donata Martegani (Milano); Fernando Ainsa (Saragozza
– Spagna); Antonio Squeo (Catania) 150,00; Roberto
Di Giovannantonio (Roseto degli Abruzzi – Te);
Battista Saiu (Biella); Nuccia Pelazza (Milano); Giorgio
Bixio (Sestri Levante – Ge); Domenico Gavella
(Camerlona – Ra); Angelo Carlucci (Taranto);
Carmelo Goglio (Olmo al Brembo – Bg); Giancarlo
Tecchio (Vicenza) 200,00; Giovanni D'Ippolito (Casole
Bruzio – Cs); Giuseppe Gessa (Gorgonzola –
Mi) 200,00; Benedetto De Paola (Prato Perilli di Teggiano–
Sa) 200,00; Gianluca Botteghi (Rimini); Vittorio Catani
(Bari); Gianfranco Cutillo (Bari); Augusto Piccinini
(Ravenna); Lucia Sacco (Milano); Marco Galliari (Milano);
Rodolfo Altobelli (Canale Monterano – Rm); Tommaso
Bressan (Forlì); Giovanni Baccaro (Vittorio
Veneto – Tv); Danilo Sidari (Lalor Park –
Australia). Totale € 3.200,00.
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