Nel cuore dell'impero
testo e foto di Santo Barezini
Vivo a New York, con moglie e figli e in sé il fatto
è poco significativo: ci vivono altri otto milioni e
mezzo di persone. Vivo anzi a Manhattan, un'isola cementificata
all'inverosimile, bagnata dalle acque grigie di due fiumi inquinati.
Specificare è necessario, perché la metropoli
è vasta e abitare a Manhattan è roba da privilegiati
rispetto a chi vive più lontano dal centro nevralgico
della città. Manhattan è rassicurante, è
la New York di tanti film. Gli altri quartieri hanno nomi che
nel nostro immaginario suscitano inquietudine, come il Bronx;
o fanno pensare alla storia romanticizzata della nostra migrazione,
come Brooklyn. Sono enormi distese di case e palazzi; perlopiù
dormitori, brutti e talvolta squallidi.
Ecco la prima scoperta del nuovo arrivato: quando si parla di
New York, della metropoli affascinante, sfolgorante, vitale,
illuminata e attiva giorno e notte; la New York dell'Empire
State Building, di Central Park, del ponte di Brooklyn e delle
torri gemelle abbattute; la città dei musei, della musica
e della cultura; la New York degli affari, di Wall Street, dei
finanzieri favolosamente ricchi, di sontuose feste private,
dei grattacieli di vetro con piscina incorporata e giardini
pensili; la New York dei musical, di Broadway e dei taxi che
percorrono veloci le grandi arterie punteggiando di giallo e
di verde le notti della metropoli... quando si parla di tutto
questo in realtà si sta parlando di un fazzoletto di
terra, compreso fra le acque che lambiscono a sud l'isola di
Manhattan e la centodecima strada che corre lungo il limite
settentrionale del Central Park. Questo è il microcosmo
dove si aggirano i personaggi radical chic di Woody Allen. Più
a nord è già Harlem, è già il limite
fra la città rassicurante e quella inquietante dove i
turisti si spingono solo in gita organizzata, per andare ad
ascoltare le messe Gospel alla domenica mattina, in una sorta
di safari metropolitano fra i discendenti degli schiavi africani.
Il resto non è poi così attraente e non ci si
vive un granché bene, fra il puzzo della povertà,
i prodotti scadenti dei piccoli supermercati locali e la presenza
oppressiva della polizia.
A distanza di molti mesi guardo indietro e mi chiedo cosa ci
faccio io qui, nel cuore dell'impero che ho tanto detestato.
Trovo delle scuse, mi ripeto che mi ci ha portato il lavoro.
Ma la realtà è che l'ho scelto. Non certo per
inseguire il mito americano. Piuttosto per capire l'America
e il fascino che ancora oggi esercita; per cercare i fiori nel
letame, scovare il buono che pure deve esserci, simpatizzare
con gli oppressi, che certo non mancano. Perché, sia
chiaro, sono sempre stato dalla parte degli indiani. E degli
schiavi. Volevo verificare la sensazione che qui ci fosse molto
di più di quello che immaginiamo noi europei, quel che
ci arriva attraverso il cinema di Hollywood e la miriade di
programmi televisivi made in USA che piovono nelle nostre case.
Come sarebbero state possibili, altrimenti, le grandi marce
contro la guerra in Vietnam, il movimento anti-segregazionista,
gli hippies e la rivoluzione femminista? Non potevo credere
che esistesse solo l'America di Rockfeller, dell'American Dream,
delle bombe chirurgiche e dei McDonald's; l'America provinciale,
meschina e gretta raccontata in Brokeback Mountain. Sono venuto
a cercare l'altra America.
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New York (Stati Uniti) - Lo skyline
newyorkese nell'intreccio dei cavi del Ponte di Brooklyn |
Influenza e incanto
Come non essere curiosi? Per tutta la vita l'America si è
intrecciata con la mia vita anzi, con la vita di tutti noi.
Pensiamoci: i racconti di guerra dei nostri genitori, gli “alleati“
con sigarette, cioccolata e scatolette; il piano Marshall, la
guerra fredda, il maccartismo, Sacco e Vanzetti, il Vietnam,
Martin Luther King, Malcom X, i blue-jeans, i missili americani
a Comiso, le marce per la pace, le invasioni, i colpi di stato,
le guerre, i bombardamenti, gli effetti collaterali, le armi
di distruzione di massa, il Golfo Persico, Osama Bin Laden,
il reaganismo, il rampantismo, i Chicago Boys, la globalizzazione,
l'undici settembre 2001. E le accuse, ogni volta che si provava
a ragionare, di essere pregiudizievolmente antiamericani, che
ai tempi della guerra fredda significava anche essere catalogati,
inevitabilmente, come filosovietici. Chi può dire che
l'America non abbia, in un modo o nell'altro, attraversato la
sua esistenza?
Le luci di New York non mi hanno accecato, ma un certo invaghimento
iniziale c'è stato, lo ammetto. Difficile non subire
il fascino di un luogo dove vivono e si muovono milioni di uomini
e donne di tutti i colori, le lingue e le religioni del mondo.
L'entusiasmo, però, non è durato molto. I primi
tempi vivevamo in una zona molto popolare di Brooklyn, eravamo
gli unici bianchi e ci sembrava di essere sbarcati in
una qualche città africana dove un numero indefinito
di gruppi etnici avesse adottato l'inglese come lingua franca.
Percorrevamo le strade trasandate, piene di chiesupole dai nomi
bizzarri e di negozietti squallidi, con lo stupore di chi si
ritrova in una dimensione totalmente altra. In metropolitana
sgranavamo gli occhi nel vederci circondati da gente con le
acconciature più inconsuete, i cappelli più stravaganti
e tutte le sfumature della pelle immaginabili fra l'ebano e
il marroncino. Ma ben presto abbiamo notato anche l'altra faccia
di questa complessità: man mano che il treno avanzava
verso Manhattan la composizione etnica e sociale nei vagoni
cambiava. Scendevano i lavoratori neri vestiti poveramente e
salivano gli impiegati bianchi in giacca e cravatta. Una volta
sbarcati al centro l'incanto era finito e le discrepanze saltavano
agli occhi. Al centro i neri e gli ispanici sono quelli addetti
ai lavori più umili e gravosi. Se non più gli
schiavi, sicuramente ancora i servi di una società forse
non più segregata ma certamente non ancora guarita dalle
ferite del passato. L'innamoramento è finito.
La realtà sotto la patinatura
Forse è inutile parlarne, queste cose le sappiamo già
tutti, le abbiamo immaginate o addirittura studiate: le disuguaglianze
sociali, i problemi razziali, il militarismo, la politica, la
povertà estrema, la scuola disastrata, il sistema sanitario
privatizzato, la fissazione per le armi, la violenza della polizia,
la prepotenza dei marines, il patriottismo esasperato, l'omologazione.
Cose risapute. Tutti abbiamo letto saggi e romanzi e visto cento
e più film. Eppure non è la stessa cosa. Viverci,
muoversi fra questa gente con lo sguardo curioso e attento,
ascoltarne i discorsi, vederli mangiare, lavorare, amare, arrabbiarsi,
ragionare e sragionare; discuterci, vederli offesi, turbati,
titubanti, timidi o arroganti… vivere, insomma, quotidianamente,
il melting pot, non è la stessa cosa. I luoghi
bisogna annusarli, direbbe Stefano Benni.
Oggi abito a New York con lo sguardo di un suddito giunto da
una lontana provincia a scrutare come si sopravvive nel cuore
dell'impero. Come qualcuno che nel III secolo fosse arrivato
a Roma dalla Galazia, o dalla Numidia, e prima di giungere ad
ammirare gli splendori del Foro avesse attraversato la misera
suburra, restandone sconcertato. Una suburra, quella di New
York, abitata da milioni di migranti, molti senza permesso di
soggiorno, dove lo spagnolo è ormai importante quanto
e più dell'inglese.
Come quasi tutti, qui, vivo inscatolato in un appartamentino
soffocante con pareti dal colore indefinito e piccole finestre
luride da cui getto lo sguardo sui tetti di Harlem e qualche
volta vedo sfilare le manifestazioni di cittadini indignati
che protestano contro la brutalità della polizia.
Esco spesso da questa prigione metropolitana per stare in mezzo
alla gente e cercare di capire le contraddizioni di un paese
che si vende al mondo come il migliore dei luoghi possibili,
il paese delle mille opportunità e della felicità,
che ha però, proprio nella sua città simbolo,
situazioni di profondo degrado.
Questo contatto genera riflessioni che sono come tessere di
un mosaico. Vanno a comporre un quadro il cui disegno però
non è mai definitivo, né completo. Una sagoma
che cambia forma, figure che mutano aspetto, a seconda di come
la luce le colpisce.
Sono riflessioni che vorrei umilmente condividere, senza la
pretesa di dire nulla di conclusivo e forse neanche di nuovo,
ma con la speranza che possa interessare lo sguardo di chi,
suo malgrado, si trova a vivere nel cuore dell'impero, a disagio
fra i suoi fasti e i suoi disastri. Perché, che lo si
voglia o no, l'America fa parte della nostra vita.
Santo Barezini
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