Dono dunque sono
Sguardi antropologici contro
la scienza economica che ha colonizzato il mondo
Recentemente
mi sono occupato di dono e condivisione (I senza stato,
BéBert Edizioni, Bologna, 2015, pp. 107, € 10,00)
perché credo siano due relazioni sociali ed economiche
fondamentali per l'essere umano e non solo. In moltissime società
disseminate in giro per il globo per centinaia di anni abbiamo
vissuto senza il capitale, ma soprattutto senza la necessità
di possedere, accumulare, vendere o comprare. Sono convinto
che le economie del dono non sono qualcosa di “primitivo”
ovvero pratiche congelate nel frigorifero della storia, ma sono
qualcosa che ci può essere utile per riequilibrare l'umana
convivenza. Per fortuna non sono il solo tra gli antropologi
a pensarla così anzi, nomi molto più autorevoli
del mio concordano con queste affermazioni.
Nel suo ultimo interessante e affascinante libro (La bussola
dell'antropologo. Orientarsi in una mare di culture, Laterza
Edizioni, Roma-Bari, 2015, pp. 152, € 12,00) Adriano Favole,
ottimo antropologo dell'università di Torino, tra le
altre tematiche affrontate dedica svariate pagine al dono e
alla condivisione. L'antropologo piemontese chiarisce subito
la differenza importante che passa tra il dono [una relazione
economica che prevede la funzione dare, ricevere, avere] (Marcel
Mauss, Saggio sul dono) e la condivisione:
La condivisione ha a che fare con tutte quelle situazioni
in cui vi è un “io” diffuso, con quel senso
di compartecipazione che crea un “noi”. Un'intera
famiglia di termini in italiano, la famiglia del “con”
(convivere, convivialità, consenso...) rientra in questa
prospettiva. La condivisione è il “fare insieme”,
l'agire insieme, il convivere in cui ci si svincola (anche solo
temporalmente) dal possesso e dalla gerarchia. (A. Favole,
2015, pag. 89).
Due termini con significati importati che se entrano in relazione
possono produrre una mutazione sociale, politica ed economica
molto interessante. Concordo con Adriano Favole che le forme
di condivisione e le strategie ecologiche che gli antropologi
hanno indagato in altre società o nelle culture popolari
possono concretizzarsi in politiche collettive; come scriveva
qualche anno addietro Uri Gordon nel suo Anarchy Alive
è fondamentale riuscire a passare dalla pratica alla
teoria e dalla teoria alla pratica, questa è la possibilità
che vedo per un'antropologia volta anche ad arricchire il pensiero
libertario.
È sempre più urgente decolonizzare i nostri saperi,
le nostre pratiche, i nostri immaginari che sono ancora strettamente
ed unicamente legati a una visione del mondo occidentale, ereditata
dalla rivoluzione industriale e dall'illuminismo.
Dobbiamo saper guardare a chi vive o ha vissuto in maniera completamente
diversa da “noi”, ancora oggi sopravvivono pratiche
di condivisione e dono in giro per il mondo e nel libro La
bussola dell'antropologo troviamo interessanti esempi etnografici
(contemporanei) riportati dai lavori sul campo dell'autore,
dove anche se non vige nei luoghi da lui studiati una pratica
del dono per regolare tutte le transazioni economiche ci sono
casi di resistenza quotidiana al nostro modo di vedere l'economia.
In particolare in Polinesia, i prodotti della terra non possono
essere comprati e venduti perché essi, a differenza delle
merci che arrivano dall'occidente, sono intrisi della persona
che li ha seminati, coltivati e prodotti: donandoli, si dona
qualcosa di sé (Mauss lo chiamò HAU, utilizzando
una parola maori), ciò che costringerà chi riceve
a ricambiare, alimentando una spirale infinita di relazioni
(A. Favole, pag. 77)
Le culture del dono esistono tuttora, solo che il dono non è
esclusivo, ma si mischia ad altre pratiche e questo non soltanto
in Oceania ma anche qui, a casa nostra e sono molti gli esempi
che possiamo fare, dalla banca del tempo, alla pratica della
“bella vita” delle case occupate torinesi fino ad
arrivare a intere comunità dove il profitto e il denaro
non sono contemplati nelle transazioni economiche tra individui.
Ma cos'è la condivisione di cui ci parla l'antropologo
nel suo libro? Facciamo semplici esempi: il tavolo della cucina
su cui mangiamo insieme ai nostri amici, parenti, figli non
è un dono, è uno spazio di condivisione. Il frigorifero
racchiude cibi che vengono condivisi, non donati. I libri di
una biblioteca, una piazza, un fiume, una montagna, una spiaggia
e l'elenco di quello che condividiamo con altri potrebbe diventare
lunghissimo. Negli ultimi anni gli spazi della condivisione
stanno subendo una vera e propria guerra di privatizzazione,
guerra alla quale non dobbiamo rimanere indifferenti. Qualcuno
però potrebbe obiettare e dire che una piazza o una spiaggia
non sono spazi di condivisione ma beni pubblici, è vero
ma questi spazi pubblici sono proprio la garanzia per le pratiche
di condivisione.
Saper fare
In uno degli ultimi capitoli si parla del recupero del fare
ovvero di come Homo Comfort (Stefano Boni, Elèuthera
edizioni, Milano, 2014, pp. 224, € 14,00) cominci a tornare
Homo Faber. Anche in questo caso iniziamo con dei semplici esempi,
c'è chi fa il pane in casa con la pasta madre, chi costruisce
biciclette con pezzi riciclati e rottami, chi crea un piccolo
orto urbano o chi invece decide di scappare dalla città
e andare a coltivare la terra. Favole ci dice che si avverte
un diffuso bisogno di “fare”, di ricorrere a mani
rimaste a lungo inoperose.
Il recupero del fare è anche una reazione al ruolo di
consumatori passivi; in tempi di crisi molti cercano di arrestare
il flusso dei consumi, rimettendo in azione le mani. Il “fare”
non è un'attività ancillare e secondaria rispetto
al conoscere, ma è espressione di quel sapere incorporato
in cui forma e materia si compongono in una tessitura complessa
e inestricabile.
Bisogna porre attenzione, praticare un fare artigianale contro
il fare industriale, perchè l'artigianalità garantisce
pluralismo, sperimentazione e creatività. Favole conclude
il capitolo sul saper fare portando l'attenzione del lettore
sul voto, un gesto visto ormai da molti (e non certo solo dagli
anarchici) come consumo passivo di un diritto, sottoposto ai
condizionamenti delle “fabbriche” del consenso,
questa insoddisfazione generalizzata lascia spazio all'evocazione
di forme magari più artigianali e tuttavia più
attive di partecipazione politica. Una bella sfida per la civiltà
del fare che si profila all'orrizonte. (A. Favole, pag. 115)
Andrea Staid
|