migranti/2
Messi al centro
di Emanuele Pelilli
Non dell'attenzione e della
solidarietà, ma di luoghi di segregazione: i CIE.
Al loro interno si manifestano i cortocircuiti delle democrazie
contemporanee.
L'acronimo sta per “centro
di identificazione ed espulsione” per immigrati, cioè
per quelle strutture previste dalla legge italiana per trattenere
gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione
e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera”
nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile.
Essi sono stati istituiti in ottemperanza a quanto disposto
all'articolo 12 della legge Turco-Napolitano (L. 40/1998).
I C.i.e hanno cioè la funzione di “evitare la dispersione
degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la
materiale esecuzione, da parte delle forze dell'ordine, dei
provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari.”1
La loro è dunque una funzione amministrativa di sicurezza
e di controllo dell'immigrazione irregolare all'interno del
territorio italiano.
Il C.i.e. è ultimamente una delle istituzioni più
controverse all'interno del dibattito politico, per la sua ambiguità
e opacità - a livello legislativo - e per la sua gravità
e violenza - a livello umano. Può essere visto come il
laboratorio privilegiato in cui osservare i cortocircuiti e
la violenza immanente alle contemporanee democrazie: il C.i.e
nel nostro tempo assurge dunque ad uno status di paradigma,
caso particolare che, attraverso la sua particolarità,
rimanda e getta luce su tutto un sistema di relazioni e di politiche.
Nelle poche pagine di un articolo è impossibile trattare
quindi esaurientemente un fenomeno tanto complesso da far vacillare
le sicurezze del nostro stato di diritto, ma proveremo comunque
a tematizzare i principali nodi problematici.
Campo e stato d'eccezione permanente
Innanzitutto il C.i.e. è un campo, cioè
un luogo spazialmente limitato, da cui non è possibile
uscire, che si definisce per il suo carattere temporalmente
e giuridicamente provvisorio. È uno spazio di segregazione
che gestisce esseri umani che, per svariati motivi, si trovano
ad essere temporaneamente al di fuori del diritto, e in attesa
di essere ri-sistemati in esso. Non fa parte né del settore
civile, né di quello detentivo e penale del diritto,
ma di quello amministrativo.
Che cos'è dunque un campo? E quali sono stati i primi
esempi storici? L'analisi dell'ambito della loro nascita porta
alla comprensione di vari elementi basilari.
I primi campi possono essere fatti risalire al contesto coloniale:
i campos de concentrationes creati dagli spagnoli a Cuba
nel 1896 per reprimere l'insurrezione della popolazione della
colonia, e i concentration camps in cui gli inglesi agli
inizi del 1900 ammassarono i boeri. Da qui il modello-campo
viene mutuato dall'esperienza concentrazionaria nazista, dove
la sua base giuridica si trovava nella Schutzhaft, cioè
la custodia protettiva: un istituto giuridico di derivazione
prussiana con carattere non carcerario, ma di polizia preventiva,
strettamente legato alla legislazione sullo stato d'assedio.
Ciò che accomuna questi due casi, come tutti i campi
esistiti ed esistenti, è la spazializzazione e la concretizzazione
in un luogo, dello stato d'eccezione:
“La novità è che, ora questo istituto viene
sciolto dallo stato d'eccezione su cui si fondava e lasciato
vigere nella situazione normale. Il campo è lo spazio
che si apre quando lo stato d'eccezione comincia a diventare
la regola. In esso lo stato d'eccezione, che era essenzialmente
una sospensione temporale dell'ordinamento, acquista un assetto
spaziale permanente che, come tale, rimane, però, costantemente
al di fuori dell'ordinamento normale.”2
Popolazione in eccedenza e diritti dell'uomo
Perché il campo nasce proprio in ambito coloniale? E
perché continua ad operare sotterraneamente ancora oggi
in un ambito – se non coloniale – comunque legato
a dei soggetti considerati stranieri o comunque non cittadini?
E perché i campi non nascono dal diritto, ma dallo stato
d'eccezione? Davide Cadeddu nel suo “CIE e complicità
delle organizzazioni umanitarie” sintetizza così
una possibile spiegazione:
“I diversi campi si caratterizzano quindi come il
solo spazio possibile cui ricondurre e confinare l'umanità
in eccesso e in movimento, spesso costretto e forzato. Ciò
avviene probabilmente come risultato di una costruzione sociale
che, operando su questa umanità in movimento che attraversa
i confini, le assegna uno statuto d'eccezione, caratterizzato
dall'eccedenza, ed è probabile che sia proprio lo statuto
d'eccedenza di questa umanità a dare un senso ai
campi. In altre parole i campi esistono e acquisiscono la
loro natura ontologica, la loro forma, in funzione proprio
della presenza di questa porzione di umanità che un
intellettuale brillante come Bauman definisce sovrappopolazione,
consumatori difettosi, popolazione in esubero, individui emarginati
o in soprannumero, parassiti. I campi si caratterizzano
per questo motivo come luoghi a perdere per soggetti
a perdere, come una risposta che eccede per soggetti
che eccedono.”3
Non è quindi un caso che i campi nascano in ambito
coloniale, ma anzi è proprio l'esigenza di gestire uomini
che non siano cittadini di uno stato nazione, ma apolidi, popolazione
in eccedenza, a portare a questi esiti.
Ed è proprio perché i diritti dell'uomo, che si
vorrebbero universali ed inalienabili, risultano in realtà
essere pensabili solo in quanto diritti del cittadino - proprio
quando ad un essere umano manca la cittadinanza infatti fuoriescono
tutti i cortocircuiti di un diritto che non sa come gestire
ciò che sfugge alla sua presa, che vorrebbe onnicomprensiva4
– proprio per questo dunque non esiste una legislazione
interna ai campi, ma una semplice amministrazione. Laddove infatti
un detenuto – in quanto cittadino di uno Stato nazione
– è tutelato dal diritto carcerario, un immigrato
– o un indigeno di una colonia a inizio ‘900 –
non è nient'altro che nuda vita, potenzialmente sottoponibile
ad ogni tipo di trattamento.
E inoltre, tra questa umanità in eccedenza e la forma
campo c'è un rapporto dinamico: non solo i campi esistono
come risposta alla problematica di questa umanità in
eccedenza, ma il campo stesso modella e dà forma a questa
umanità. Come abbiamo già sottolineato a proposito
del meccanismo del “produrre sovranità”,
il concetto di campo come unità dinamica rende possibile
considerare il campo contemporaneamente come soggetto e oggetto
che dà e riceve forma.5
Con questo paradigma epistemologico è più facile
individuare le relazioni biunivoche tra ambiente e individui,
e le loro reciproche trasformazioni. Il campo ha cioè,
in quanto unità dinamica in stretto rapporto con l'ambito
della sovranità, una capacità biopolitica propria,
una dimensione produttiva di corpi e individui docili: suo scopo
è creare delle non-persone, facilmente addomesticabili
e sottomissibili, esattamente come avveniva in ambito coloniale.6
E già in “Le origini del totalitarismo” Anna
Arendt vedeva i campi di internamento come surrogati del territorio
nazionale in cui confinare individui che non vi appartengono,
l'unica patria che il mondo può offrire all'apolide.7
Oggi come negli anni '30 in cui la Arendt parla, i campi sono
il luogo che incombe su individui fuori posto, che condividono
una condizione di marginalità ed eccedenza. Per l'intellettuale
martinicano Airnè Cèsaire ciò che caratterizza
i fascismi europei è proprio l'importazione nel cuore
dell'Europa di pratiche coloniali sperimentate dagli europei
nelle proprie colonie: ed è proprio questo il tabù
infranto dal nazismo con Auschwitz, applicare su cittadini europei
quello che fino ad allora era concepibile solo per i sudditi
delle colonie. E allora come oggi, il Cie è un campo,
è ciò che resta dell'esperienza totalitaria nazista
all'interno delle nostre democrazie: risponde alle stesse esigenze,
mantiene la stessa forma.
Il significato della forma
Infatti perché internare e detenere esseri umani che
non hanno commesso nessun reato? Perché essere al di
fuori del diritto è già in sé un reato?
Il problema fondamentale è proprio quello filosoficamente
basilare del “dare forma”. A mio parere questo “dare
forma” opera a vari livelli: quello giuridico, quello
biopolitico, e quello economico.
A livello giuridico l'apolide è un problema per lo stato
di diritto proprio in quanto si trova al di fuori di esso, le
sue azioni si pongono cioè in una zona anomica che crea
un cortocircuito all'interno del diritto che si vorrebbe onnipresente,
e come insegna Walter Benjamin in “Per la critica della
violenza”, ogni istanza che si trova al di fuori del diritto
lo mette in discussione, e per questo il diritto non può
tollerarla e deve reinscriverla dentro di sé, o eliminarla.8
A livello biopolitico, la forma campo è l'eredità
che abbiamo ricevuto dalle guerre coloniali e dall'esperienza
nazista. Secondo l'analisi agambeniana infatti è proprio
il meccanismo di esclusione-inclusione all'interno del diritto,
che lo stato d'eccezione (e di conseguenza il campo) opera,
a catturare la nuda vita all'interno delle maglie del potere.
Nell'eccezione, ciò che è escluso dalla norma,
non è senza rapporto con la norma, anzi ne fonda un'iscrizione
più profonda, non ad un livello semplicemente giuridico,
ma a livello biologico:
“In quanto i suoi abitanti sono stati spogliati di
ogni statuto politico e ridotti integralmente a nuda vita,
il campo è anche il più assoluto spazio biopolitico
che sia mai stato realizzato, in cui il potere non ha di fronte
a sé che la pura vita biologica senza alcuna mediazione.”9
Controllare e disciplinare nude vite risulta infinitamente
più invasivo rispetto a gestire vite culturalmente ed
eticamente connotate. La cura amministrativa dei campi è
diretta proprio all' “animalizzazione” e al dare
forma a queste esistenze, al modificarle nelle loro istanze
più naturali.
Il dare forma a livello economico si esplica invece nel creare
manodopera docile e a basso prezzo. Proprio il livello economico
rende concretamente intellegibile la funzione del Cie, altrimenti
difficilmente giustificabile. I Cie infatti hanno una scarsa
efficacia nell'espellere i migranti, cioè in quella che
dovrebbe essere la loro funzione principale. Il numero di migranti
rimpatriati attraverso i Cie rispetto al totale degli immigrati
clandestini presenti in Italia è infatti pari a meno
dell'1%: si nota intuitivamente come in questo ambito siano
assolutamente inutili. Sembra allora chiaro che la loro funzione
principale sia un'altra, al di sotto del loro livello di apparenza:
e cioè la messa a lavoro diretta o indiretta dei migranti,
la creazione di non-persone pronte a tutto pur di non essere
espulse e rimpatriate:
“Il lavoro di un clandestino è per definizione
lavoro nero: precario, a cottimo, senza limiti orari, senza
minimi salariali, senza rispetto per le norme di sicurezza,
senza possibilità di rivendicare condizioni migliori.
(...) La reclusione arbitraria e la minaccia d'espulsione
predispongono, a un livello intrapsichico profondo, il migrante
allo sfruttamento. (...) I Cie, alla luce delle considerazioni
finora svolte, possono legittimamente essere pensati, perché
messi a punto, come quei luoghi fisici dove i migranti possano
essere addestrati al loro nuovo ruolo sociale di lavoratori
privi di diritti e destinati all'invisibilità sociale,
pena l'espulsione.”10
Indistinzione e amministrazione
[...] La gestione dei Cie, in quanto localizzata nell'ambito
amministrativo, viene relegata a delle particolari organizzazioni
umanitarie. E proprio in questo c'è tanto più
lo scandalo, che a ben guardare, si rivelerà solo apparente.
Nel secolo in cui le guerre diventano sempre più esclusivamente
interventi umanitari (grazie al termine guerra umanitaria
si è reso sempre più accettabile nell'immaginario
collettivo il conflitto bellico), la gestione degli esseri umani
si sposta sempre di più verso questo paradigma, proprio
in quanto maggiormente ambiguo e meno direttamente attaccabile.
Si è venuto a creare un vero e proprio imperialismo
dei diritti umani, che dà il permesso ad uno Stato
di intervenire con la violenza nella politica di altri Stati,
spinto dalla mistificazione ideologica del dovere di ingerenza
umanitaria e del dovere di civilizzazione.
Allo stesso modo nei Cie, la loro gestione umanitaria, sembra
garantirgli una legittimità che essi non hanno. Proprio
in quanto non si è in presenza di reati commessi, il
potere si esercita su queste persone in quanto esseri viventi,
vite biologiche, nude vite. Il potere statuale e repressivo
si è cioè trasformato, secondo la lezione di Foucault,
in potere disciplinare: per far questo ha bisogno non più
e non solo di leggi, quanto di controllo e di lavoro sui corpi.
E questo è esattamente quello che avviene nei Cie: non-persone
vengono discriminate in quanto non cittadini, private di ogni
dignità giuridica, vengono disciplinate e ammaestrate.
E forse, noi tutti cittadini delle democrazie contemporanee
siamo in un Cie, viviamo in un campo: più grande, senza
sbarre, più comodo, ma gestito allo stesso modo. Laddove
lo stato d'eccezione è la regola, il potere si applica
direttamente e senza mediazioni sulle nostre vite naturali,
la polizia è sovrana e siamo soggetti al suo arbitrio.
Il Cie è cioè la punta dell'iceberg, l'esplicitazione
di un modo di governare, che getta luce sulla gestione degli
uomini nelle democrazie spettacolari.
Emanuele Pelilli
Note
- www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazione/sottotema006.html.
- Cit. in G. Agamben, Che cos'è un campo?, in
Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino, 1996,
pp. 36.
- D. Cadeddu, CIE e complicità delle organizzazioni
umanitarie, Sensibili alle foglie, 2013, p. 32.
- “Nel sistema dello Stato-nazione, i cosiddetti diritti
sacri e inalienabili dell'uomo si mostrano sprovvisti di ogni
tutela nel momento stesso in cui non è più possibile
configurarli come diritti dei cittadini di uno Stato. (...)
Che per qualcosa come il puro uomo in sé non ci sia,
nell'ordinamento politico dello Stato-nazione, alcuno spazio
autonomo, è evidente quantomeno per il fatto che lo statuto
di rifugiato è stato sempre considerato, anche nel migliore
dei casi, come una condizione provvisoria, che deve condurre
o alla naturalizzazione o al rimpatrio. Uno statuto stabile
dell'uomo in sé è inconcepibile nel diritto dello
Stato-nazione.” Cit. in G. Agamben, Al di là
dei diritti dell'uomo, in Mezzi senza fine, Bollati
Boringhieri, Torino, 1996, pp. 23, 24.
- K. Lewin, Risolvere i conflitti sociali: teoria dei campi,
in Scienze sociali, Paperbacks, Milano, 1997.
- “Dare forma implica una dimensione produttiva,
positiva, di cui sono contemporaneamente investiti i
campi e gli individui che li attraversano. Intendo qui il concetto
di dimensione produttiva in termini non economici ma
ontologici, vale a dire come elemento prometeico e plasmante,
come capacità propria di dare forma, dell'individuo sul
campo e del campo sull'individuo.” Cit. in D. Cadeddu,
CIE e complicità delle organizzazioni umanitarie,
Sensibili alle foglie, 2013, p. 33.
- “Ogni tentativo, da parte di conferenze internazionali,
di istituire uno stato giuridico per gli apolidi è fallito
perché nessuno status internazionalmente garantito poteva
sostituire il territorio dove cacciare uno straniero indesiderato.
Tutte le discussioni sul problema si sono imperniate da oltre
trent'anni a questa parte su un solo interrogativo: come si
può rendere nuovamente esiliabile un profugo? L'unico
surrogato pratico del territorio nazionale di cui è privo
sono sempre stati i campi d'internamento.” Cit. in A.
Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità,
Torino, 1999, p. 389.
- “Il diritto considera la violenza nelle mani della persona
singola come un rischio o una minaccia di scalzare l'ordinamento
giuridico. (...) Bisognerà forse, invece, prendere in
considerazione la sorprendente possibilità che l'interesse
del diritto a monopolizzare la violenza rispetto alla persona
singola non si spieghi con l'intenzione di salvaguardare i fini
giuridici, ma piuttosto con quella di salvaguardare il diritto
stesso. E che la violenza, quando non è in possesso del
diritto di volta in volta esistente, rappresenti per esso una
minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua
semplice esistenza al di fuori del diritto.” Cit. in W.
Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus
Novus, Einaudi, Torino, 1995, p. 9.
- Cit. in G. Agamben, Che cos'è un campo?, in
Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino, 1996,
pp. 38.
- D. Cadeddu, CIE e complicità delle organizzazioni
umanitarie, Sensibili alle foglie, 2013, p. 55.
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