Il paese dei sogni infranti
testo e foto di Santo Barezini
Give me your tired, your poor
Your huddled masses yearning to breathe free,
the wretched refuse of your teeming shore.
Send these, the homeless, tempest-toss to me,
I lift my lamp beside the golden door!
Emma Lazarus (1883)
Vivendo a New York mi accade di riflettere sulla questione
della libertà. Come non pensarci? La libertà è
il mito fondativo di questa nazione nata dalla rivolta contro
l'oppressione coloniale. È al cuore della dichiarazione
d'indipendenza e della costituzione americane.
A New York la libertà è anche fusa nel bronzo
di uno dei monumenti più famosi al mondo: quattro milioni
di turisti, ogni anno, affrontano severi controlli pur di poter
ammirare da vicino la grande statua che rappresenta la dea romana
Libertas.
Prima dell'era dell'aviazione commerciale chi veniva fin qui,
carico di sogni e speranze, arrivando veniva accolto da quella
dea dallo sguardo enigmatico. La Statua della Libertà,
con la sua torcia innalzata verso il cielo, ha salutato l'arrivo
di milioni di migranti. Le navi con i nuovi arrivati, rifiuti
di altre sponde in cerca di futuro nella terra promessa, transitavano
nei pressi del colosso, posto su un'isoletta all'ingresso della
baia. I migranti osservavano stupiti il bronzo ossidato dalla
salsedine, intuivano, anche nella nebbia, l'approdo vicino e
sentivano crescere la speranza. Di lì a poco avrebbero
però conosciuto un altro volto dell'America, nei modi
bruschi dei mastini della frontiera, che avrebbero deciso chi
ammettere nel paese della libertà e chi invece restituire
al suo destino. I nuovi arrivati, sbarcando nella vicina Ellis
Island per le procedure doganali, si scontravano subito con
questa prima contraddizione: la terra promessa era per molti,
ma non per tutti, occorreva esservi ammessi e qualcuno (le statistiche
ufficiali dicono il 2%) veniva respinto, restituito al suo destino
senza neanche aver messo piede sulla terraferma, anche se magari
aveva un figlio, una sorella o un marito in trepida attesa sulla
banchina.
Gli ammessi, la grande maggioranza, sbarcavano infine in questa
città, già allora caotica e disordinata, e si
guardavano attorno spaesati, perduti, prima di disperdersi nei
mille rivoli della vita, in cerca di fortuna. Scoprivano
allora una seconda contraddizione: questo era davvero il paese
delle mille opportunità, qui era possibile cambiare un
destino altrove segnato di generazione in generazione. Ma per
chi poi non ce l'avrebbe fatta non c'era una mano tesa. Molti
si sarebbero assicurati un futuro migliore. Molti altri sarebbero
stati destinati a una vita ai margini, forse anche più
grama di quella lasciata alle spalle. Bisognava imparare in
fretta a sopravvivere in questa terra estranea e chi non ce
la faceva finiva negli slum della Lower East Side,
a condurre una vita misera in condizioni drammatiche. Là
imperava lo sfruttamento e il lavoro minorile era la regola.
Una presenza lontana
Fu la famosa inchiesta: “How the other half lives”,1
del giornalista danese Jacob Riis, nel 1890, a denunciare questo
scandalo e costringere le istituzioni a intervenire, per migliorare
le condizioni di vita negli slum di Manhattan. Oggi le cose
sono cambiate: la Lower East Side è divenuta posto per
benestanti, i costi degli affitti sono alle stelle e sono altri
i quartieri poveri di New York. Ma non è raro, aggirandosi
per i quartieri bene di Manhattan, incontrare giovani homeless
accampati per strada, magari addossati ai grattacieli abitati
da manager e artisti di grido. Nelle file dei diseredati di
oggi c'è un po' di tutto, persino ex militari che non
ce l'hanno fatta a reintegrarsi nella vita civile: anche per
loro, che hanno “servito la patria” e magari rischiato
la pelle per garantirne l'opulenza, non c'è una mano
tesa, se non quella dei molti che, passando, lasciano qualche
dollaro nei bicchieri sporchi, protesi a mo' di cappello.
Intanto la Statua della Libertà troneggia ancora all'ingresso
della baia ma ho l'impressione che i newyorchesi l'abbiano dimenticata,
lontana com'è dalla vista e dalla quotidianità.
Per il nuovo arrivato, invece, è meta indispensabile,
luogo di un pellegrinaggio che anch'io ho voluto fare, in una
grigia giornata autunnale.
Ho scoperto così che i versi enigmatici con cui prende
avvio la “Ballata di Sacco e Vanzetti”2,
quel dolce, lento, straziante: “Give to me your tired
and your poor…”, che ancora oggi mi emoziona ascoltare,
Joan Baez li prese a prestito da un sonetto che la poetessa
newyorchese Emma Lazarus, alla fine dell'ottocento, aveva dedicato
alla statua e a ciò che simboleggiava. In quei versi
era contenuto il sogno di chi sentiva di vivere in una terra
nuova destinata ad accogliere amorevolmente le masse dei diseredati.
Per la Lazarus e per tanti altri, la statua sarebbe dovuta divenire
il simbolo di un paese destinato a offrire riparo e protezione
dalle tempeste e dai naufragi della vita. La lampada, protesa
verso il cielo, sarebbe stata come il faro che annunciava l'approdo
sicuro a chi in America arrivava per sfuggire a fame e persecuzioni.
Le catene spezzate, poste ai piedi della statua, volevano infatti
simboleggiare la libertà che gli Stati Uniti avevano
pagato a caro prezzo affrancandosi dalla corona britannica,
ma donavano gratuitamente a chi avesse voluto fare dell'America
la sua nuova patria.
Quei versi, belli e ingenui, il visitatore li trova scolpiti
nel bronzo, ai piedi del colosso. Joan Baez li ha in qualche
modo dissacrati, inserendoli all'inizio della sua ballata e
facendoli subito seguire da quell'evangelico: “Blessed
are the persecuted”, beati i perseguitati, riferito
evidentemente a Sacco e Vanzetti. Per i molti americani che
credono nel “God bless America” deve essere stato
sconcertante.
Ho così capito che Joan Baez, nel 1971, non solo aveva
scritto e magistralmente interpretato una canzone bellissima
e drammatica, ma aveva anche compiuto una coraggiosa operazione
intellettuale che, personalmente, non avrei mai colto se non
mi fossi ritrovato davanti il sonetto approdando a Liberty Island.
Raccontando la persecuzione dei due anarchici italiani a partire
da quei versi, la cantautrice newyorchese ha toccato un nervo
scoperto e messo in luce le contraddizioni di un'America che
il sogno della libertà forse non l'ha mai abbandonato
ma l'ha spesso tradito, umiliato, nella tratta degli schiavi,
nelle deportazioni degli indiani, nella persecuzione delle minoranze,
nei ghetti della miseria, nella segregazione razziale. Un sogno
spesso imprigionato nelle carceri e qualche volta assassinato
sulla sedia elettrica.
Del resto la stessa cantautrice ha pagato a volte il conto di
una vita spesa in battaglie per la giustizia e contro la guerra,
finendo lei stessa in carcere: “Mi hanno arrestata per
aver turbato la pace”, ebbe a dichiarare una volta con
delicata ironia, “e pensare che io volevo solo turbare
la guerra”.
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New York (USA) - Emma Lazarus, volto serio e quasi sofferto, da qualche anno ha trovato il suo posto nella quiete dei giardini che circondano la statua della libertà a Liberty Island |
Ma quale libertà?
Sacco e Vanzetti furono perseguitati per le loro idee e perchè
erano italiani e su quella sponda giudiziaria si è infranta
anche l'illusione di Emma Lazarus e ancora oggi l'equità
del sistema giudiziario americano è sul banco degli accusati
per chi ha davvero a cuore la giustizia e la libertà
in questo paese.
A volte mi chiedo cosa sia esattamente questa libertà
di cui l'America va fiera. Curiosando nelle classifiche, tanto
care agli americani, ho trovato dati contrastanti: il think-tank
conservatore The Heritage Foundation colloca gli Stati
Uniti al dodicesimo posto nella classifica mondiale della libertà
economica. Ma con Reporter senza frontiere gli USA scivolano
addirittura al quarantanovesimo posto nell'Index mondiale sulla
libertà di stampa. Sono dati poco lusinghieri.
Dal mio piccolo osservatorio quotidiano penso che i senzatetto
seduti sulla soglia degli epuloni sempre più scandalosamente
ricchi, i quartieri poveri popolati di nuovi migranti, i barboni
accampati attorno alle chiese, gli innocenti in carcere, i giovani
neri che escono dalle scuole dei loro quartieri semianalfabeti
e senza futuro, i salari minimi scandalosamente bassi, siano
altrettanti segnali del disagio di questa società.
Ma non è solo questione di povertà. La libertà
mi appare zoppicante anche per noi privilegiati che non dobbiamo
elemosinare un pasto caldo e un letto in uno dei tanti shelter
comunali di New York. Mi sento a volte soffocare. E pensare
che arrivando a New York credevo di ritrovarmi in uno spazio
mentale e fisico di grande libertà. Sapevo di venire
in una città piena di stimoli, abitata e visitata da
artisti e da creativi che qui si sentono svincolati dai condizionamenti
della vecchia cultura europea. Sapevo di ritrovarmi in un luogo
dove diritti da noi ancora negati sono pienamente riconosciuti,
basti pensare ai matrimoni gay che si celebrano ogni giorno
presso il municipio di New York, totalmente equiparati a quelli
eterosessuali. A dispetto di tutto ciò mi sono ritrovato
imprigionato in una fitta rete di regole e divieti opprimenti
che i newyorchesi sembrano accettare con serena rassegnazione.
A ciò si deve aggiungere l'ossessione per la sicurezza
che, dopo l'11 settembre, ha trasformato la città, dando
a volte la sensazione di trovarsi nella Berlino Est dei tempi
tristi della DDR. Siamo infatti tutti controllati da un numero
impressionante di addetti alla sicurezza pubblici e privati:
dalla onnipresente polizia ai portieri dei palazzi, tutti scrutano,
annotano, segnalano, identificano, schedano.
Ma forse il terrorismo è solo un pretesto. Secondo l'avvocato
Harvey Silverglate l'americano medio, senza saperlo, commette
circa tre reati al giorno e questo solo tenendo conto della
legge federale, a cui si devono aggiungere le normative dei
singoli stati.3
Mi sento di dargli ragione: ho conosciuto un uomo finito davanti
al giudice per essere stato sorpreso a orinare nel Central Park,
una donna condannata per aver venduto il proprio biglietto della
metropolitana ad un ragazzo, un giornalista arrestato per aver
intralciato la circolazione: era sceso dal marciapiede per fotografare
meglio una manifestazione contro la polizia.
È questa la libertà che i padri fondatori avevano
immaginato, la libertà testimoniata da Tocqueville? Conta
oggi soprattutto la libertà di impresa e tutte le altre
sono trascurate? Sono confuso. L'abbraccio della dea posta a
guardia della baia, forse un tempo amoroso, oggi mi appare una
stretta soffocante.
Presunzione e bugie
Tuttavia questa gente che mi circonda è generalmente
gentile, cordiale. I newyorchesi amano la loro città
e la vivono intensamente, con l'affanno di un mondo sempre in
corsa. Quando possono si fermano volentieri per una chiacchierata
e una risata anche con uno sconosciuto. Forse anch'io potrei
riuscire ad amare di più questa mia precaria residenza
sulla terra, coi suoi grattacieli di vetro e i palazzoni nerastri;
coi suoi ponti eleganti e le vecchie metropolitane; con i negozi
sfarzosi e le povere botteghe; i banchetti di libri usati per
la strada e le grandi biblioteche; con i volti di mille colori,
gli sguardi imbronciati del mattino e le risate sguaiate alla
sera; coi ragazzi spensierati che giocano a baseball o a basket
nei campetti pubblici e i ciclisti che sfrecciano pericolosamente
in mezzo al traffico caotico. Alle volte mi basta una passeggiata
serale per le strade di Harlem per ritrovare un po' di equilibrio,
incontrare gente normale e osservare le facciate delle case
imbevute della storia di questo quartiere.
Ma non basta. New York vive le sue molte contraddizioni, fra
poveri e ricchi, come ogni altro luogo sulla terra e potrei
amarla di più se non fosse il cuore dell'impero, una
bugia raccontata al mondo. Se non fosse per la presunzione degli
americani di sentirsi migliori, per la loro follia di pensare
Dio sempre dalla loro parte, di credersi investiti della missione
di portare in tutto il mondo il loro modello di vita. Se non
fosse che milioni di vittime del loro imperialismo armato sembrano
lasciarli indifferenti.
Se non posso amare la città posso però amarne
la gente. Non credo che tornerò ancora a scrutare il
volto della statua, ma sicuramente continuerò a guardare
con ammirazione quello, arrabbiato o gioioso, di chi scende
per strada, sfidando la repressione e accettando la possibilità
del carcere, per cambiare le storture.
La prima volta che io e mia moglie ci siamo sentiti in sintonia
con questa città è stato proprio in una di queste
occasioni, quando una grande manifestazione contro la polizia
razzista ha invaso pacificamente le strade del centro. Ci siamo
timidamente inseriti nel flusso del corteo e abbiamo sfilato
per le strade di New York, divenute improvvisamente familiari.
Immersi in quella folla multicolore, abbiamo camminato assieme
a loro, con le mani alzate davanti alla polizia, gridando: “Don't
shoot”, non sparate. Quegli uomini e quelle donne attorno
a noi ci hanno dato molta speranza. Forse per quella sola volta
noi, cittadini del mondo, ci siamo sentiti un poco anche cittadini
di New York.
Santo Barezini
Note
- ”Come vive l'altra metà”. Il titolo
era preso a prestito da una frase del Pantagruel di Francois
Rabeleis: “La metà del mondo non sa come vive
l'altra metà”. Il quinto capitolo è dedicato
alla condizione dei migranti italiani a New York.
- Sulle musiche di Ennio Morricone Joan Baez scrisse e interpretò
i testi per la colonna sonora del film: “Sacco e Vanzetti”
di Giuliano Montaldo.
- Harvey Silvegrate: “Three Felonies a Day”, pubblicato
nel 2009.
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