autogestione
Il diritto di ricostruire
di Federica Rigliani e Alessandro Tettamanti
Il 6 aprile 2009 un terremoto distrugge la città dell'Aquila. I primi interventi di aiuto e assistenza alla popolazione messi in atto dalla Protezione Civile seguono una logica emergenziale ed escludono i cittadini da ogni processo decisionale. Ma alcuni aquilani decidono di intraprendere un percorso di ricostruzione partecipato, opposto a quello imposto dalle istituzioni. Riportiamo in queste pagine la storia del Comitato 3e32 e del loro progetto CaseMatte. Nel nome dell'autogestione e della partecipazione attiva.
A Fabrizio, ingegnoso artigiano,
nostro compagno di lotte e nostro fratello di vita
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L'Aquila (Abruzzo), 16 giugno 2010. Una delle tante manifestazioni contro la cattiva gestione della “ricostruzione” |
Breve storia di una ricostruzione autogestita
di Federica Rigliani
Dopo il terremoto del 2009, il diritto della popolazione di partecipare attivamente alla ricostruzione viene negato. Le istituzioni realizzano progetti incentrati unicamente sull'assistenzialismo passivo. Ma alcuni aquilani decidono di riappropriarsi degli spazi cittadini, e...
Bisogna tornare indietro nel tempo per capire la storia di
CaseMatte, indietro di sei anni, e riportare la testa all'orrore
di una distruzione devastante che ha segnato in maniera repentina
e immediata la fine di tanto, per alcuni di tutto. Un orrore
roboante, un mostro terreno che dalla terra trasse la sua forza
e sulla terra la rigettò, portando tutto via con sé
quel 6 aprile del 2009. E la città dell'Aquila fu distrutta
insieme alla miriade di paesini che costituivano il vasto interland
della sua provincia.
La devastazione fu totale: uomini, donne, anziani, anziane,
bambini, bambine e adolescenti rimasero inermi e silenziosi.
Il giorno dopo, la mattina del 7 aprile, il grande esodo disgregava
già la comunità aquilana in “quelli della
costa”, oltre 40000 persone, e “quelli delle tende”,
quest'ultimi abitanti inesistenti di gironi infernali il cui
silenzio era rotto solo da tonfi di ciò che continuava
a cadere giù scossa dopo scossa, dal rumore dei grandi
mezzi di soccorso dei Vigili del Fuoco e da quello dei motori
di automobili di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.
Attoniti e increduli, nei giorni immediatamente successivi al
terremoto siamo rimasti inerti spettatori, poi lentamente pensieri
fino a quel momento sopiti sotto il peso della tragedia hanno
ricominciato a fare capolino e noi abbiamo sentito fortissimo
il bisogno di vederci. Ma in tutto il territorio si stava dando
una militarizzazione senza pari e nelle tendopoli si generava,
giorno dopo giorno, uno stato di polizia sempre più stretto
e asserragliante.
I diritti “normali” venivano negati in nome di un'”emergenza”
che non ha mai voluto tenere conto degli individui che lì
abitavano. Non solo non potevamo incontrarci, non potevamo nemmeno
vedere parenti e amici se non dopo aver esibito i documenti,
più volte al giorno fotocopiati dai volontari che le
gestivano, ogni qual volta volessimo entrare in una tendopoli
di non appartenenza.
Era snervante e umiliante. Era iniziato il grande esperimento
Modello L'Aquila, quello che ci avrebbe portato a un assistenzialismo
passivo da ricevere a testa china e spalle basse. La cooperazione
e la partecipazione attiva in quelli che diventavano i nuovi
spazi del “vivere”, se così si possono chiamare
i non luoghi di quel limbo durato molti mesi, venivano negate
in nome di un'efficienza che poteva essere garantita, a detta
della Protezione Civile che aveva preso in mano tutto, solo
dai volontari della Croce Rossa e della Misericordiae per fare
qualche esempio, senza continuare la lista e dilungarmi sugli
acronimi. Così fu negata, con decisione autoritaria,
la ripresa di una normalità esterna e interna ai campi.
Fuori, nelle strade che percorrevi, incontravi solo divieti,
sbarramenti, infinite Zone Rosse delimitate da transenne e militari
ad ogni angolo che esercitavano un forte controllo, mentre tu,
sgomento, eri solo alla ricerca di familiarità, di storie
personali, di spazi e luoghi che ti apparivano altro, perché
sepolti o polverizzati, ma lì eri cresciuto e lì
cercavi di ritrovare un ricordo da trattenere.
Non era più normale camminare per strada. E non ci si
poteva più incontrare. Dentro, nelle tendopoli, si costruiva
una realtà assistenziale che impediva partecipazione
e presenza, quando era enorme il bisogno di partecipare alla
costruzione di una normalità alla quale ognuno avrebbe
potuto contribuire con quello che sapeva e poteva fare, con
le proprie capacità e le proprie forze. Il divieto imperava.
Nulla era possibile. Nessuna donna abruzzese ha mai potuto mettere
piede in una mensa per gestirla in maniera condivisa, né
per cucinare in turni, né per garantirne la pulizia e
l'ordine. Nessun produttore locale ha potuto mai rifornire quelle
mense con i prodotti che ancora poteva assicurare e anche l'economia
a chilometro zero, rinchiusa nell'impossibilità di esistere,
cominciò a languire: tutto ciò che si consumava
veniva da fuori, persino latte e pane. Nulla di ciò che
si organizzava e si decideva passava da cittadini e cittadine
che avrebbero dovuto, invece, essere messi nella condizione
di riappropriarsi di qualche piccolo ritmo di normalità
e, soprattutto, sentirsi parti attive e ancora vive in un cratere
in cui era difficile anche emettere suoni, voci, lamenti...
Invece, potevi solo stare seduto, aspettare e metterti in fila.
Aspettavi che arrivassero i Sebach, gli antibiotici, gli stabilizzatori
dell'umore, l'ora dei giochi ricreativi per i bambini e ti mettevi
in fila per la colazione, per il pranzo e per la cena. Aspettavi
passivamente e senza partecipazione alcuna, tra una goccia e
l'altra di antidepressivi i più colpiti, gli altri sotto
il disagio dell'impossibilità di continuare ad essere
presenti e sentirsi, in qualche modo, seppur in quel assurdo
modo, vivi.
Assistiti in tutto, con la testa china su un tempo sospeso e
dilatato dall'inazione. L'assistenzialismo vinse e la popolazione
tutta fu ridotta a un numero ingente di persone passivizzate
in tutto: “La calamità è stata affrontata
in modo paternalistico e centralista” diceva David Alexander,
esperto europeo di grandi disastri e curatore di una ricerca
sul post terremoto in Abruzzo.
In pochissimi giorni cominciò a diventare sempre più
disumanizzante sottostare alle leggi di una Protezione Civile
che negava partecipazione a persone pensanti e bisognose di
sentirsi operative, ma in tanti sentivamo l'importanza di esserci,
discutere e proporre. Volevamo sentirci cittadini attivi nel
processo di ricostruzione di una città stretta nella
morsa delle macerie e illuminata solo dai fari di passerelle
mediatiche che si accendevano sul silenzio delle nostre crepe.
Nessun'alba si sarebbe affacciata per risvegliarci da quello
che non era un incubo, ma un luogo dove incontrarci non ce l'avevamo.
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Due immagini di Fabrizio Pambianchi, a cui è dedicato questo dossier, uno dei protagonisti del collettivo 3e32 |
Una prima sistemazione autonoma
Il 19 aprile del 2009 ci siamo dati appuntamento in un piccolo
parco pubblico, il Parco Unicef, lungo una via disabitata, via
Strinella. In men che non si dica il Parco Unicef si è
colorato di tende, le nostre tende, e di camper, i nostri
camper. Poi arrivarono i raccordi dell'acqua, i tubi per portarla
in una cucina che giorno dopo giorno prendeva forma con quel
lavandino di lamiera che raccoglieva le pentole sporche... Il
comune donò un tendone per le riunioni, arrivarono tavoli
e sedie e iniziò una gestione dal basso con turni per
la pulizia degli spazi. In poco tempo il Parco Unicef era diventato
la nostra “autonoma sistemazione”, lontano
dalla fiscalità e dai controlli delle tendopoli, un'infrastruttura
autogestita lontana dalla militarizzazione. Questo parco fu
il primo punto d'informazione cittadino grazie a un Medialab
con connessione Internet e postazioni computer; un luogo di
ospitalità anche per studenti fuori sede; un luogo di
aggregazione di un tessuto umano e sociale fortemente, se non
quasi completamente, disgregato.
Qui è nato il Comitato 3e32, grazie a donazioni e attività
di autofinanziamento nel parco Unicef, presto diventato per
tutti “Piazza 3e32”. Qui altri comitati cittadini
che si andavano costituendo - Collettivo 99, Rete Aq, Immota
Manet - e diverse associazioni si sono incontrati per discutere
i progetti che si volevano imporre in quello che, in 28 secondi,
era diventato il “cantiere più grande d'Europa”.
Obiettivo comune: seguire in maniera partecipata e attiva la
ricostruzione della nostra città e dei comuni interessati
dal sisma, ripartire immaginando un modo di vita per chi restava:
soprattutto gli anziani che non avevano intenzione di lasciare
la loro terra e le generazioni giovani e quelle future. Venne
deciso da subito il “No” alla realizzazione del
Progetto C.A.S.E., ovvero le 19 new-towns che vennero ben presto
costruite fuori città per “gli sfollati”.
Gruppi di lavoro aperti a tutti si sono occupati di mappatura
e contatti tra le tendopoli, monitoraggio fondi e appalti, informazione
e comunicazione, raccolta fondi ed elaborazione progetti. Qui
abbiamo potuto riprendere la parola. Da qui è stata promossa
un'attività culturale di cui tutta la città aveva
bisogno: la prima iniziativa è stata organizzata il 25
aprile in una città distrutta, deserta, spaventata e
muta.
A settembre del 2009, però, il parco è stato svuotato,
ripulito e restituito al quartiere. Non si poteva pensare di
affrontare il freddo aquilano all'addiaccio e noi ci siamo posti
il problema di dove poter continuare a incontrarci e promuovere
attività sociali e culturali. Quale luogo potevamo immaginare
sopra le nostre teste con un'intera città inagibile?
Aspettavamo, intanto, risposte dall'amministrazione rispetto
alle richieste da noi inoltrate per l'assegnazione di uno spazio.
Volevamo restare, questo lo sapevamo, rimanere con i piedi su
questa terra tremante, lavorare per ricostruire un tessuto sociale
e favorire l'aggregazione umana e culturale nel deserto che
ci circondava.
Ma le istituzioni e gli enti locali, che pure avrebbero dovuto
esse stesse porsi il problema dell'aggregazione culturale e
sociale dei giovani aquilani prima di ogni altra cosa, non rispondevano
e la socialità cominciava ad aggregarsi all'interno dei
pochi centri commerciali rimasti intatti, quelli che qualcuno
ha la faccia tosta di chiamare “moderne agorà”
in barba al rispetto che l'agorà merita. Così
il nostro motto divenne: “Gli aquilani no all'Aquilone”,
questo il nome di uno dei centri commerciali agibili da subito.
Le istituzioni e gli enti locali però non agivano, tacevano
e non rispondevano alle reiterate richieste da noi presentate
sulla possibilità di gestire uno spazio culturale. Nonostante
la contingenza rendesse questa richiesta sempre più impellente,
non ricevevamo risposte.
Abbiamo pensato, allora, di riqualificare qualche zona di quelle
non a rischio, lievemente danneggiate dal sisma e possibilmente
vicine al casco storico cittadino, quindi fruibili da tutti.
Contro ogni dispersione. Abbiamo analizzato varie possibilità,
poi abbiamo guardato con attenzione un piccolo stabile all'interno
del parco dell'ex Ospedale Psichiatrico di Collemaggio, una
bellissima città giardino della fine dell'800 proprio
dentro la città dell'Aquila.
La struttura individuata era un ex bar, in disuso e abbandonato
a se stesso molti anni prima del terremoto. Quello poteva essere
il posto da recuperare, così ce lo siamo preso e lo abbiamo
ristrutturato con la motivazione e il lavoro di tutti. Volevamo
iniziare un percorso di condivisione e impegno sociale, sperimentare
il lavoro con gli altri e vivere nuove pratiche di autogestione
condivisa.
Volevamo ricostruirci da soli e dal basso, non farci ri-costruire.
Non volevamo più vivere l'emergenza, ma iniziare un percorso
di autocostruzione e autorganizzazione. Così, ci siamo
ritrovati in un piccolo bar all'interno di un grande parco,
quello dell'ex ospedale Psichiatrico di Collemaggio, un'area
in cui le case erano un tempo “matte dentro” per
la tipologia degli ospiti. Da qui guardavamo le case della città
intorno, tutte rotte, case “matte dentro e fuori...”.
Avevamo trovato il nome!
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L'Aquila (Abruzzo), Quattro Cantoni e Piazza Palazzo, 28 febbraio 2010. Una delle “rivolte delle carriole” |
Benvenuta CaseMatte
E il 31 ottobre abbiamo aperto CaseMatte, divenuta da allora
la sede del Comitato 3e32. Quello che sembrava impossibile
diventava reale, cantavano i ragazzi della Zona Rossa
Crew, i nostri giovanissimi poeti rap delle macerie, e si
discuteva intorno a una stufetta, che per quanto piccola e assolutamente
insufficiente a scaldare lo spazio, scaldava i cuori e ci faceva
sentire bene.
Il bar riprendeva forma e si vestiva di tutto ciò che
arrivava dai proprietari di locali distrutti che recuperavano
quanto possibile e ce lo donavano, lo spazio era abitativo per
alcuni di noi e per chi aveva bisogno di un posto dove stare.
Cominciammo a costruire il Medialab con postazioni di lavoro,
attivammo la rete internet e ripristinammo vecchi computer in
disuso. Convogliammo qui tutti gli aiuti materiali ricevuti:
la fotocopiatrice donata da Epicentro Solidale, la Casetta delle
Donne donata dalla Rete Ladyfest Roma, il tendone donato da
Mauro Zaffiri, atto a assemblee ed eventi ma inadatto al freddo
aquilano, quindi potremmo definirlo un “tendone stagionale”.
Portammo avanti la logistica, operativa e efficiente, con tutti
i nostri sforzi, con tutto il nostro entusiasmo e con le donazioni
che ricevevamo.
Contemporaneamente
si preparavano eventi culturali, concerti, presentazioni di
libri e un'attività politica che ha permesso ai cittadini
e alle cittadine aquilane di confrontarsi, fare proposte, organizzare
campagne e forme di protesta.
Ciò che da qui è partito è sotto gli occhi
di tutti, la città conosce le centinaia di manifestazioni
e assemblee cittadine indette a CaseMatte sui problemi legati
all'emergenza abitativa o alla richiesta di esenzione dalle
tasse per restituirle con equità di trattamento rispetto
agli altri territori colpiti da calamità, come è
stato per esempio in Umbria. Da qui è partita la Campagna
“100% Ricostruzione, Trasparenza e Partecipazione”
e il Movimento delle Carriole che tanto smosse le autorità,
locali e nazionali, riguardo il problema della rimozione delle
macerie e il loro smaltimento. Carriole denunciate, perché
la repressione è l'unica cosa che le istituzioni, troppo
spesso, sanno esprimere.
Nel corso degli anni sono stati organizzati interventi di carattere
sociale e politico-culturale vari: dalla tutela e valorizzazione
del patrimonio ambientale e artistico, alla musica e allo sport,
oltre a iniziative di sensibilizzazione sulla mafia e la legalità,
sulla violenza sulle donne. L'acqua pubblica, la sostenibilità
ambientale, lo stop al consumo di suolo e i gruppi d'acquisto
solidale. Qui sono stati organizzati festival musicali, di poesia
e di teatro, sempre orientati allo scopo di favorire la ricomposizione
di una comunità cittadina e di un immaginario collettivo
lacerati dal sisma e dalle condizioni di vita post-sismiche,
all'insegna dei valori della solidarietà, del rispetto
e della tolleranza reciproci.
Oggi CaseMatte vive di sottoscrizione, autofinanziamento e autogestione.
Respira nonostante sia ancora tanta la polvere intorno, perché
CaseMatte è un luogo vivo, aperto e socialmente attivo,
dotato di una sala prove per gruppi musicali, di un laboratorio
multimediale, di una tensostruttura adatta ad ospitare eventi,
di un bar e di una cucina. Mp5 e To/Let lo hanno vestito
di forme e colori.
Dopo un anno lo abbiamo voluto festeggiare. Si auguravano a
vicenda buon compleanno i redivivi notturni di un 31 ottobre
che, qui all'Aquila, coniugò superbamente il mondo della
finzione con quello reale. Halloween era metafora della nostra
quotidianità: una città tomba in un buco nero,
in cui i rumori della vita continuavano a essere un ricordo,
circondato da quartieri dormitorio abitati da sepolti vivi.
Siamo partiti da CaseMatte con la Murga romana di Spartaco che
suonava tamburi e trainava, con un sound determinato e risoluto,
tutti quelli che arrivavano per essere trascinati in un corteo
che di funebre e tetro aveva solo i colori della tradizione
di questa festa. Zombi da neri abiti, avvolti da ragnatele,
filamenti gelatinosi e sangue immobilizzato in uno scroscio
di plastica rosso si aggiravano ciondolanti e sorridenti nelle
strade della città dell'Aquila. Visi tetri di trucco
sì, ma allegri nell'animo e nelle azioni, chiamavano
a sé cittadini e cittadine riemersi dalle nuove tombe,
quelle del Progetto C.A.S.E. E di fronte alla porta de Ju Boss,
antica cantina aquilana, vibravano alti i bicchieri nel battere
del brindisi. Bicchieri sollevati da mani emaciate e bianche,
le cui lunghe, lunghissime unghie disegnavano ombre mortifere
sui calici. Quella notte abbiamo camminato tutti insieme le
pochissime strade percorribili, contenti di sentirle di nuovo
sotto i piedi.
Ma i veri regali sarebbero arrivati di lì a poco! Denunce
e processi!
E siccome questo spazio, caratterizzato da un passato di Nosocomio
Psichiatrico, ci ha accolti e in qualche modo salvati, noi abbiamo
deciso di difenderlo. Due sono i fronti che oggi ci vedono
impegnati, la riqualificazione dell'area e il Processo a CaseMatte.
E mai, come ora, il nome ci appare più adatto: casamatta
s. f. [forse da casa matta, nel sign. di «edificio che
ha l'apparenza di casa ed è invece ben altra cosa»]
(pl. casematte). In origine, costruzione mobile che poteva essere
usata tanto dagli assalitori quanto dai difensori [...] opera
difensiva fissa, costruita dapprima al piede della scarpata
esterna, per la difesa del fossato, poi nell'interno della cortina
bastionata per contenere le bocche da fuoco (Definizione Dizionario
Treccani).
Federica Rigliani
Necessità sotto processo
di Alessandro Tettamanti
Nel 2010 prendono vita a L'Aquila le “rivolte delle carriole” e CaseMatte è il centro nevralgico. L'organizzazione di queste manifestazioni attiva la macchina della repressione che dà vita a delle indagini culminanti in un procedimento giudiziale. La battaglia per mantenere in vita il progetto autogestionario è ancora in corso.
Il processo per l'occupazione di CaseMatte è giunto ormai agli sgoccioli. Il prossimo aprile infatti arriverà la sentenza. Iniziò nel 2011, quando una carta notificò a dodici persone la fine delle indagini e l'inizio del procedimento giudiziale. Concordandolo con gli avvocati, abbiamo subito rilasciato una dichiarazione spontanea in cui ammettevamo che sì, nel settembre 2009 eravamo entrati nell'area perché ne avevamo forte necessità. Non avevamo alternative ed eravamo fortemente intenzionati a proseguire le attività iniziate nel Parco dell'Unicef, ossia quel percorso di ricostruzione sociale partecipata che si opponeva alla logica neo-coloniale ed emergenziale della Protezione Civile. Per farlo avevamo bisogno di uno spazio: se non ce lo fossimo preso saremmo morti, come infatti successe a molti altri comitati che si erano formati all'indomani del sisma. Esercitammo in poche parole il diritto a resistere ad un sistema che non avevamo accettato e a cui ci sentivamo in dovere di opporci.
Molti fatti venuti a galla riguardo quello stesso sistema nei mesi e negli anni successivi hanno dato ragione alla nostra scelta del tempo. Molti di noi, inoltre, avevano rifiutato ogni assistenza ed erano rimasti fuori dal circuito pilotato dalla Protezione Civile. Decidemmo ancora una volta di continuare a contare sulle nostre forze e di essere coerenti con le scelte fatte. In un primo momento sembrava si fosse trovato anche un accordo con la proprietà dell'area, la Asl. Poi, però, nel gennaio del 2010 - tramite il sistema dello spoil sistem - il direttore dell'Ente cambiò e ne arrivò un altro, diretta espressione della nuova Giunta Regionale di centro-destra di Gianni Chiodi.
A febbraio 2010 iniziarono le rivolte “del popolo delle carriole”. In particolare la giornata del 28 segnò uno spartiacque: migliaia di persone forzarono le grate, difese dalla polizia, per entrare nella zona rossa del centro storico ed iniziare a rimuovere ordinatamente e collettivamente le macerie di cui L'Aquila era ancora pienamente composta. Gli incantesimi di Berlusconi, che volevano L'Aquila già ricostruita, venivano continuamente infranti: la sua vetrina mediatica era stata rotta e le immagini di cittadini aquilani che lavoravano su cumuli di detriti iniziarono a fare il giro dei media nazionali e internazionali.
La cosa evidentemente iniziò a dare fastidio ai piani alti. La protezione civile era andata via a gennaio, erano appena uscite anche le intercettazioni degli imprenditori che ridevano la notte del terremoto e i giudici stavano iniziando ad indagare sul nuovo modello di Protezione Civile che si stava addirittura trasformando in una SPA.
Il Comitato 3e32 a L'Aquila in quei giorni iniziò ad avere un enorme consenso. È come se - ascoltate le risate - migliaia di aquilani in più avessero iniziato a dire: “Allora avevano ragione quei ragazzi a protestare”.
Centro nevralgico della rivolta delle carriole - che durò in varie forme fino a maggio 2010 - era proprio CaseMatte. Non è un caso quindi se i primi esposti della proprietà con a capo il nuovo manager, contro la nostra presenza nell'area, risalgono proprio a quel periodo.
Un luogo divenuto pubblico
A maggio la polizia aprì le indagini: due mesi passati
a spiarci da un palazzo inagibile antistante l'area in cui ci
eravamo stabiliti e in cui ci muovevamo, ormai da mesi, senza
nulla nascondere e alla luce del sole. Un luogo divenuto pubblico
per eccellenza, forse l'unico in quel periodo, sempre pieno
di persone e attività.
Durante la prima udienza, l'azienda sanitaria si è costituita
parte civile chiedendoci una provvisionale di 50mila euro per
danni al patrimonio e all'immagine.
Noi del comitato 3e32 abbiamo sempre risposto rilanciando, accusando
la dirigenza della Asl di essere colpevole di aver abbandonato
l'area con lo scopo probabilmente di svenderla appena possibile.
In più, lo stesso manager che ci denunciava si rendeva
protagonista di altri danni nei confronti della collettività,
non utilizzando i 47milioni dell'assicurazione per il terremoto
per ricostruire l'ospedale, che ancora vede alcuni suoi reparti
nei container.
Una battaglia che dura ancora oggi e che ci vede impegnati da
un lato a restituire un'area importante alla città e
dall'altro a difendere la sanità pubblica ed il diritto
alla cura dei cittadini.
Vedremo se ad aprile arriverà una condanna o un'assoluzione.
Per noi il destino dell'esperienza di autogestione e di ricostruzione
sociale comune di CaseMatte non si può decidere in un'aula
di tribunale. La città tutta riconosce quest'esperienza
come propria. Vedremo se arriverà o meno una soluzione
politica.
Alessandro Tettamanti
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Sopra
e in basso: L'Aquila (Abruzzo) - Due immagini dello
spazio occupato
CaseMatte, sede del Comitato 3e32
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Lotta per il bene comune
di Federica Rigliani e Alessandro Tettamanti
Interessi privati e speculazioni minacciano l'esperienza di CaseMatte. Così il collettivo cerca di sopravvivere, tra accuse, processi e burocrazia.
Da quando la Legge 180/1978 aveva imposto la chiusura degli
ospedali psichiatrici, l'ospedale di Collemaggio ha attraversato
anni di degrado e parziale utilizzo, solo alcuni dei padiglioni
erano in uso prima del sisma. Il Progetto Obiettivo per la tutela
della salute mentale sanciva, già dal 1994, la riqualificazione
degli ex ospedali psichiatrici a patto che il ricavato di ogni
vendita o affitto degli stabili annessi - compreso quello che
volevamo concordare con le autorità e che non ci è
stato mai concesso - fosse utilizzato per la realizzazione di
progetti sulla salute mentale. Invece, qui si parla della vendita-svendita
di questo spazio storico: 19 ettari e 27 edifici enormi perfettamente
corrispondenti alla logica legata agli interessi privati di
una becera speculazione che stende come un polpo i suoi tentacoli
sul territorio. La Asl rivendica la proprietà dello spazio
e il suo direttore generale Silveri dichiara: “prima di
questa immissione sul mercato, si darà al Comune dell'Aquila
la facoltà di stabilire la destinazione d'uso degli spazi
sulla base degli indici di edificabilità”. Ci chiediamo:
“In cosa si vuole trasformare Collemaggio?”.
Un luogo di creatività e diritti
“Il Comune ritiene quell'area unicamente vocata a spazio
culturale, socio-sanitario e istituzionale.” dichiarò
dopo il sisma l'allora assessora alla cultura Stefania Pezzopane.
“Vendere è una follia”, disse, e si espresse
anche sull'accanimento “contro questi ragazzi che lì,
dal 6 aprile 2009, svolgono attività culturali e sociali
che vedono un'ampia partecipazione della cittadinanza. La loro
presenza può essere facilmente regolarizzata, come è
avvenuto per l'occupazione di molti altri spazi pubblici. [...]
senza creare inutili conflitti verso un mondo giovanile che
di spazi ne ha già persi tanti e che è drammaticamente
alla ricerca di una nuova socialità.”
Invece, le autorità hanno denunciato alcuni occupanti
di CaseMatte, e CaseMatte ha risposto difendendosi e difendendo,
oltre la memoria che questo luogo mantiene e custodisce, il
luogo stesso da speculazioni e vendite.
Perché Collemaggio significa molto per la comunità
aquilana. È la collina del dolore, delle camicie di forza,
degli elettroshock, dei luoghi preclusi e reclusi, della privazione
e della follia. Da sempre “luogo chiuso”, si “è
schiuso” per trasformarsi nell'unico spazio “aperto”
di cui disporre, l'unico che può indicare una strada
realmente percorribile nell'idea di riappropriazione sociale
e riutilizzo di un bene comune. La nostra idea, infatti, è
che da luogo della contenzione e dell'istituzionalizzazione
diventi luogo della creatività e dei diritti. Per questo
abbiamo costituito un cartello di soggettività, collettivi
ed associazioni che insieme vogliono iniziare a buttar giù
un progetto comune sull'area. I tempi infatti stringono. La
Asl ha trasferito altrove praticamente tutti i suoi uffici e
CaseMatte sta rimanendo l'unica realtà all'interno dell'area.
Un isolamento che va rotto. Per questo alcune associazioni del
cartello che abbiamo composto, alcune dee quali si appoggiano
già dentro CaseMatte, hanno fatto formale richiesta di
stabili agibili all'interno dell'area. Qualcosa la Asl dovrà
pure rispondere. Nel frattempo, stimolati da noi, Comune e Regione
hanno iniziato a parlare sul futuro dell'area. Si è iniziato
a ventilare di un comodato d'uso al Comune per 99 anni, una
soluzione che per noi sarebbe una vittoria perché sbloccherebbe
lo stallo creatosi finora.
Tuttavia sappiamo di non poterci fidare delle promesse della
politica istituzionale e dei suoi tempi. Per questo siamo pronti,
se necessario, a mettere in campo azioni conflittuali, per il
bene comune dell'area e affinché l'esperienza di CaseMatte
continui.
Federica Rigliani e Alessandro Tettamanti
Sostieni CaseMatte:
CASSA DI RISPARMIO DELLA PROVINCIA DELL'AQUILA (CARISPAQ)
IBAN: IT68O0604003601000000156830, causale: CaseMatte |