«La trattativa» di Sabina Guzzanti/
Un esempio di distribuzione alternativa (che funziona)
La trattativa di Sabina Guzzanti, una docu-fiction (2014,
108 minuti, distribuzione BIM) puntualmente documentata e dichiaratamente
ricostruita (fiction), è uscita ormai da un anno. La
Guzzanti ne è regista, soggettista, sceneggiatrice e
interprete.
Tutta la poderosa ricerca che sta dietro e tutto il racconto
si fondano sugli atti giudiziari che riguardano le stragi degli
anni Novanta e sulle testimonianze o dichiarazioni di personaggi
che vi hanno avuto in un modo o nell'altro un ruolo di primo
piano. «La trattativa» finisce per essere una dimostrazione
inequivocabile della collusione tra stato e mafia - collusione
tanto intima e ben rodata da non riuscire più a separare
i due termini -, del ricorso pressoché sistematico alla
mafia da parte dei servizi segreti per condizionare la politica,
della conseguente deriva della democrazia verso un fascismo
sotterraneo. È un film che scuote, che interroga, che
svela anche l'incredibile e quindi da masticare a lungo, non
da digerire inconsapevolmente ma da metabolizzare lentamente.
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Gli interpreti sul set de “La trattativa” |
La modalità teatrale scelta era forse l'unica percorribile.
Costruita però rigorosamente con trasparenza. Un grande
merito dell'opera della Guzzanti sta infatti nell'abilità
con cui ha saputo mixare ricostruzione e realtà, rendendo
sempre esplicita la prima, quasi per un obbligo di sincerità,
ma facendo emergere con forza inequivocabile la veridicità,
tutta documentata, delle vicende delittuose, omertose, collusive
tra poteri politici, istituzioni, mafia.
È vero, qualcuno potrebbe obiettare che quanto «La
trattativa» sia ben documentata e rigorosa lo si dovrebbe
chiedere ai magistrati che se ne sono occupati. Noi come pubblico
possiamo fidarci o dubitare di Sabina Guzzanti; il margine di
dubbio lasciato dai fatti accertati e dalle testimonianze appare
però davvero sottile. Io l'ho sentito onesto, addirittura
sobrio, senza cedimenti alla tentazione (quasi inevitabile vista
la melma) di inondare lo spettatore di sospetti su tutto e su
tutti; niente eccessi, nessuna insinuazione.
Un film crudo, senza fronzoli e per questo ancora più
implacabile nel chiamare una reazione, un rifiuto, una ribellione.
Perché la trattativa continua e l'obiettivo dichiarato
di Guzzanti è dipanare la matassa della collusione, renderla
visibile e leggibile, comprensibile e dunque privarla di quell'aura
di mistero e di segretezza istituzionale che la rende inattaccabile,
che genera quel grandissimo senso di impotenza che purtroppo
conosciamo e al quale il più delle volte ci rassegniamo.
Il suo lavoro si accompagna a quello della magistratura; vuol
far conoscere e diffondere quello che rischia spesso di essere
ignorato, vuole allargare qualche falla nella corazza costruitasi
dallo stato-mafia. Come scriveva Attilio Bonzoni su la Repubblica,
è crollato il muro dell'omertà mafiosa ma non
è mai crollato il muro dell'omertà di stato.
Non si può negare che il film, presentato fuori concorso
al Festival di Venezia 2014, sia stato boicottato: quasi nessuna
pubblicità, brevissima presenza nelle sale, nessuna distribuzione
attraverso i canali ufficiali. Forse è anche una dimostrazione
della sua efficacia e «pericolosità». Come
una dimostrazione della sua validità sta nel fatto che
ad oggi vi siano state 700 proiezioni grazie alla distribuzione
“alternativa” che, creando una rete capillare, ha
portato il film in ogni angolo d'Italia e anche oltre confine.
Paola Pronini
Lotta senza confini
al minerale di ferro
Il
seminario internazionale a cui ha partecipato l'autrice del
libro Legami di ferro (Narcissus self-publishing, 2015,
disponibile solo in versione e-book, € 0,99) Beatrice Ruscio,
in rappresentanza dell'Associazione ecopacifista PeaceLink,
è stata un'importante occasione per far emergere la questione
di Taranto dal contesto locale, per unire questa lotta a un
movimento internazionale di mobilitazione e resistenza contro
gli immani e inesorabili progetti delle imprese e delle multinazionali
che vogliono ottenere il massimo profitto a costo di devastazioni
ambientali, pregiudicando così la vita e la salute di
intere popolazioni. Il denominatore comune che unisce le città
di Taranto e di Piquià de Baixo si chiama minerale di
ferro: la stessa polvere proveniente dal Brasile e estratta
nelle miniere della multinazionale Vale è poi esportata
in tutto il mondo.
Il libro racconta una bella storia di solidarietà tra
l'Italia e il Brasile. È la storia di Taranto e di Piquià
de Baixo in Amazzonia, inesorabilmente collegate dal drammatico
filo conduttore di due disastri ambientali, provocati dalla
polvere che è alla base del processo siderurgico, ossia
il minerale di ferro: inquinamento ambientale e diritto alla
salute uniscono Piquià de Baixo e il Quartiere Tamburi
di Taranto, Ilva e Vale, in una stretta relazione, in giochi
di forza e di potere dall'alto e di movimenti sociali in lotta
dal basso. Il minerale di ferro, che viene estratto dalle miniere
del Carajàs, nella foresta amazzonica brasiliana, arriva
anche all'Ilva di Taranto. Il ciclo siderurgico provoca inquinamento
e ingiustizia a livello globale. Per questo motivo, una visione
globale deve accomunare le lotte locali, per affrontare un razzismo
ambientale che lede i diritti umani di molti abitanti del pianeta:
dei popoli discriminati e martoriati dei tanti “sud”
del mondo.
In realtà, il mondo non ha bisogno di tutto l'acciaio
che viene prodotto. Ma il sistema economico produce in funzione
del profitto e dello sfruttamento massimo della capacità
produttiva, e non in funzione dei bisogni reali e effettivi.
Sostenere questo modello siderurgico predatorio significa alimentare
la produzione delle cosiddette grandi opere, inutili e dannose,
e il consumismo dell'industria bellica e automobilistica.
La multinazionale Vale dichiarava che lo sviluppo dell'industria
sarebbe stata un'occasione di arricchimento umano e sociale
per quella regione, con il rispetto dell'ambiente e delle persone.
Al contrario, è sempre prevalsa la logica del guadagno,
dello sfruttamento e del massimo profitto dell'industria. Sostanzialmente,
solo pochi si sono arricchiti, a discapito della natura, depredata
e vilipesa, e dei lavoratori, che lamentano spesso condizioni
di estremo sfruttamento, e dell'intera collettività,
che in realtà non ha mai visto le promesse di benessere
e progresso tanto declamate e millantate.
“Il viaggio di PeaceLink in Brasile ha consentito di tessere
i fili di un'alleanza globale che va oltre la questione ecologica:
è un'alleanza per la difesa dei diritti umani e per una
nuova economia di giustizia”, afferma Alessandro Marescotti,
Presidente di PeaceLink, nell'introduzione al libro. Nel testo,
l'approccio alla questione ambientale e ecologica diventa un'occasione
di conoscenza davvero innovativa, unendosi alla grande tematica
della giustizia sociale, in una panoramica globale che permette
di interpretare l'ecologia e l'economia in una visione di giustizia
sociale e solidale, per cui tramite l'incontro tra persone,
accomunate dallo stesso dramma, si concepiscono le ragioni autentiche
dello stare insieme, in un'”ecologia di persone”,
per una giusta lotta comune a favore del diritto alla vita e
alla salute: per i diritti umani.
La lotta per spezzare la violenza e la protervia del ciclo siderurgico
mondiale ha conosciuto diversi epicentri del conflitto ambientale,
disseminati in tutto il mondo, dall'India al Brasile. Da una
parte all'altra del globo intere popolazioni subiscono tremende
ingiustizie ambientali e lottano per vedere rispettati i propri
diritti di esseri umani. L'autrice paragona il viaggio in Brasile
a un salto in una realtà parallela a quella di Taranto,
con tante differenze culturali, economiche, ambientali, ma così
incredibilmente simile e unita da legami di solidarietà
forti, indistruttibili, di gente forte, unita da “legami
di ferro”, indistruttibili.
Laura Tussi
Prima guerra mondiale,
cent'anni di bugie
Dove
sono i morti, i mutilati, i milioni di corpi irriconoscibili
(il Milite Ignoto li riassume tutti, un unico soldato senza
identità) perché ridotti a coriandoli? Dove vediamo
i bordelli di Stato a ridosso delle trincee, i tribunali speciali
e le decimazioni? Dove i pescecani che rubarono su divise, scarpe,
armi? E dove i prigionieri lasciati morire dal governo italiano
perché erano “vigliacchi”? Dove sono i vigliacchi
veri cioè i generali, i primi a scappare, mai in prima
linea? E dov'è l'inutilità di quella guerra? Dov'è
la minoranza - comunque tante persone - che si oppose, disertò,
sabotò, si ribellò?
Nulla di tutto ciò, neppure 100 anni dopo. Io seguo poco
(quasi zero) l'informazione di regime ma ho fatto un'eccezione
a ridosso del 24 maggio per vedere come partivano queste “celebrazioni”:
se, passato un secolo di bugie, qualche piccola verità
sarebbe stata detta ricordando dunque i poveri cristi ammazzati
dagli Stati. Invece di esaltare, come sempre, chi volle i massacri.
E di tacere i nomi di chi si arricchì sulla carne macellata...
anche perché parlare di Ilva fa scattare “cattivi
pensieri”.
Lo schifo assoluto. Ho visto perfino su Rainews-24 una ministra
fare l'ultimo miglio (gli ultimi 100 metri?) di una corsa da
tutt'Italia per ricordare quelli che partirono - perlopiù
costretti, ma lei ovviamente finge di non saperlo - per il fronte
cioè “per il re e per la patria”. Un giornalista
strisciante chiede alla ministra se oggi dobbiamo ritrovare
quel coraggio per combattere contro l'Isis (cazzo c'entra?)
e lei subito parte in uno spot pro nuove guerre.
Pochissime eccezioni: siore e siori ammirate qui in gabbia
un Panda cicciottissimo che dice la verità; purtroppo
tutti gli altri li abbiamo ammazzati, ma guardate questo quant'è
bellino e dimenticate il resto. Al solito. Anche più.
Se qualche Panda, intorno al 24 maggio, ha provato a parlar
male del militarismo o (sia mai) a collegare i massacri di 100
anni fa con quelli di oggi, a suggerire che le industrie di
armi provocano le guerre, ecco i generali - ops, i giornalisti
- di «Corserepubecc» urlare che no, quella
strage fu necessaria come le prossime.
Ovviamente i libri di scuola sono quasi tutti addomesticati
e ora nelle classi entrano i militari - per lo più senza
contraddittorio - a dire cazzate sul '15-'18 (o sui due marò
o sulle “missioni di pace”) ma anche a reclutare
per l'oggi, persino “divertendo” i più piccoli
con giochini nei quali si premia chi ammazza più nemici.
Nulla di particolarmente nuovo, ma forse peggio del solito.
Proprio perché questa merda militarista dilaga, bisogna
segnalare - quasi urlare - qualche antidoto. A partire da due
libri preziosissimi.
Anzitutto i numeri veri. I morti italiani in 3 anni di guerra
sono 650 mila. Mezzo milione i feriti gravi e mutilati ma anche
600mila prigionieri «abbandonati». Almeno 40 mila
i soldati impazziti. «Un indebitamento estinto solo negli
anni '80». Truffe «impunite» sulle spese belliche,
fra gli imputati Ansaldo e appunto Ilva. Così in La
grande menzogna (Dissensi editore, Viareggio – Lu,
pp. 170, € 13,90) di Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio
Tanzarella: rigoroso, chiaro, sintetico, coraggioso. Ecco verità
che altrove non trovate. I cappellani militari a benedire le
armi mentre il papa parla di «inutile strage»: al
solito la Chiesa tiene dentro tutto, anche un sadico come Agostino
Gemelli. Il generalissimo Cadorna che subito - circolare 268
dell'11 giugno 1915 - organizza i bordelli per soldati con prostitute
che non possono circolare in libertà (detenute o se preferite
schiave) ovviamente per ragioni di sicurezza.
Automutilazioni, suicidi e disturbi mentali come tentativi di
fuggire dall'orrore. I carabinieri e gli ufficiali sparano alle
spalle dei soldati italiani che esitano; i cannoni accorciano
il tiro per impedire una ritirata. Le decimazioni contro i “riottosi”:
un estratto ogni 10 per essere fucilato senza processo. Gli
«intellettuali con l'elmetto». Perché dalla
neutralità si passò all'interventismo? Il ruolo
di banche e industrie. La truffa vergognosa sulle «spese
per le forniture di guerra» del quale si è persa
la memoria perché venne il fascismo e la coprì.
Ecco «la guerra sui corpi umani» cioè l'evoluzione
degli strumenti di morte. Poi «l'uso politico della memoria»
cioè «i sacrari militari, religione civile della
“nuova patria”».
Gli
ultimi 3 capitoli sono utili tracce per proseguire: «”Maledetto
sia Cadorna”, canzoni contro la guerra»; «Il
cinema senza l'elmetto» e «Percorsi di lettura».
Insomma quello che si tace nelle istituzioni e nei “grandi”
media.
Altro libro importante, appena uscito, è Gli ammutinati
delle trincee di un nostro compagno, Marco Rossi: pubblicato
da Bfs (Pisa, 2014, pp. 88, € 10,00) racconta «Dalla
guerra di Libia al Primo conflitto mondiale» con gli occhi
di ribelli e disertori, unici veri eroi in tutte queste infamie.
Almeno per quel che riguarda l'Italia, «la sconfinata
macellazione umana» e la fabbrica delle menzogne iniziano
nel 1911 quando Giolitti dà il via all'aggressione contro
la Turchia per conquistare la Libia. In quel periodo anche il
rifiuto della guerra - talora in forma organizzata, spesso spontaneo
- fa le sue prove. L'anarchico Augusto Masetti spara a un colonnello.
Lo sciopero generale del 27 settembre 1911. Molte azioni di
boicottaggio e sabotaggio contro i militari in partenza. I soldati
che si ribellano (Novara, Este, Genzano, Verona... l'elenco,
nelle pagine 27, 58-59 e 73-74, è impressionante). Poi
- nell'agosto 1917 - la rivolta di Torino: 41 morti fra i dimostranti
e 10 tra le forze dell'ordine ma... i giornali non ne scriveranno,
censura totale.
All'origine della guerra libica, ci sono le ambizioni colonial-imperialiste.
Anche i cattolici si accodano alla «missione civilizzatrice».
In piccolo c'è nel 1911 quello che si vedrà dal
'15 al '18: generali incapaci, soldati al macello, stragi, rappresaglie
contro innocenti, stupri e donne costrette a prostituirsi con
gran contorno di bugie, truffe, indebitamenti. C'è pure
il triste record del primo (forse) bombardamento aereo con il
tenente Giulio Gavotti. C'è Pascoli che si scopre nazionalista-populista
(«La grande proletaria si è mossa»). A dire
quant'è bella la guerra svettano i futuristi; a suggerire
che sia utile o comunque obbligata anche i socialisti riformisti.
Dentro il massacro '15-'18 c'è però «la
guerra dentro la guerra» che prende varie forme e per
molti (anarchici, socialisti o senza etichette) diventa un pilastro
della coscienza di classe presente o futura: il rifiuto della
Patria, la solidarietà con gli altri proletari, l'idea
che l'unica guerra da fare sia quella «sociale»
per abbattere il capitalismo. «Non tutti gli alti ufficiali
“caduti in battaglia” vennero uccisi dal fuoco nemico»:
come i regi carabinieri sparavano alle spalle dei soldati “recalcitranti”
così talora le pallottole che tolsero di mezzo ufficiali
italiani (si sa: il nemico spesso marcia alla tua testa) non
erano austriache.
A rivoltarsi non soltanto i disperati nelle trincee. Ci sono
«attivisti politici» che espatriano. E molti «disertori
e renitenti» si danno alla macchia. «Spesso con
il sostegno della popolazione» come «una comunità
di disertori di Imola, autonominatisi Fratelli Ciliegia».
Piccola, buona notizia che ci riporta a 100 anni dopo: «i
fratelli Ciliegia» continuano a fomentare sovversione,
posso garantirlo perché li ho incontrati da poco.
Le storie che Marco Rossi ripercorre sono tantissime: la carcerazione
speciale e il «filetto giallo»; le infamie dei generali
(soprattutto Luigi Cadorna e Andrea Graziani); l'appoggio alla
guerra di Ernesto Teodoro Moneta.... «premio Nobel per
la pace»; «il supplizio del reticolato»; un
Giacomo Matteotti in prima fila contro il militarismo mentre
altri dirigenti socialisti invece ricevono dalla polizia «un
attestato di benemerenza» per il loro atteggiamento «patriottico».
Nei tribunali militari «870mila denunce, delle quali 470mila
per renitenza; 350mila processi celebrati; circa 170mila militari
condannati di cui 111.605 per diserzione [...] 4028 condanne
a morte delle quali 750 eseguite»: a confermare l'ampiezza
del rifiuto alla guerra. Le coraggiose, geniali vignette di
Scalarini completano un libro che bisogna assolutamente leggere,
far girare, presentare, “Gli ammutinati delle trincee”
chiude accennando alle rivolte dei soldati che rifiutarono nel
1920 di andare in Albania: a Parma si distinse l'ex sottotenente
Guido Picelli che sarà poi a capo degli Arditi del popolo,
l'unica opposizione armata al fascismo degli esordi. «Il
passo dalle trincee alle barricate era breve» conclude
Marco Rossi. Ma questa naturalmente è un'altra vicenda.
Ho iniziato la recensione-invettiva con un «Dove sono...».
Ma io credo alla responsabilità individuale e all'azione
collettiva e dunque devo aggiungere: «dov'ero io? Dove
siamo noi antimilitaristi?». Stiamo facendo il possibile
in questo 2015 per contrastare le nuove guerre?
Daniele Barbieri
Camillo Berneri
né un martire né un irregolare
Il bisogno pratico, che è nel fondo
di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere
di “storia contemporanea”, perché, per remoti
e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano,
essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno
e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano
le loro vibrazioni.
Benedetto Croce
Col
libro L'inquieta attitudine (Kronstadt Edizioni, Volterra,
2015, pp. 105, € 5,00) Claudio Strambi si propone di trattare
di Camillo Berneri in relazione alla vicenda politica dell'anarchismo
in Italia.
Un obiettivo interessante a maggior ragione se si tiene conto
del fatto che, come si afferma nella presentazione del libro
“alcuni importanti lavori sulla figura di Berneri, pur
di altissimo profilo dal punto di vista documentaristico, hanno
teso a collocarlo con un piede e mezzo fuori dal movimento politico
in cui ha militato tutta la vita e per il quale è morto
(ci riferiamo all'anarchismo ovviamente). Oppure, in altri casi,
il suo personaggio è apparso come una specie di “genio
incompreso” alle prese con un contesto ottuso, sordo alle
sue “geniali” sollecitazioni; un contesto insomma
sostanzialmente indegno di ospitarlo. Il risultato è
stato il permanere di una percezione media del pensiero e del
personaggio, quanto meno discutibile.”.
Il libro ha quindi un'interlocuzione con una tradizione storiografica
che ha teso a fare di Camillo Berneri essenzialmente un martire
dell'idea, per un verso, e un irregolare dell'anarchismo, come
se esistesse un anarchismo “regolare”, per l'altro.
In realtà basta considerare la ricchezza dei contributi
che nella sua breve vita Berneri ha dato all'azione del movimento
anarchico, sia sul terreno della riflessione che su quello dell'azione,
per rendersi conto dell'infondatezza di interpretazioni di questo
genere.
D'altro canto è un cattivo costume abbastanza diffuso
quello di sopravvalutare la rilevanza dei singoli individui,
di farne una sorta di santini, dimenticando che se hanno svolto
o svolgono un ruolo di qualche rilievo nel movimento e nella
società è perché esprimono in qualche misura
punti di vista ed esigenze condivisi.
In realtà quindi pensare a Berneri fuori dall'incessante
attività volta a realizzare un processo rivoluzionario,
in Italia e non solo, significa in realtà liquidarne
il contributo e ridurre lo spessore e la complessità
della sua figura. Ed è proprio su questo punto che a
mio avviso la riflessione di Claudio Strambi è particolarmente
interessante.
Scrostata la figura di Berneri da ogni mitizzazione e collocatala
e dato il giusto peso ad opinioni non condivisibili che pure
aveva, si pensi alla questione femminile, si individua la questione
centrale, il ruolo dell'azione politica nella sua vicenda e
in quella del movimento fra le due guerre.
Giustamente Claudio Strambi pone l'accento sul fatto che,nonostante
le difficoltà e l'affermazione del fascismo e dello stalinismo,
il movimento anarchico negli anni 20 e 30 del secolo scorso
era una realtà fortemente radicata nel mondo popolare
in diversi paesi dell'Europa come dell'America Latina ed era,
di conseguenza, un soggetto politico capace di significative
iniziative.
Camillo Berneri si propone di lavorare per valorizzare questa
dimensione dell'anarchismo affrontando, fra l'altro, una deriva
che allora si manifestò, quella che Strambi definisce
la “tipicità” anarchica.
Vale la pena su questo argomento di citare un breve brano dal
libro .
“La storia di Berneri nell'anarchismo è una storia
di tensione fortissima con la “tipicità”
anarchica. Per “tipicità” si intendono quei
modi di essere e di pensare, radicati nelle consuetudini, che
si stratificano nel tempo in ogni movimento popolare, addivenendo
ad un certo grado di standardizzazione collettiva.
La “tipicità” svolge una funzione essenziale
nella vita di ogni movimento politico, in termini di stabilità
e di senso di sé, ma è anche un fattore intrinsecamente
conservatore ed anti-dinamico”.
A mio avviso su questo tema varrebbe la pena di interrogarsi
più a fondo. Se in un movimento che si vuole rivoluzionario
si affermano attitudini conservatrici ed antidinamiche, è
probabilmente l'effetto di una situazione che spinge molti militanti
a darsi come obiettivo, come primo se non unico obiettivo, la
salvaguardia di un'identità e di una tradizione che vengono
percepite come a repentaglio, in una fase nella quale si riduce
ogni reale speranza di porre in essere un'attività rivoluzionaria
efficace.
Non credo, a questo proposito, sia un caso se nel secondo dopoguerra,
l'egemonia culturale sull'anarchismo italiano, l'abbia avuta
la narrazione, affascinante e rapinosa quanto si vuole, di Armando
Borghi, il cui unico e reale obiettivo era, con ogni evidenza,
la costruzione di un monumento a se stesso e al movimento come
non credo sia un caso che “gli” eretici dell'anarchismo
di allora siano tristemente finiti nel bolscevismo o nella socialdemocrazia.
Non voglio con ciò sostenere che sia impossibile, in
fasi storiche controrivoluzionarie l'esistenza di una corrente
rivoluzionaria vitale, diciamo che è straordinariamente
difficile.
In fondo, la vicenda esistenziale di Camillo Berneri corrisponde
pienamente alla chiusura di un ciclo storico, la sconfitta della
rivoluzione spagnola, la seconda guerra mondiale, la mancanza
assoluta di un ciclo rivoluzionario seguente la guerra e la
divisione del mondo in blocchi contrapposti chiudono un epoca
e solo decenni dopo, ma questo è un altro discorso, si
riapre la partita.
Detto ciò quello che a mio avviso è il nucleo
centrale del lavoro di Claudio Strambi, è pienamente
condivisibile, il movimento che ha come fine l'abbattimento
del capitalismo dello stato o affronta nei fatti il problema
delle “approssimazioni progressive” alla rivoluzione
sociale o è custode di memorie magari gloriose ma ineffettuali.
Cosimo Scarinzi
L'articolata evoluzione
del movimento anarchico in Italia
Il
volume di Antonio Senta edito di recente da Elèuthera
(Utopia e azione. Per una storia dell'anarchismo in Italia
(1848-1984), Milano, 2015, pp. 255, € 15,00) è
particolarmente prezioso per due motivi. Il primo: va a colmare
un buco, offrendo una sintesi completa – per quanto irrimediabilmente
stringata, vista la vastità e la complessità della
materia in gioco – del movimento in Italia (“e non
italiano in generale”, cioè fuori dalla penisola,
come specifica l'autore). Il secondo: dà grande spazio
a figure minori o meno conosciute, consentendo al lettore di
farsi un'idea chiara di quanto fosse viva e molteplice la riflessione
e la pratica libertaria. Una ragione ulteriore per evitare le
secche di una storiografia dogmatica e lineare di un movimento
che è sempre stato l'esatto opposto.
La storia comincia con i precursori del Risorgimento, da Pisacane
al federalista Giuseppe Ferrari: eredi dell'Illuminismo lombardo,
guardano molto più a Proudhon che a Marx seminando i
primi germi di anarchismo nelle azioni rivoluzionarie dell'epoca,
ancora per gran parte legate alla questione dell'unità
nazionale. La spinta verso la prospettiva libertaria si accentua
con alcuni articoli seminali di Bakunin, trasferitosi a Napoli
nel 1865. Lentamente, l'asse dei progetti si sposta sempre più
verso i temi sociali: anche l'adesione “da indipendente”
di Garibaldi all'Internazionale contribuisce a questo scatto
in avanti del movimento.
Sono gli anni in cui l'anarchismo italiano forgerà la
sua prima vera identità. Nella sezione locale dell'Internazionale
troviamo Costa, Cafiero, Ceretti e Malatesta, impegnati sia
nell'educazione pubblica delle masse sia a portare avanti la
lotta clandestina. I giovani rivoluzionari “si ritrovano
per le vie dei quartieri popolari e in birreria, nei retrobottega
dei barbieri e dei pizzicagnoli, nei laboratori artigiani e
la sera, dopo il lavoro, in case private”; si moltiplicano
i fogli e le riviste; nascono le prime canzoni anarchiche; e
soprattutto cresce la partecipazione femminile – testimoniando
come l'Internazionale italiana abbia a cuore non solo la vittoria
di classe, ma l'emancipazione di ogni rapporto umano.
A segnare uno spartiacque sono l'azione insurrezionale nel Matese,
sconfitta dopo pochi giorni, e la svolta legalitaria di Costa:
momenti esemplari che testimoniano da un lato la progressiva
mancanza di spazi per gli anarchici, chiusi da un lato dalla
repressione crispina e dall'altro dal nascente riformismo. La
conflittualità sociale, tuttavia, non si placa: ma la
confusione del momento favorisce azioni di propaganda isolate
e particolarmente violente che poco giovano alla causa. La fine
del XIX secolo – dove peraltro si sviluppano le prime
comuni collettiviste, come quelle di Giovanni Rossi –
ha l'odore acre delle cannonate di Bava Beccaris a Milano e
una lunga serie di arresti di militanti rivoluzionari: e il
Novecento si apre con un altro sparo, quello di Gaetano Bresci
al cuore di Umberto I.
L'attentato genera un ampio di battito sulle riviste del movimento,
mostrando con chiarezza le varie differenze d'opinione riguardo
l'uso della violenza (basti pensare alla polemica dell'anno
successivo fra due grandi come Fabbri e Malatesta di fronte
all'omicidio del presidente americano William MicKinley). I
mutamenti sociali del Paese e lo scoppio della Prima guerra
mondiale complicano ulteriormente la situazione, ma aiutano
anche a rinserrare le fila: a conflitto terminato l'Italia è
attraversata da rivolte in gran parte guidate dai libertari.
La rivoluzione, come tante altre volte, sembra a un passo; e
invece si spegne nel settembre del 1920. L'anno successivo alcuni
anarchici fanno esplodere una bomba al caffè Diana di
Milano, per colpire il questore che ha imprigionato Malatesta:
ventuno i morti. L'azione terroristica segna un punto di non
ritorno del movimento, cui si somma la presa del potere del
fascismo.
Gli anni del regime costringono di nuovo molti militanti alla
clandestinità o alla fuga, mentre la polizia si prodiga
per rendere loro la vita impossibile: la morte solitaria di
Malatesta nel 1932 è un simbolo della situazione. E tuttavia,
benché ridotto a una dimensione carsica, il movimento
non si ferma. Volantini e manifesti continuano a essere diffusi
nei modi più creativi; vi sono progetti di uccidere il
duce (come quello di Michele Schirru, che pagherà con
la vita); nel 1936 Camillo Berneri e altri compagni partecipano
alla guerra antifranchista a Barcellona. E quando cadrà
il fascismo e si svilupperà l'ampio movimento di Resistenza,
gli anarchici saranno sempre in prima linea con generosità
– spesso i primi a prendere le armi.
Il dopoguerra si apre con un congresso a Carrara. È un
momento chiave per la storia del movimento libertario: le divergenze
e i contrasti sono molti, spesso anche dettati dalle distanze
generazionali, e le opzioni sul tavolo per strutturare l'organizzazione
sono le più diverse. Alla fine viene raggiunto l'accordo
di fondare la FAI, ma di lì a poco l'unità rivendicata
si disperderà in vari rivoli: a testimoniare “l'ibridismo
del movimento anarchico del primo decennio del dopoguerra, oscillante
tra organizzazione politica e istanza sociale ed etica”.
Stretta fra blocco comunista e blocco democristiano, l'opzione
libertaria soffre per anni di isolamento e difficoltà,
ma come sempre non si spegne: anzi. Si moltiplicano le lotte
per il lavoro, l'occupazione delle case, la produzione di nuovi
periodici (fra cui ricordiamo lo sperimentale Gioventù
Anarchica, e naturalmente Volontà), più
qualche azione eclatante, come il rapimento del viceconsole
spagnolo Isu Elías per evitare la condanna a morte dell'antifranchista
Valls.
Le istanze anarchiche troveranno nuova fortuna con l'avvento
del Sessantotto, che a sua volta porterà aria fresca
nel movimento stesso. L'agitazione politica del periodo, in
particolare quella studentesca, ha un'ampia connotazione libertaria:
il Maggio francese si salda ai conflitti italiani in una comune
battaglia alla struttura gerarchica della società. Sappiamo
purtroppo cosa successe poco dopo: la strage di piazza Fontana
e la morte di Pinelli. Di fronte a questa spaventosa reazione
delle forze conservatrici, gli anarchici cominciano subito un
lungo lavoro di controinformazione e continuano nella loro opera
di sviluppo e rinnovamento interno (nel 1971 nasce proprio A,
e nello stesso anno al congresso di Carrara della FAI l'affluenza
giovanile è straordinaria).
“La strada è il luogo della politica, una politica
che, è direttamente, vita”. Cominciano gli anni
Settanta e con loro la lunga serie di lotte che li distinguono:
per poi sclerotizzarsi nel riflusso di fine decennio e nell'inasprimento
della repressione da un lato e dell'opzione militare dall'altro
(verso cui molti anarchici riservano critiche sia dal punto
di vista strategico che morale). Nella crisi dell'immaginario
rivoluzionario cade anche l'anarchismo: i primi anni Ottanta
sono descritti da Senta come un momento di necessario ripensamento
e di riscoperta di alcuni autori stranieri meno conosciuti (come
Ward o Bookchin) ma anche di grandi classici del pensiero. Lo
stesso principio anarchico sembra lentamente mutare più
in un'etica o una sensibilità che in un progetto politico.
Forme nuove di agire contro “il dominio dell'uomo sull'uomo”,
ma sempre legate a quell'inestricabile nesso di utopia e azione
– appunto – che ha sempre attraversato la storia
libertaria.
A libro chiuso, resta solo la speranza che l'autore stesso o
qualcun altro completi il lavoro, scrivendo dei movimenti e
delle prospettive dell'anarchismo dal 1984 ad oggi: spesso registrate
in presa diretta da riviste e blog, ma ancora non ricostruite
in una monografia.
Giorgio Fontana
Burkina
Faso/ Il golpe
Sullo
scorso numero Valeria De Paoli, nella sua rubrica “Senza
confini”,
ha riferito della situazione in Burkina Faso.
Ora un golpe militare, poco prima delle previste elezioni,
ha stravolto la situazione.
A caldo, Valeria ci ha inviato il suo commento al golpe.
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Dal repubblicanesimo all'anarchismo/
Storia di un sovversivo
“L'anziano, emaciato e distinto, procedeva lentamente,
strascinando i piedi impercettibilmente ma diritto come un fuso.
Sfoggiava l'abbigliamento canonico da paziente fuori stanza:
pantaloni di pigiama color nocciola e giacca da camera marrò,
sciallata a scacchi scozzesi e allacciata da una cintola cchi
giummi. In testa calzava il tradizionale basco nero col
piripicchio e ai piedi le rituali pantofole a stivaletto
in feltro, di fantasia tendente al giallino, con due fibbie
in metallo brunito. Si appoggiava leggermente, per vezzo più
che per necessità, ad un bitorzoluto bastone da passeggio
dal manico a pomo sferico. Quando ci scorse, non si fermò
né ci degnò di saluto, proseguendo verso la stanzetta.
Poi, di botto, ci apostrofò serissimo, con aria naturale
ma molto soddisfatta, proclamando a voce ferma e solenne: ho
cacato come un principe” (p. 15).
Quanti modi ci sono per raccontare una storia di vita? Quanti
moduli di linguaggio sono possibili? Davvero infiniti? Il genere
biografico, metodologicamente ormai consolidato e in auge già
da parecchi lustri anche nella storiografia sull'anarchismo,
prevede tre principali grandi categorie di approccio.
La prima è l'auto-narrazione, ossia il racconto accuratamente
selezionato nelle scansioni e la pubblica rappresentazione di
sé confezionati dallo stesso protagonista, “a futura
memoria”: sotto forma magari di diario, in tempo reale
addirittura con gli eventi vissuti o, piuttosto, sotto forma
di meditata testimonianza/riflessione ex-post. Nella fattispecie,
trattandosi di fonte soggettiva, diventa importante non solo
ciò che l'autore dice di aver visto o aver fatto, ma
anche quello che crede di aver visto e crede di aver fatto e,
persino, ciò che nel suo intimo avrebbe desiderato fare
se avesse potuto.
La
seconda categoria di approccio, più classica, è
invece a termine infinito non essendo legata all'esistenza in
vita del protagonista. Si tratta, nel caso, delle storie di
vita raccontate dagli altri, quelle cioè che seguono
due stilemi fondamentali agli estremi: o agiografia, compilata
da compagni di fede, oppure distaccata e professionale storiografia
con tanto di uso scientifico delle fonti.
La terza infine, che riguarda questo libro (Nicola Schicchi,
Paolo Schicchi. Storia di un anarchico siciliano, Edizioni
Arianna, Geraci Siculo – Pa, 2015, pp. 256, € 22,50),
ha un suo fascino particolare. È la testimonianza, intesa
come saga familiare, compilata in genere da discendenti che
hanno o conosciuto direttamente e bene il protagonista o che
comunque ne hanno ben recepito esprit e personalità,
anche attraverso la mitologia dei racconti confidenziali ricostruiti
e tramandati da altri parenti ancora più stretti.
I vantaggi, e le sorprese, che ci riservano queste pubblicazioni
fanno bene agli storici ma anche ai comuni lettori. Si evidenziano
scrigni inesplorati con nuove fonti, materiali oppure orali:
documenti di scarsa importanza apparente che ci raccontano molte
cose, foto ingiallite di eccezionale bellezza che valgono da
sole quanto un libro, memorie divertenti e raffigurazioni domestiche
intime di un protagonista colto fuori dal contesto “pubblico”
assegnatogli. Un consiglio: prima di iniziare la lettura del
libro – da farsi tutta d'un fiato – soffermarsi
a lungo sulla sezione Immagini, ne vale davvero la pena.
Paolo Schicchi (Collesano / Palermo, 1865-1950) è un
anarchico siciliano che ha condotto una vita da rivoluzionario
e da antifascista indomito (condannato a dieci anni dal Tribunale
speciale), esule in Europa e Nordafrica, confinato e più
volte carcerato, figura conosciutissima di pubblicista e scrittore
graffiante, di sovversivo carismatico fomentatore di rivolte,
uomo braccato da tutte le polizie: un “Che Guevara ante
litteram” secondo l'autore. Rampollo di una “progenie
paesana” borghese e non priva di preti e suore, il suo
ideale anarchico diventa il naturale compendio di una precoce
esperienza giovanile nelle file del repubblicanesimo risorgimentale,
sulle orme del padre avvocato, massone e patriota.
Di lui scrissero Antonio Gramsci, Ignazio Buttitta, Sandro Pertini,
Vincenzo Consolo, Umberto Terracini... Con lui polemizzarono
avversari e compagni; e in tanti furono oggetto degli strali
caustici della sua penna.
“Il velo sui tanti avventurosi accadimenti non è
stato sollevato. E forse – puntualizza lo stesso Nicola
Schicchi (pp. 11-12) – non lo sarà mai, nonostante
l'opera di validi storici moderni dell'anarchismo come Natale
Musarra. Con questo testo, date le premesse, si vorrebbe esplorare
piuttosto l'uomo Paolo, rileggendo squarci della sua
incredibile vicenda dal punto visuale della cerchia familiare
che tanto amava”.
L'autore, con onestà intellettuale e brillante scrittura
rievoca anche l'epilogo poco esaltante per i familiari dell'anarchico,
che gli inflissero il torto, insopportabile, di un funerale
religioso mentre i compagni se ne stavano in disparte a cantare
“Addio Lugano bella”.
“Se Åeu zu Paulu avesse avuto un'anima immortale,
cosa di cui dubitava, avrebbe abbandonato sdegnato il corteo
dei corvi neri per intonare pure lui quei canti insieme
agli ammosciati anarchici, una volta tanto all'unisono e senza
diatribe in mezzo” (p. 194).
Giorgio Sacchetti
Se combatti il fascismo, sei matto/
I “pazzi per la libertà”
Il manicomio criminale, poi rinominato manicomio giudiziario
ed, infine, ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è
stata la prima struttura di segregazione per criminali “incapaci
di intendere e di volere” a funzionare in Italia: anno
di costruzione e di consegna 1876. Ristretti tra le sue mura
si annoverano numerose donne e uomini ritenuti “soggetti
devianti” per comportamenti politici e morali in contrasto
con il potere costituito, dal Regno d'Italia al regime fascista,
dalla democrazia post-liberazione sino all'attuale situazione
di presunto superamento istituzionale.
Se è noto l'internamento coatto ad Aversa di briganti,
ribelli sociali, sovversivi, attentatori e donne degeneri, praticamente
sconosciuta era invece la circostanza per la quale, dopo la
caduta del fascismo, anche un certo numero di ex-partigiani
e partigiane vi è stato imprigionato, nonostante il formale
ritorno alla democrazia.
Infatti, nel clima di restaurazione economica e normalizzazione
politica susseguente alla cosiddetta “liberazione nazionale”,
nonostante quello che ancora oggi sostiene certa storiografia
di destra, quanti avevano preso parte alla Resistenza furono
sovente vittime di vere e proprie persecuzioni giudiziarie,
accompagnate da infamanti stigmatizzazioni morali per aver combattuto
il fascismo compiendo azioni armate o di giustizia popolare
– peraltro molto più circoscritte che in altri
paesi europei – ancora oggi criminalizzate alla stregua
di feroci ed insensati delitti comuni.
Mentre, infatti, a partire dall'amnistia Togliatti, migliaia
di fascisti e repubblichini di Salò tornarono presto
in libertà e rimanevano impuniti eccidi, torture, stragi,
deportazioni da essi compiute anche contro prigionieri, ostaggi
civili e intere comunità, tanto da indurre gli ex-resistenti
a non disarmare e a vendicare i delitti commessi dai fascisti
prima all'ombra della dittatura mussoliniana e poi durante la
Repubblica sociale italiana a fianco dei nazisti.
I meccanismi punitivi che – a termine di legge –
colpirono numerosi partigiani, magari colpevoli di non voler
cedere le armi alle forze anglo-americane, appaiono diversi,
ma soprattutto furono dettati dalla delimitazione cronologica
fissata a tavolino per la lunga guerra combattuta contro il
fascismo: dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Limiti, questi,
antistorici e drammaticamente paradossali perché escludenti
quanti si erano opposti fuori da simile “calendario”,
negando la guerra civile che era iniziata nel 1919 e che vide
una effettiva liberazione dei territori ancora occupati dai
nazifascisti nelle settimane successive all'insurrezione del
Nord Italia iniziata - e non conclusasi - il 25 aprile.
Emblematici
in tal senso i casi degli anarchici Belgrado Pedrini e Giovanni
Mariga, condannati a trent'anni di carcere per atti compiuti
in anticipo o a tempo scaduto.
Nel tentativo di sottrarsi a simili condanne, un certo numero
di partigiani arrestati e posti sotto accusa con gravi imputazioni,
finirono nelle maglie della reclusione psichiatrica in conseguenza
del fatto che durante i processi gli era stata riconosciuta
una presunta “infermità mentale”, tanto da
essere definiti come “pazzi per la libertà”.
In tal modo però la loro condanna, non avendo i termini
certi fissati da una sentenza penale, si trasformò in
una diagnosi medico-politica che li murava vivi dentro l'incubo
manicomiale.
L'importante lavoro di ricerca svolto da Franzinelli e Graziano
su questo aspetto (Un'odissea partigiana. Dalla Resistenza
al manicomio, Feltrinelli, Milano, 2015, pp. 222, €
18.00), misconosciuto, del periodo post-resistenziale appare
quindi ricco di motivi d'interesse, ma non di meno suscita in
chi legge un umano sentimento di rabbia nei confronti dell'ingiustizia
patita da persone la cui esistenza, dopo aver rischiato la vita
per ideali di libertà e giustizia sociale, si trovò
stritolata dall'arbitrio di ingranaggi inimmaginabili.
Come viene, ripetutamente, affermato dai protagonisti di tali
vicende era infatti impensabile che i governi democratici della
repubblica “nata dalla Resistenza” permettessero
a una magistratura, rimasta immutata per composizione e logica
rispetto a quella operante durante il Ventennio e i 600 giorni
di Salò, giudicasse la guerra partigiana come una pagina
delittuosa, mostrandosi più che indulgente nei confronti
degli aguzzini in divisa e mossa invece da odio “anticomunista”
nel valutare la legittimità dell'operato dei “banditi”.
I dati dell'attività giudiziaria, resi noti nella primavera
del 1955, apparivano eloquenti: 2474 antifascisti fermati, 2189
processati, 1007 condannati.
Gli stessi avvocati di sinistra – anche nomi importanti,
come Lelio Basso, Gian Domenico Pisapia e Umberto Terracini
- che, in taluni casi, nelle aule dei tribunali peroravano la
semi-infermità psichica come escamotage difensivo per
“salvare” dalla galera gli ex-partigiani incriminati,
evidentemente s'illudevano che a breve sarebbero seguite misure
governative a loro favore, sottovalutando i micidiali effetti
della famigerata Legge n. 36 del 1904 (”Disposizione sui
manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”)
e del Codice Rocco che l'aveva recepita valorizzando il potenziale
repressivo contro gli oppositori, fatti passare per pazzi e
rinchiusi a centinaia nei manicomi. Va comunque sottolineato
che tale sottovalutazione non era soltanto di carattere “tecnico”
ma corrispondeva a precisi limiti “culturali” dei
partiti della sinistra, del tutto sprovvisti di una visione
critica – antiautoritaria - verso la psichiatria e le
istituzioni totali.
Tra i casi, drammatici, scoperti e ricostruiti da Franzinelli
e Graziano, colpisce particolarmente quello della giovane staffetta
partigiana “Lulù”, ossia Zelinda Resca, che
nel 1951 si vide arrestata, processata e condannata a oltre
15 anni di carcere in relazione ad un presunto omicidio politico
avvenuto l'11 maggio 1945. Dopo essersi ammalata di tubercolosi
durante la detenzione, nel 1953 venne trasferita “per
motivi di salute” nel manicomio criminale di Aversa dove
rimase rinchiusa per ulteriori 7 mesi, pur essendo riconosciuta
del tutto sana di mente dalle stesse autorità mediche.
Seppure in ritardo, nel 1955, al processo d'Appello, la Corte
d'assise di Bologna la riconobbe innocente, accogliendo la tesi
difensiva che aveva denunciato la responsabilità di un
ufficiale dei carabinieri nella costruzione dell'impianto accusatorio
ai danni di “Lulù”, parimenti “colpevole”
di essere donna autodeterminata e comunista. Dalle lettere scritte
ai compagni trapela lo stesso stato d'animo espresso dall'anarchica
Elena Melli, alcuni anni prima: «Posso pensare a me stessa
come incarcerata o sotto restrizioni di libertà ma non
posso concepirmi come rinchiusa in un sanatorio per malati mentali,
il pensiero di questo è insopportabile».
Marco Rossi
I sogni sognati
da nessuno
“Cosa significa essere mediocri – d'improvviso
la questione non mi diede più pace. Come ci si convive,
come si va avanti? Che gente è quella che punta tutto
su una carta, dedica la propria vita alla creatività,
corre il rischio della grande scommessa e poi, anno dopo anno,
non realizza niente di significativo?”.
Mica male come domanda. Se prima o dopo nella vita capita di
porsela e non si trova una risposta abbastanza convincente,
il dubbio che il proprio ego si possa sgretolare rivelando tanti
pezzi di nulla può farsi piuttosto angosciante.
Per fortuna qualche volta ci pensa il Fato, sì, proprio
quello con la F maiuscola, quello in cui non crediamo perchè
siamo moderni razionali concreti e convinti che la nostra vita
andrà esattamente dove la stiamo conducendo, nel bene
e nel male.
E allora prendete quattro personaggi: un padre disoccupato e
distratto, un figlio sovrappeso, due gemelli inquieti e inquietanti.
Mescolateli in un dialogo iniziale mezzo superficiale e mezzo
crudele, conduceteli in una gita domenicale piuttosto ordinaria
e noiosa, sedeteli in platea di fronte al grande mago dell'ipnosi
Lindemann, poi state a vedere quel che succede.
Davanti ai vostri occhi le schizofrenie del mondo contemporaneo
assumeranno sembianze umane, talmente stravolgenti da risultare
verosimili, talmente terribili da restare (appunto) profondamente
umane. E un nuovo destino, messo in moto da un evento apparentemente
poco significativo, segnerà la storia di una famiglia
potenzialmente ordinaria, almeno nel suo essere desolatamente
priva di buoni sentimenti.
Daniel Kehlmann è autore del pluripremiato La misura
del mondo, ritenuto il più clamoroso caso letterario
tedesco dai tempi del Tamburo di latta di Günter
Grass. Un confronto-scontro tra il grande matematico Carl Friedrich
Gauss e il grande naturalista Alexander von Humboldt, due giganti
dell'Illuminismo tedesco ossessionati dai numeri e dalle misurazioni
che tentano, ognuno sulla base della propria scienza, della
propria personalità e delle proprie convinzioni, di spiegare
e misurare la complessità dell'universo.
Stavolta
Kehlmann sceglie di misurare, senza neppure provare a spiegarlo,
qualcosa di molto più banale e complesso: l'animo umano,
condensato di illusioni e contraddizioni che sembra prestarsi
molto poco a qualsiasi tentativo di analisi lucida.
Immisurabile, forse anche ingiudicabile, salvo che si creda
- non mi pare sia il caso di Kelhmann, certamente non è
il mio – nell'esistenza di un giudizio superiore e divino.
Che se esistesse, dovrebbe peraltro essere molto clemente per
perdonare i grovigli, le bassezze, le confusioni, gli imbrogli
e le mediocrità cui si troverebbe messo di fronte.
Non ho idea di quanti lettori possano (o provino a) riconoscersi
in uno dei tre figli di Arthur: un prete che non crede in Dio,
un consulente finanziario che non crede nella finanza, un pittore
che non crede nell'arte. Personalmente, non essendo alcuna delle
tre cose, ho rintracciato pezzi di me in ciascuna di esse. Lascio
volutamente fuori Arthur, che scompare dopo la seduta di ipnosi
per ricomparire sporadicamente qua e là lungo il romanzo,
una “presenza assente” che dà il via a tutta
la storia ma che, da un certo punto di vista, è il personaggio
meno complesso e dunque meno stimolante.
Osservazione tecnica d'obbligo, essendo la sottoscritta una
donna: i protagonisti sono quattro uomini. Le donne ci sono
ma hanno ruoli marginali: mamme, mogli, amiche, amanti, figure
anche loro contraddittorie, permeate dalla stessa superficialità
dei loro amanti-amici-compagni, ma meno in evidenza e –
fosse anche solo per questo – apparentemente meno colpevoli.
Osservazione “di parte” da parte della suddetta
sottoscritta: l'ultimo personaggio in ordine di apparizione,
dunque quello cui spetta, pur nella brevità del capitolo,
il posto d'onore del romanzo, è una donna, anzi una ragazzina,
la figlia di Eric. La più lucida, la più onesta,
quella da cui ci si può aspettare di ripartire.
Daniel Kehlmann, non so se tu sia femminista, senz'altro –
agli occhi di una lettrice e donna come me – sei molto
acuto.
Per il resto, tralasciando le distinzioni di genere, I fratelli
Friedland (Feltrinelli collana “I narratori”,
2015, pag. 272, € 17,00) mi è parso una delle più
ironiche, crudeli e azzeccate rappresentazioni della famiglia
contemporanea che mi siano capitate tra le mani negli ultimi
anni.
Famiglia intesa come groviglio di destini all'interno di un
mondo indecifrabile, dove ognuno cerca sconsideratamente di
essere protagonista di qualcosa e finisce per essere controfigura
di qualcun altro, a volte addirittura di se stesso.
Tenuti insieme dal legame parentale e dai fili un po' logori
delle vicende che li vedono coinvolti, i componenti della famiglia
Friedland (con tanto di annessi e connessi) si attraggono e
si respingono in un crescendo di situazioni apparentemente isolate,
che si incastrano come i pezzi del cubo di Rubik (c'è
anche lui, nel libro), poi finiscono per avere una trama esile
ma compiuta, addirittura sfumata di “noir”.
Un romanzo spiazzante, ferocemente divertente come sa essere
la vita.
Il vantaggio più evidente nel leggerlo è che vi
si riconoscono le proprie contraddizioni, però ci si
assolve in fretta: è vero che somigliamo ai fratelli
Friedland, ma siamo tutto sommato un po' migliori di loro.
Almeno fino a quando Kehlmann non sceglierà di scrivere
la nostra storia.
Claudia Ceretto
Una soluzione
in cerca di problema
Contentiamoci
di far riflettere, non tentiamo di convincere.
George Braque
Il libro di Luca Mercalli e Luca Giunti TAV NO TAV, le ragioni
di una scelta (Scienza Express edizioni, Trieste, 2015,
pp. 176, € 14,00) non è propriamente un libro No
Tav. Si tratta piuttosto di una lettura che, attraverso un'esposizione
scientifica rigorosa veicolata in un linguaggio divulgativo
e accessibile, fornisce informazioni utili ad esercitare una
scelta consapevole: TAV sì o TAV no?
Nell'esposizione non c'è traccia di posizioni ideologiche,
formule semplicistiche, slogan da stadio, né di quelle
affermazioni autoreferenziali e totalmente prive di verificabilità
che sono purtroppo molto care ai cosiddetti “decisori
pubblici”, che poi di pubblico non hanno nulla: “chi
è contro la Torino-Lione è contro il progresso!”,
“quest'opera fa bene all'economia perché mette
in moto capitali privati”, “la Torino Lione porterà
lavoro”, “la linea è tutta in galleria quindi
non provoca danni ambientali”, etc etc.
Ad orientare la trattazione è invece il metodo scientifico,
la modalità tipica con cui la scienza procede per raggiungere
una conoscenza della realtà affidabile, verificabile
e il più possibile condivisibile. Esso consiste, da una
parte, nella raccolta di evidenze empiriche e misurabili attraverso
l'osservazione e l'esperimento; dall'altra, nella formulazione
di ipotesi e teorie da sottoporre nuovamente al vaglio dell'esperimento.
Scegliere consapevolmente se costruire o meno una nuova infrastruttura,
quale e in che modo, è un diritto-dovere dei cittadini:
per poterlo esercitare è utile poter analizzare gli aspetti
razionali e documentati ed approfondire i molteplici fattori
in gioco (trasportistici, economici, sociali e ambientali),
nonché pretendere spiegazioni sulle scelte che orientano
la gestione del patrimonio e del suolo pubblico. Come sottolinea
Mercalli, ciascun cittadino può formarsi un'opinione
in merito all'alta velocità ed ha il diritto di esprimerla
liberamente pur non essendo un “esperto”: altrimenti
“nessuno se non medico potrebbe esprimersi sulla salute,
nessuno se non allevatore o agricoltore potrebbe esprimersi
sul cibo...”.
Questo è appunto l'obiettivo di TAV-NO TAV, che per farlo
si avvale di un approccio multidisciplinare peraltro applicabile
anche ad altre grandi opere scaturite dalla famigerata “legge
obiettivo”.
Il libro consta di una serie di interventi di ingegneri, medici,
economisti, filosofi, fisici, naturalisti, geologi, contenenti
dati, documenti, informazioni tecnico-scientifiche che di fatto
scoraggiano la costruzione della nuova linea ad alta velocità
Torino-Lione. Senza pregiudizi e considerazioni superficiali,
ma con uno studio accurato delle caratteristiche dell'opera,
della geografia locale, delle sue ricadute in termini economici,
occupazionali, ambientali, sociali.
Un approccio che si discosta nettamente da quello da sempre
utilizzato dai principali mezzi di comunicazione, sostanzialmente
allineati acriticamente alle posizioni dei promotori: “si
è dato per scontato che l'opera dovesse essere costruita
senza fornire ragioni a sostegno di tale decisioni”, si
legge nell'intervento di Michele Roccato e Terri Mannarini a
proposito del movimento di opposizione al TAV, “si sono
sistematicamente stigmatizzati i residenti e le istituzioni
locali che hanno chiesto di confrontarsi con i decisori muovendo
loro accuse che la ricerca scientifica mostra essere sistematicamente
infondate. Si sono svilite le considerazioni tecnico-scientifiche
messe sul tavolo dai controesperti della Valle, senza discutere
nel merito e contrapponendo loro slogan vuoti e ideologici”.
Una dinamica che ha approfondito la già profonda frattura
esistente tra cittadini e strutture dello stato: ad una protesta
fondata su motivi tecnici, il “decisore pubblico”
non ha saputo fornire risposte tecniche, che avrebbero potenzialmente
delegittimato l'opposizione all'opera.
I promotori si sono invece appellati all'irreversibilità
dell'opera, come se questa fosse un motivo più che sufficiente
a sostegno della sua realizzazione. L'assunto ricorrente è
infatti “protestate pure tanto noi andiamo avanti”,
o come più lapidariamente dichiarò il presidente
della Regione Piemonte Roberto Cota: “alla TAV non c'è
alternativa”.
Eppure, come sottolinea Mercalli, l'irreversibilità non
è una caratteristica di cui andare fieri: “tutti
noi vorremmo disporre di sufficienti chances e flessibilità
per evitare di commettere un errore fino all'ultimo momento,
fino a quando è ancora possibile invertire il corso degli
eventi. Altro che dichiarare trionfalmente di aver attivato
un processo irreversibile!”.
TAV-NO TAV oltrepassa le astrazioni ideologiche e propone un
approccio di pensiero saldamente ancorato alla realtà,
che decide di riflettere e comprendere, di ricordare dove stiano
le persone e la loro salute, la loro felicità.
“Senza questo cambio di paradigma profondo, senza visioni
realmente diverse, la realtà rischia di essere scalzata,
un passo dopo l'altro, dal dominio incontrastato dell'irreale
economico”, sostiene Serenella Iovino nel suo intervento
“Pensare come una montagna”. “È un'economia
ostinata e obsoleta che, se fosse possibile tornare alla terra
piatta, ci tornerebbe senza esitare un istante; che se fosse
possibile nascondere i numeri irrazionali...lo farebbe e anzi
lo fa. Perché i numeri irrazionali di oggi sono i rapporti
scientifici e la volontà civica di popolazioni che mettono
in crisi equilibri interni al potere e contestano la ragionevolezza
di scelte già prese, scelte volanti sopra le montagne
del buon senso, sopra il bene e sopra l'essere”.
Marta Becco
Tra utopia
e speranza
Decisamente
in sordina è uscito di recente, per quelli delle edizioni
IPOC, un bel libro di Federico Battistutta, autore forse già
noto ai lettori di “A” per diversi suoi scritti
apparsi su queste pagine. Si tratta di Storie dell'Eden –
Prospettive di ecoteologia (Ipoc edizioni, Milano, 2015,
pp. 116, € 16,00) dove l'ecologia è vista non come
qualcosa di cui i più accorti tra noi si occupano per
amore del bene comune, bensì quell'intricato e complesso
insieme di rapporti che - tutti e tutto - ci lega.
L'autore con i suoi libri cerca ormai da anni di creare connessioni,
passaggi, relazioni tra quello che possiamo chiamare un progetto
politico-sociale – ovverosia le idee e le azioni di tutta
quella gente che ha creduto e crede in un modo di stare al mondo
libero da oppressioni e sfruttamenti (dico così per intenderci
e farla breve) - e un sentire “religioso” che spesso,
inconsapevolmente, attraversa gli animi delle stesse persone.
Lo sforzo non è semplice perché, il più
delle volte, il pregiudizio alberga da ambo le parti. Chi si
dice religioso non vuol avere a che fare con la politica nella
sua accezione più radicale e chi ha sposato idee politiche
radicali, rifugge dalla religione. Un po' di ragione, secondo
me, sta sempre da ogni parte e, per capirsi, bisogna intendere
bene di cosa si sta parlando, qual è il piano su cui
si sta affrontando la questione. Quindi, eliminando in partenza
dal discorso tutte le chiese, i clericalismi e i luoghi di potere
di entrambe le parti, forse si può incominciare a ragionare.
Quello del nostro autore è un atteggiamento di questo
tipo e il pregio del suo essenziale libro - poco più
di cento pagine – sta nell'andare alle origini del tema
riguardante la convivenza tra umani e degli umani con tutto
ciò che vive, ricercando nella storia più antica,
tramandata attraverso le narrazioni di diversi popoli e culture,
il racconto di un tempo in cui “un altro mondo fu possibile”.
La domanda che il testo si pone è questa: cosa dicono
a noi contemporanei, in quest'epoca di crisi incombente, tali
racconti? Si tratta solo di mitologie, fantasie riguardanti
un passato che forse non è mai esistito o, al contrario,
custodiscono qualcosa di prezioso – profezia, sogno, speranza,
utopia - che alberga nel segreto del cuore e verso il quale
da sempre, con passione e intelligenza, l'essere umano aspira?
Per rispondere Battistutta parte dai racconti presenti nel testo
biblico, passa attraverso i classici greci e latini, la letteratura
popolare, le ricerche archeologiche e antropologiche per arrivare
ad un intenso confronto con figure significative del pensiero
moderno e contemporaneo, quali Rousseau, Benjamin, Bloch, Eliade,
Panikkar, Clastres e molti altri. Non si risparmia ed esplora
molteplici possibilità, per mantenersi sempre all'altezza
della domanda.
Così ci vengono incontro narrazioni nelle quali si parla
di quando, come per incanto, fu possibile un'intesa condivisa
tra uomini e donne, giovani e vecchi, tra esseri umani e mondo
vegetale, minerale, animale. Ciò che il libro sottende
è: se quello che ci viene raccontato non fosse un ipotetico
inizio bensì il progetto terminale – lo scopo –
a cui noi siamo chiamati a collaborare? Se quello che già
è accaduto fosse in qualche modo il punto di ritorno/arrivo
– debitamente attualizzato – nel percorso evolutivo
dell'umanità?
Partendo dal presupposto che l'ordine delle cose nel quale ci
troviamo a vivere non è un ordine naturale contro il
quale non si può far nulla, ma, piuttosto, una costruzione
mentale e sociale, una visione del mondo con la quale l'uomo
appaga la sua sete di dominio; una visione così potente
che anche chi ne è vittima spesso l'ha integrata nel
proprio modo di pensare, con l'accettazione inconscia di inferiorità
che ne consegue. Allora, per modificare le costruzioni mentali
dobbiamo lavorare con disponibilità sulle nostre visioni
e libri come quello di Federico Battistutta, che scandagliano,
attraversando i millenni, le narrazioni su cui ci siamo formati,
noi, donne e uomini d'Occidente, diventano indispensabili strumenti
di conoscenza. Epoche di grande e rapido cambiamento come la
nostra chiedono senz'altro questa andata a ritroso, per riuscire
a fare le connessioni utili a comprendere il presente e costruire
la visione progettuale del futuro. Siamo costituzionalmente
esseri narranti e tutte le scelte che contraddistinguono il
nostro cammino sono sostenute da racconti; bisogna vedere quali.
Entrando nel tempo mitico le “storie dell'eden”
raccontano la genesi, quel “sogno di Dio”, che,
forse, altro non è che altissimo sogno umano dell'impossibile,
il progetto al quale siamo chiamati a collaborare declinandolo
nelle sue forme del possibile, nella consapevolezza che cielo
e terra, come tutte le sostanze, compreso Dio, stanno dentro
l'uomo (J. Böhme citato a pag 103).
Il giardino dell'Eden, quel che appare perduto (è chiaro
che qui si ragiona per simboli) è davvero perduto per
sempre o forse quell'inizio arcaico non intende solo un tempo
cronologico, ma tutto ciò che è all'inizio di
un percorso, ciò che nasce di nuovo, fresco di giovanile
entusiasmo e speranza?
Troviamo, quindi, tra le pagine del libro il suggerimento a
leggere in quegli antichi testi l'invito per rinnovare alle
radici i rapporti che intratteniamo tra noi, con gli animali
e con tutto il mondo naturale, nel quadro di una profonda trasformazione
che nulla può lasciare invariato perché, pur contemplando
la sconfitta, sa che comunque nessuna sconfitta è incolmabile
e il nostro agire è così posto sotto il segno
di una speranza che non conosce rassegnazione.
Silvia Papi
Una fotografia
delle nostre scuole
Nel
suo reportage sulla scuola (#lacattivascuola. Un'inchiesta
senza peli sulla lingua, Jaka Book, Milano, 2015, pp. 115,
€ 12,00), Alex Corlazzoli, insegnante, giornalista e scrittore
dichiara di aver seguito le orme del grande giornalista e saggista
polacco Ryszard Kapuciski, nell'accurata ricerca di documenti,
raccolta di materiale, conversazioni e osservazioni sul campo.
Con taccuini, penna, macchina fotografica intende svelare l'altra
faccia, quella che non si vede, per provocare un dibattito più
ampio sulla natura della scuola pubblica italiana.
Emerge una scuola con gravi ferite: oltre il 70% degli edifici
presenta lesioni strutturali. Soprattutto bollino rosso per
le Regioni del Sud: solo tra Calabria, Campania e Sicilia, 12.965
istituti in caso di terremoto potrebbero subire gravi danni.
Secondo il rapporto sulla sicurezza e la qualità della
scuola di “Cittadinanza attiva”, tra settembre 2013
e agosto 2014 si sono verificati, al Nord come al Sud, trentasei
casi di cadute di solai, tetti, controsoffitti, distacchi di
intonaco. Trentanove ragazzi hanno perso la vita. E mentre le
scuole crollano, il Miur attiva convenzioni con le multinazionali.
Come la Dusmann, ma non è in grado di provvedere alla
manutenzione degli infissi.
Si registrano storie di mancata integrazione. Se gli alunni
con cittadinanza non italiana sono 802.844, il 9% del totale
degli studenti, l'ultima riforma della “Buona scuola”
di loro non parla. Una sola citazione del termine stranieri.
Eppure, nei dati recenti riportati dalla fondazione ISMU (Iniziative
e studi sulla multietnicità), alle superiori la percentuale
con ritardo didattico degli alunni con cittadinanza non italiana
sale al 65,1%, a fronte del 23,3 % degli alunni italiani.
Intanto, all'inizio di ogni anno scolastico, genitori o sindaco
alzano le barricate. Come è successo a Corti, frazione
di Costa Volpino nel bergamasco, troppi gli stranieri seduti
tra i banchi. Oppure a Landiona, seicento abitanti in provincia
di Novara: i genitori ritirano da scuola i loro figli perché
non è piaciuta la presenza di bambini rom in classe.
Invece, chi vive la scuola senza rassegnazione si rimbocca le
maniche: alla primaria Coletti di Treviso, si segnala che tra
le attività didattiche dell' istituto è stato
inserito un corso di lingua araba grazie al finanziamento sostenuto
dal governo del Marocco e all'associazione InterMed Cultura.
Tuttavia, il quadro mostra una scuola italiana ancora gran parte
vietata alle persone diversamente abili. Nel campione di scuole
monitorate, non tutti gli edifici hanno l'ascensore, nel 20%
dei casi non è funzionante, con pulsantiere non all'altezza
della carrozzina nel 13% dei casi. Ancora troppe scuole presentano
barriere architettoniche in palestre, aule computer, biblioteche
e spesso mancano i servizi igienici per persone disabili. Secondo
l'Istat, il 10,8% degli alunni diversamente abili della scuola
primaria ha cambiato insegnante a lezioni avviate, così
l'8,8% alla secondaria di primo grado.
Ma
la buona scuola la fanno proprio loro, i ragazzi, ogni giorno.
A Trenta, in provincia di Cosenza, non si è riusciti
a trovare un autobus con pedana per il compagno disabile. Tutti
i bambini della scuola primaria rinunciano all'uscita didattica.
Una lezione di vita -commenta l'autore- hanno messo al centro
la priorità dell'integrazione.
La fotografia delle nostre scuole, inoltre, rivela che non sono
ancora completamente connesse. Docenti costretti al nomadismo
didattico per poter fare qualche lezione nella sola classe dell'istituto
dotata di una lavagna interattiva multimediale. Oltretutto,
infrastrutture digitali, aule cablate possono aiutare anche
le scuole più piccole di montagna o in località
disagiate o delle isole a sopravvivere, oppure garantire lezioni
condivise in videoconferenza, mettendo in relazione più
classi appartenenti a istituti scolastici diversi.
Il reportage focalizza altresì una scuola agonizzante:
pur di racimolare strumenti didattici, si è venduta ai
privati. Esempi: “Insieme per la scuola” promosso
dalla Conad e “Coop per la scuola”. Con la gara
al bollino, ogni genitore può dare il proprio contributo.
Se non fosse che servono 45.000 bollini, cioè 45.000
euro di spesa per “vincere” un personal computer
fisso minitower Hp, mentre due tastiere e due mouse, nel catalogo
Conad, valgono 5.250 euro di spesa. La rivista “Altreconomia”
spiega che il supermercato investe in questa iniziativa il cinque
per mille dei soli incassi derivanti dalla spesa delle famiglie
partecipanti, a fronte di una massiccia campagna pubblicitaria
gratuita che le scuole pubbliche, il Ministero e i giornali
gli stanno regalando.
Sottolinea Corlazzoli: non certo le riforme calate dall'alto
salveranno la scuola. La salva chi la vive e ci deve fare i
conti tutti i giorni. Come a Tiezzo, a Camponogara e in tante
altre realtà scolastiche dove i parenti hanno messo mano
al portafoglio, cablato le aule e acquistato tablet.
Tuttavia - si potrebbe aggiungere - la scuola, nell'era digitale
e della comunicazione virtuale, perché sia davvero buona,
dovrà saper stimolare un pensiero riflessivo e critico,
vero contrasto all'omologazione. Far leva sulla capacità
empatica di tessere relazioni autentiche, per aiutare a comprendere
le ragioni dell'atro. Puntare sulla solidarietà come
espressione libera e volontaria della socialità umana,
affinché ognuno possa mettere a disposizione il proprio
tempo e le proprie competenze in modo altruistico e disinteressato.
Una scuola che permetta di continuare a sognare e alimentare
entusiasmo, per credere che davvero un altro mondo sarà
possibile. Magari proprio a partire dalla scuola.
Claudia Piccinelli
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