Dibattito
ricerca scientifica.3/ La scienza è legata ai sistemi
di dominio
Allo scopo di precisare alcuni punti del dibattito sulla ricerca
scientifica e su quella che potrebbe essere una prospettiva
anarchica (“Facciamola finita con la ricerca scientifica”),
emersi dalla lettura degli interessantissimi contributi di Lorenzo
Coniglione (“A” 401, “Dibattito
ricerca scientifica.1/ Appropriarsi della scienza”)
e Massimiliano Barbone (“A” 401, “Dibattito
ricerca scientifica.2/ Ma la scienza va socializzata”),
ecco alcune riflessioni che vanno a completare il mio articolo
pubblicato sul numero 397 di “A”, dal titolo: “Basta
con la ricerca scientifica!”.
In effetti si può sostenere che la scienza non sia “legata
in modo inestricabile ad un sistema di dominio”, come
fa Coniglione. È difficile contestare quell'“inestricabile”...
Tuttavia, internet, il web e gli algoritmi attuali, solo per
fare tre esempi che si basano su uno sfruttamento tecnico diretto
di scoperte scientifiche come la cibernetica di Norbert Wiener,
sono stati proprio pensati e realizzati da entità che
discendono da un sistema di dominio: l'esercito statunitense
per internet, il Centro europeo per la ricerca nucleare per
il web, le banche d'affari e gli Stati (tra gli altri) per gli
algoritmi più potenti. I contributi della teoria critica
dopo Auschwitz e Hiroshima, in proposito, mi sembrano incontrovertibili:
dal 1945 la scienza si è posta quasi integralmente al
servizio di ciò che ci opprime (la filiale tedesca della
IBM aveva preso parte alla “gestione amministrativa”
dei deportati nei campi di concentramento e di sterminio...).
Propongo di dire più precisamente che “Fino
ai giorni nostri, la scienza è stata legata in modo
inestricabile ad un sistema di dominio”. Il che non significa,
naturalmente, che sarà sempre così, ma bisogna
inevitabilmente chiedersi perché, fino a questo momento,
la scienza impernia le proprie ricerche più sul versante
di ciò che ci opprime che sul versante di ciò
che ci libera...
Nel mio articolo pubblicato
sul n. 397 di “A”, ho fatto riferimento alla
tesi di Lewis Mumford di una Megamacchina come sistema di dominio
fondato sulla scienza. Il che non impedisce che si possa impostare
un approccio scientifico e al tempo stesso non dominatore, se
non addirittura antiautoritario; ma allora il dilemma è
politico: se una simile scienza può esistere o esiste
già, com'è possibile che essa sia così
marginale, e che solo la scienza legata agli apparati di dominio
monopolizzi i contributi alla ricerca? (Così vanno le
cose in Francia e mi sembra che negli Stati Uniti sia ancor
peggio...). Perché viene investito tanto denaro negli
OGM, nel nucleare (in Francia il nuovo reattore di Flamanville
costerà miliardi di euro...), negli algoritmi finanziari,
e niente nella ricerca per migliorare i recipienti che utilizzano
l'energia solare per trasformarla in energia termica, per esempio?
Perché gli scienziati che lavorano all'elaborazione di
una scienza non dominatrice non sono maggiormente presenti e
ascoltati?
Il rischio che si corre nel non fornire risposte soddisfacenti
a tutte queste domande non rivela forse che si crede in una
futura età dell'oro, nella quale la scienza sarebbe interamente
al servizio del non-dominio, una scienza anarchica e un'età
dell'oro che non abbiamo alcuna probabilità di vedere
un giorno realizzate nella misura in cui il primo nodo da sciogliere
è proprio quello del dominio? Mi sembra che sia la questione
cui giunge anche Coniglione, ma attraverso vie differenti. Ma
allora, rispondiamo a questo quesito scomodo: siamo condannati
a pensare che oggi serve il dominio, e dunque ivi comprese
la scienza e le sue applicazioni tecnologiche; di conseguenza,
invece di rifiutare semplicemente in modo astratto il dominio,
potremmo porci nella prospettiva che tende all'anarchia
e lavorare nella direzione di un cambiamento di ciò che
ci opprime nel senso di una minore oppressione, il che implica
il fatto che non dobbiamo illuderci sulla natura della scienza
oggi, che è uno strumento al servizio della dominazione.
Potremmo costruire, dunque, una teoria che rifiuti e respinga
la scienza dominatrice, e metterla in pratica rifiutando ciò
che ciascuno di noi si sente in grado di rifiutare e respingere,
dai telefoni cellulari fino al cibo geneticamente modificato,
dai farmaci allopatici ai treni ad alta velocità. In
sintesi, indirizzare la tecnoscienza verso la rottura di ciò
che la lega all'apparato di dominio. Una moratoria, auspicata
da David Watson, o la fine della ricerca scientifica (se ciò
si verificasse) aiuterebbero enormemente! È un punto
che vorrei sviluppare in un prossimo articolo per “A”,
sul matematico anarchico Alexandre Grothendieck.
Inoltre tengo a precisare che, come ha detto bene Coniglione,
non sono affatto un primitivista, proprio perché, nutrendomi
per lo più dei prodotti del nostro orto e della raccolta
di piante selvatiche locali, sono consapevole del fatto che,
in caso di un cataclisma industriale globale, per esempio, il
primitivismo porterebbe a una violenza devastante per accaparrarsi
il cibo disponibile. Pierre Clastres, che spesso viene citato
in questa rivista, in Archéologie de la violence,
ha ampiamente dimostrato che il paleolitico non è certamente
una soluzione emancipatrice.
Quanto poi a ciò che rileva Barbone, in effetti si può
pensare che una scienza unificata, su cui in particolare è
imperniata oggi la ricerca degli astrofisici, non impedirebbe
altri modi di spiegazione del mondo. Ma purtroppo la sua ipotesi
è arbitraria: è evidente come la spiegazione scientifica
dell'universo ha letteralmente spazzato via qualsiasi altra
spiegazione, in particolare quella religiosa, nel corso del
XX secolo, provocando, come reazione, l'attuale ritorno alla
religione nelle peggiori forme di fanatismo (dai cattolici e
protestanti statunitensi all'islam e al giudaismo). La questione
vera è: gli scienziati sono disposti a capire e accettare
spiegazioni del mondo diverse dalle loro? La lettura approfondita
di Stephen Hawking, astrofisico iperpresente sui media, tra
gli altri, mi ha convinto del contrario, così come ne
era stato convinto Grothendieck dagli anni settanta in poi.
Precisiamo qualcosa sull'autonomia della scienza. Lo stesso
Stephen Hawking spiega che oggi, una persona molto colta non
può sperare di abbracciare tutte le conoscenze umane,
mentre, all'epoca di Newton, ciò era ancora possibile.
Il che significa, secondo lo stesso Hawking, che ogni scienziato
può, al massimo, conoscere alcuni campi di ricerca, e
non può più avere l'ambizione di trasmettere le
proprie conoscenze a una parte significativa della popolazione.
(Sottolineiamo che Hawking compie un grande sforzo in questa
direzione.) Gli scienziati più brillanti operano ormai
in un ambito che li rende di fatto autonomi a livello della
loro scienza. Grothendieck era convinto che al massimo dieci
persone al mondo erano in grado di capire le sue ricerche negli
anni sessanta-settanta. È anche in questo senso che la
scienza è diventata autonoma dagli essere umani, ormai
incapaci di capire a fondo le ricerche in campo astrofisico,
genetico o in materia di algoritmi matematici, senza dimenticare
la fisica nucleare e certe forme di medicina, solo per fare
gli esempi più eclatanti.
Io non credo che la scienza debba preoccuparsi soltanto di sapere.
Anche in questo caso, la lettura di Hawking potrebbe convincere
qualsiasi persona con un briciolo di sapienza che, se questo
astrofisico è rappresentativo della casta cui appartiene,
e purtroppo sembra che lo sia, allora significa che queste persone
sono già da adesso su un pianeta diverso dal nostro.
Tra le altre stranezze sulle quale lavorano in parecchi, Hawking
chiede: “Perché ci ricordiamo del passato e non
del futuro?” A dimostrazione di quanto ciò sia
assurdo, di quanto significhi ignorare il significato delle
parole (passato, futuro, ricordo) e la dialettica più
elementare, è il fatto che gli odierni scienziati, o
meglio una parte di essi, sono assolutamente privi di sapienza.
La scienza dovrebbe invece preoccuparsi di valutare se sta producendo
sapienza, e la risposta, attualmente, è no.
Infine, la scienza attuale non può più essere
olistica proprio in ragione della complessità. Ma
Barbone dice bene: la scienza, di per sé, dovrebbe esserlo.
Anche per me è una cosa evidente. Tuttavia resta da sapere
se può diventarlo prima dell'età dell'oro dell'anarchia,
ma io non lo credo. Di qui la tesi di una vita protesa
verso l'anarchia, e allora tutti insieme, sì proprio
tutti, mettiamoci al lavoro per indirizzare la scienza
verso una politica di non-dominio.
Fermare la ricerca scientifica non significa gettare la scienza
alle ortiche – anch'io utilizzo la scienza così
com'è attualmente – ma arrestare la sua folle corsa
verso la complessità, l'iperspecializzazione e l'autonomia
dei percorsi di ricerca, in relazione ai bisogni reali dei bambini,
delle donne, degli uomini e degli esseri viventi di questo pianeta.
E tentare di tornare a una scienza dedicata unicamente ai bisogni
degli esseri umani e alla loro emancipazione.
Philippe Godard
Francia
traduzione di Luisa Cortese
Come possiamo concepire un ordine libertario?
1. Come possiamo concepire un ordine libertario? Il suo primo
requisito è che non deve avere natura coercitiva. Ma
può, questo requisito, estendersi ai comportamenti umani
che, per essere liberi, non sopportano alcun limite? In altri
termini: può esistere un ordine libertario che, senza
scivolare nel caos, eviti la repressione dei comportamenti più
sfrenati? Come caso esemplare di comportamenti privi di limite
o sfrenati, consideriamo le passioni umane. Qualcuno efficacemente
ha detto: Tutte le passioni esagerano, e sono passioni perché
esagerano. Una relazione umana può essere innescata
da passioni quali aggressività, ambizione, avidità,
gelosia o invidia, non meno che da passioni quali amore, gioco
o immaginazione. Sarebbe insensato provare a controllare la
direzione dei flussi, poiché anche le passioni che alcuni
giudicano viziose, pericolose o perfino distruttive, conferiscono
significato alla nostra vita e motivazione alle nostre azioni.
Inoltre, ovviamente, una società libertaria non può
controllare le passioni; deve aprirsi alla vertigine (pericolosa
e talvolta spiacevole) della libertà.
2. La domanda posta all'inizio può ricevere una risposta,
che illustro mediante due metafore. Un'automobile può
lanciarsi in una corsa “selvaggia”, che trascura
limiti e vincoli, anche non avendo un assetto meccanico equilibrato
e un impianto di freni funzionante. Ma per raggiungere un'elevata
velocità, l'automobile deve mantenersi sulla strada
asfaltata; e se desidera prolungare la corsa, accelerando dopo
la curva, deve ricorrere ai freni. Ne segue che la sua
corsa non è mai del tutto “selvaggia”: al
contrario, è proprio il controllo su strada che le permette
di proseguirla e di accentuarne la velocità. Allo stesso
modo una passione richiede, per esprimersi pienamente e per
durare, meccanismi omeostatici: essa è sì sfrenata,
ma non perché priva di freni. Le passioni capaci
di attraversare l'intera vita sono quelle che si autolimitano,
non perché subiscono qualche vincolo esterno, ma al
contrario per meglio esprimersi. Una passione può
scatenarsi ed essere distruttiva, ma non fino al punto da distruggere
il soggetto e il gruppo sociale: se così facesse, distruggerebbe
in effetti se stessa. Nessun potere l'addomestica; è
il suo stesso “correre” che la fa stare sulla strada
e le fa usare i freni.
3. Sto dunque descrivendo un meccanismo grazie al quale le passioni
si autolimitano senza subire repressione o imbrigliamento. Esse
contengono non i propri eccessi, ma la loro distruttività
personale e sociale, senza usare le briglie della coercizione
oppure quelle della persuasione. Ma vi un'ulteriore difficoltà:
in molti casi, le passioni contrastano l'una con l'altra. Se
esse “cozzano” l'una con l'altra, come può
mantenersi un ordine libertario? Per rispondere introduco un'altra
analogia con la circolazione stradale.1
Negli ultimi anni, in numerosi paesi la regolazione del traffico
misto (autoveicoli, motoveicoli, biciclette e pedoni) ha visto
il declino dei semafori agli incroci e la diffusione delle rotatorie.
La gestione dei flussi di traffico da parte dei semafori è
basata su una logica binaria: con il verde si transita, con
il rosso si aspetta. Piuttosto, le rotatorie funzionano come
i pattinatori che su una pista affollata coordinano le rispettive
traiettorie per non urtarsi: ogni guidatore, percependo il pericolo,
è vigile e pragmatico; non passa quando gli spetta, bensì
quando è sensato farlo (il pedone o la bicicletta procedono
con cautela, anche quando sarebbe il loro turno). Il risultato
non è soltanto una drastica riduzione degli incidenti,
ma pure una ridefinizione dell'idea stessa d'incidente: di solito,
se due pattinatori si toccano, nessuno concepisce l'episodio
come uno scontro per verificare chi prevale; in modo analogo,
i tamponamenti stradali appaiono errori bilaterali di coordinamento
delle traiettorie. Mentre dunque lo scontro frontale oppone
chi vince e chi perde, il conflitto è un problema di
coordinamento. Allo stesso modo, le passioni non si scontrano
l'una contro l'altra, bensì confliggono entro un complessivo
campo di forze. Il conflitto, correndo lungo una molteplicità
di dimensioni, non ha fine: nessuna passione elimina mai l'altra,
nessuna ottiene mai una vittoria definitiva, poiché tutte,
in un insieme di processi intrecciati, costituiscono il carattere
della persona. Dentro la persona ciascuna passione rinvia a
ogni altra mentre confligge con essa: di più, proprio
perché confligge. Quale unione e contesa di singolarità,
il conflitto non è dunque una guerra totale, bensì
autolimita la propria carica distruttiva per riprodursi, ossia
per non avere mai soluzione. È questo il meccanismo endogeno
che regola le passioni sfrenate: vi è una rotatoria intorno
alla quale tanti veicoli diversi si mantengono alla giusta distanza.
4. È importante mettere a fuoco meccanismi di comportamento
come quelli descritti: la passione che cerca un proprio limite
per meglio scatenarsi, oppure il conflitto che – senza
annullare l'avversario, né ridurre se stesso –
si ridisloca in un campo di molteplici contrapposizioni. Sono
meccanismi che aiutano a capire come una società libertaria
possa essere non coattiva nel trattare i comportamenti umani
meno addomesticabili, e allo stesso tempo possa essere un ordine.
Nicolò Bellanca
Firenze
1. James C. Scott, Elogio dell'anarchismo
(2012), Elèuthera, Milano, 214, pp.109-111.
Antispecismo e anarchismo: un nesso inscindibile
L'antispecismo, quella forma di lotta per la liberazione animale,
rappresenta un argomento che nel corso degli anni ha sollevato
accese discussioni all'interno dei gruppi anarchici. In particolare
ci si chiede se l'antispecismo rappresenta o meno una lotta
insita nell'anarchismo. Cos'è che differenzia lo specismo
dal razzismo o dal sessismo? Non è forse lo specismo
una delle varie strutture gerarchiche di dominio al pari delle
altre? Può parlarsi di anarchismo senza antispecismo?
Un chiarimento terminologico
All'interno del movimento anarchico globale, da decenni, si
porta avanti la discussione intorno all'antispecismo e, in particolare,
di come il movimento libertario dovrebbe approcciarsi ad esso.
Nello specifico, ci si chiede se l'antispecismo dev'essere o
meno considerata una componente essenziale nella definizione
di anarchismo e di anti-autoritarismo.
Com'è noto, l'antispecismo, rappresenta quella corrente
filosofica, culturale e politica per cui nessuna specie animale,
sia essa umana che non-umana, è considerata al di sopra
e/o superiore alle altre. Per questo, è antispecismo,
quell'insieme di pratiche quotidiane volte all'abbattimento
dello sfruttamento delle specie animali, e che a queste provocano
danno e sofferenza, per trarre esclusivo vantaggio e godimento
a favore di un'altra. Alla base di ciò, c'è il
pieno riconoscimento del diritto alla vita e alla non-sofferenza
di tutti gli esseri animali. Di contro, ovviamente, c'è
lo specismo che considera una specie come superiore alle altre
e, pertanto, si accaparra, in maniera del tutto autoritaria,
il diritto di disporre della vita delle altre specie. L'antispecismo
quindi, si batte per la liberazione totale degli esseri animali,
senza distinzioni alcune rispetto alla specie di appartenenza.
È bene precisare che nella discussione in oggetto, sarebbe
del tutto irragionevole adoperare la distinzione tra specie
umane e non-umane, in quanto si porrebbe inevitabilmente anch'essa
come una differenziazione specista. Infatti, la divisione tra
animali umani e non-umani, andrebbe a considerare l'umano come
fulcro per la distinzione di questo rispetto alle altre specie
animali con un approccio chiaramente gerarchico. L'umano, secondo
l'approccio antispecista, è considerato solo come una
delle milioni di specie presenti sulla Terra, avente così
pari dignità e diritto alla vita riconosciuti a tutte
le altre specie animali. Pertanto, in questo contesto, se non
rappresenta significato alcuno la differenziazione specista
tra animali umani e non-umani, se non al fine di favorire una
discussione terminologica e dialettica più lineare e
fluida, allo stesso modo in assoluto non viene riconosciuta
la divisione antropocentrica e comunemente accettata tra umani
e animali come appartenenti a due mondi diversi e distanti.
Ad ogni modo, va detto che l'antispecismo è una corrente
culturale e politica nata per contrastare il dominio dell'animale
umano sulle altre specie animali e che, per questo, la pratica
della liberazione animale che viene messa in atto è prettamente
umana. Perciò, laddove la distinzione tra animale umano
e animale non-umano potrebbe essere considerata legittima in
senso antispecista, è solo a condizione che questa non
venga inquadrata come differenziazione naturale e assoluta,
ma bensì, come il riscontro di un volontario e meccanico
sganciamento del vivere umano rispetto alle società non-umane,
ossia rispetto alla restante società naturale - ed è
qui che va a concrettizzarsi l'antropocentrica e specista distinzione
finora discussa - la quale include le società animali,
l'ambiente, e l'interazione tra queste due.
Specismo come categoria di dominazione
Lo specismo altro non rappresenta che una delle varie forme
di dominio dell'essere umano sulle società non-umane.
O meglio, lo specismo, è solo la gerarchia imposta dall'animale
umano nell'interazione con gli animali non-umani. In effetti,
a ben guardare, le società strutturate in maniera verticistica
e gerarchica, impongono la subordinazione di uno o più
individui a vantaggio di altri. Così, ad esempio, il
razzismo impone la subordinazione di alcuni individui rispetto
ad altri sull'errata considerazione della differenza biologica
su base razziale; allo stesso modo il sessismo in base all'identità
sessuale, così come il maschilismo e l'omofobia; ancora,
il classismo, impone la subordinazione di alcuni individui rispetto
ad altri in base all'appartenza ad una determinata classe sociale;
l'etnocentrismo su base etnica impone la supremazia di un'etnia
sulle altre o il nazionalismo su base nazionale. Lo specismo
così, impone la subordinazione di tutte le specie animali
non-umane agli interessi dell'unica specie animale umana.
L'anarchismo, che nasce proprio dalla lotta per la distruzione
del dominio, del potere, dell'autorità e delle gerarchie,
non può non prendere in considerazione l'antispecismo
al fianco dell'antisessismo, dell'antirazzismo, dell'antiautoritarismo
per la costruzione di una società libertaria. Infatti,
la supremazia umana rispetto agli animali non-umani, è
imposta sulla mera appartenenza degli uni e degli altri a specie
diverse tra loro, così come ogni gerarchia sociale nasce
dall'appartenenza a gruppi sociali portatori di interessi diversi
tra loro. Le gerarchie quindi cadono e vengono abolite laddove
la distinzione di appartenenza non si pone come limite, ma quando
c'è il riconoscimento della diversità utile solo
per il perseguimento di interessi differenti. Se questo riconoscimento
vale ed è valso in passato nel rapporto tra umani, l'anarchismo
dovrebbe riconoscere le differenze tra animale umano e animale
non-umano come delle caratteristiche peculiari ma non limitanti
e legittimitanti lo sfruttamento dei secondi ad opera dei primi.
A tal proposito, basti pensare ad esempio che lo schiavismo,
sin dalle civiltà antiche fino all'età moderna,
è stato giuridicamente regolamentato fino alla sua abolizione
(su questo bisognerebbe ragionare se lo schiavismo ha semplicemente
cambiato forme rispetto al passato) avvenuta quando, giusto
per esemplificare, il colore nero della pelle è stato
riconosciuto come caratteristica dovuta alla melanina e non
per identificare un'inferiorità. Stesso discorso può
farsi rispetto al colonialismo o alle leggi razziali.
Ciò che non va dimenticato, è che l'evoluzione
delle specie in base alle proprie necessità, ha portato
queste a sviluppare caratteristiche diverse tra loro le quali
non possono in alcun modo essere considerate come grado di valutazione
di inferiorità e superiorità e, di conseguenza,
per il loro sfruttamento, ma bensì come semplici differenze
evoluzionistiche.
Da parte di chi scrive non c'è la volontà di porsi
come giudice giudicante la condotta altrui, né la volontà
di stilare una sorta di “costituzione anarchica”
da cui far emergere i princìpi dell'anarchismo. Personalmente
però, il mio approccio all'anarchismo, prevede anche
la distruzione dello specismo inquadrato come gerarchia dominatrice
e sfruttatrice, al pari di altre strutture gerarchiche e con
le quali lo specismo condivide la stessa comune radice. A tal
proposito credo che lo specismo si sviluppi nello stesso modo
in cui si sviluppa il razzismo, il sessismo, il classismo, il
patriarcato, il maschilismo, l'omofobia, lo schiavismo, l'antropocentrismo,
l'etnocentrismo, il colonialismo, il nazionalismo, il capitalismo
e tutte quelle forme di dominio economico, sociale, culturale,
di appartenenza e di identità. Pertanto, la lotta per
la liberazione totale, non potrebbe essere considerata compiuta
fin quando anche lo specismo non verrà sdradicato e distrutto.
Nicholas Tomeo
Vasto (Ch)
Botta.../ Ma quando parlate dei rom, non dite mai che...
Seguo con attenzione ciò che scrivete; su molti argomenti
mi trovo in sintonia con gli autori degli articoli. Ma c'è
qualcosa che mi spinge a dissentire da coloro che scrivono sui
rom. Vengono trattati come se questi fossero dei santi, senza
peccati. Ho il timore che attorno ai rom sia stato creato un
mito... Sono tre le cose che mi lasciano perplesso:
1) non parlate mai dello sfruttamento delle donne e dei bambini
da parte degli uomini;
2) non evidenziate mai l'organizzazione gerarchica della comunità
rom;
3) non parlate mai dell'atteggiamento criminale di alcuni rom,
che nulla hanno da invidiare ai criminali più efferati.
Cordialmente,
Giuseppe Decleva
Trieste
...e risposta/ I pregiudizi sono duri a morire
Abbiamo chiesto una risposta a Giorgio Bezzecchi, rom harvato
(di provenienza croata), figlio di un internato ad Auschwitz,
da lungo tempo attivo – nell'Opera Nomadi e non solo –
in difesa dei diritti negati al suo popolo. Attualmente è
consulente del Consiglio d'Europa per il programma ROMACT 2.
Bezzecchi una ventina d'anni fa collaborò con Fabrizio
De André nella traduzione di parti della canzone Khorahanè.
A forza di essere vento (nell'LP “Anime salve”,
1996). Ha già collaborato in altre occasioni con noi
di “A”.
Caro Giuseppe,
purtroppo, il mito/leggenda creato sul popolo rom (del quale
faccio parte), ieri e oggi, è basato sulla presunta e
innata tendenza a delinquere, che non è da santi ma da
peccatori.
In molti viviamo in appartamenti e perfettamente componenti
della comunità locale, soprattutto da quando le nostre
storiche professioni sono venute meno.
È ormai superata la vecchia concezione che ci associava
alle comunità nomadi, con un'organizzazione gerarchica
propria, termine superato sia da un punto di vista linguistico
che culturale e che quindi non fotografa correttamente la situazione
attuale che vede solo la famiglia allargata come organizzazione
sociale.
Oggi siamo in prevalenza famiglie sedentarizzate, in gran parte
di nazionalità italiana e di antico insediamento. Le
famiglie appartenenti ai gruppi nomadi sono pochissime.
Secondo il ministero dell'interno, nel nostro paese le famiglie
che ancora viaggiano rappresentano il 2 o 3% del mio gruppo.
Ma il pregiudizio rimane, alimentato dai media attraverso la
generalizzazione, creando una politica di segregazione.
Come saprai, il danno arrecato da improprie associazioni di
notizie continua ad alimentare allarmi ingiustificati. Il rischio
di generalizzazioni e di infondati allarmismi ci vede vittime
istituzionali, frequentemente. In questo difficile momento,
la divulgazione di notizie vede l'accostamento generalizzato
e senza distinzione alcuna di un intero gruppo etnico con determinati
fenomeni di criminalità, come nel nostro caso.
Troppo insistentemente i media citano i comportamenti incivili
e i furti di alcuni rom e sinti senza fornire alcun elemento
di riscontro e dipingendo la mia comunità come un gruppo
incline alla delinquenza. L'accostamento generalizzato e senza
distinzione alcuna di un intero gruppo etnico a determinati
fenomeni di criminalità è perseguibile.
La responsabilità dei comportamenti devianti è
e deve rimanere individuale. Nei diversi casi di denuncia di
sfruttamento e altri atti criminali di alcuni rom e sinti, che
ci sono, si sono giustamente avviate le indagini e prese le
adeguate misure giudiziarie a loro carico.
I pregiudizi e la discriminazione, comunque, persistono, sintomo
che le credenze che si sono trascinate per secoli sono dure
a morire.
Mi sembra quindi doveroso ed opportuno un richiamo forte, a
quanti operano nel mondo dell'informazione, a raccontare la
realtà nel rispetto di tutti, evitando di alimentare
un clima di tensione sociale.
Cordiali saluti.
Giorgio Bezzecchi
Milano
Ma la violenza, comunque, è prevaricazione
Quando l'ormai lontana scorsa estate a Londra ho visto questi
due volantini, sono rimasta così colpita dall'esplicita
mistica della distruzione che li ho fotografati. Non sapevo
ancora chi fosse Mauricio Morales detto Punky Mauri e francamente
non ho pensato di usare il mio smartphone per cercare chi fosse.
Invece della curiosità, nella mia testa si stava formando
la lista di autori che negli anni hanno alimentato, secondo
me, il pensiero e la pratica dell'anarchismo, insomma quasi
tutto il campionario di Elèuthera e non solo. Via via
si succedevano le idee su cosa penso sull'uso della violenza.
Immediatamente il mio pensiero va all'impegno quotidiano di
Emma Goldam, per deviare su Paul Goodman e arrivare alla pratica
della libertà di Colin Ward, o allo spazio politico dell'anarchia
di Eduardo Colombo.
Poi penso che basterebbe semplicemente insistitere su Godwin
che riteneva fondamentali l'educazione e la persuasione razionale,
come strumenti di elevazione della società umana o su
Proudhon, anzichè porre l'accento su Bakunin e su Kropotkin!
Ma forse per interessare i giovani (ma son solo giovani che
hanno voglia di distruggere?) che scrivono e credono nella distruzione
come unica soluzione, ho pensato che avrei potuto invece raccontare
di Tolstoj. Un bel racconto sul grande scrittore per il quale
erano false sia l'idea di poter spezzare la violenza con la
violenza, sia l'idea che l'unica possibile soluzione fosse quella
delle riforme: trattare un accordo con il governo facendo concessioni
sperando di liberare il popolo a piccoli passi.
L'unica possibile via a cui pensò Tolstoj è affidata
alla coscienza dei singoli individui, e si fonda sul rifiuto
della violenza e della menzogna, sul pensiero indipendente e
libero, e sulla non collaborazione. Insomma si combatte con
la sola arma del pensiero, della parola, dell'esempio di vita,
senza fare concessioni al governo, senza entrare nelle sue file,
senza contribuire all'aumento della sua forza.
“Se c'è qualche possibilità [...] c'è
solo grazie agli sforzi dei singoli individui” così
scriveva Tolstoj nei sui diari e io sono completamente d'accordo
con lui.
A questo punto sottolineo: Malatesta sosteneva che la violenza
fosse una necessità, non l'ha mai considerata un mezzo.
Secondo lui gli anarchici erano dei liberatori e non dei giustizieri.
Dunque se anche sosteneva che ricorrere alla violenza fosse
un espediente obbligato per piegare l'ostinata resistenza del
potere, non vi sarebbero dovute essere “vittime inutili,
nemmeno tra i nemici”, rimanendo “buoni e umani
anche nel furore della battaglia”.
Ma forse invece di concentrarmi sulla giustificazione intellettuale
del NON usare la violenza come mezzo, dovrei capire meglio chi
è Mauricio Morales detto Punky Mauri.
Era un giovane anarchico cileno. È morto trasportando
un ordigno rudimentale, probabilmente destinato a far saltare
la Scuola di Gendarmeria del Cile, verso cui si stava dirigendo.
Dunque chiamare a raccolta in suo nome è espressione
di uno stato di malessere e di oppressione che determina una
risposta spontanea di tipo violenta?
Come si rapporta il pensiero e la pratica anarchica alla sua
morte che dai suoi compagni viene definita da combattente? Come
si concilia con la mia (e non solo) idea che la via sia quella
della pratica quotidiana della democrazia diretta in forma di
assemblee territoriali, di consigli, di insiemi collettivi,
che si tratti anche solo di un Gruppo di Acquisto Solidale,
tutte cose che rappresentano la via della costruzione di una
società solidale, autogestionaria e federalista, ove
sia affermato finalmente il principio “a ognuno secondo
i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”?
Bisogna tener presente che la violenza, qualsiasi essa sia,
è una forma di prevaricazione di un individuo su un altro
individuo. Com'è possibile costruire una società
di liberi e di eguali, e contingente instaurazione di un ordine
sociale in cui ogni potere, e quindi ogni violenza, sia estirpata?
E ancora, perché ci sono anarchici che alimentano il
pregiudizio che anarchia significa violenza ed è quasi
solo sinonimo di dinamite?
Certo non contesto il diritto di negare la forza con la forza.
Mio padre è stato partigiano e poi la stessa dichiarazione
dell'ONU sui diritti degli esseri umani prevede il ricorso all'insurrezione
contro regimi liberticidi ed autoritari. Dunque la questione
vera è piuttosto quella dell'utilità della violenza
nel processo di costruzione della forza da opporre alla violenza
dello Stato. E per quanto riguarda l'utilità degli attentati
individuali, del ricorso alle armi, fuori di un eventuale contesto
di “rivoluzione in opera” bisogna riconoscere che
non hanno mai giovato, anzi come è accaduto anche dopo
la morte di Punky Mauri, hanno fornito alla polizia valide motivazioni
per una repressione ancora più dura e sempre più
generalizzata, e senza che qualcuno sia riuscito a far veicolare
il messaggio anarchico.
Per concludere: l'abbinamento anarchia/violenza fa il gioco
del potere e depotenzia la proposta sociale anarchica, screditandola
e riducendola a puro fenomeno ribellistico.
Averne coscienza vuol dire non offrire al potere occasioni per
leggittimare e incrementare la sua oppressione e la sua violenza,
ma lavorare per la costruzione di quell'unità e di quella
forza sociale che uniche possono abbattere il sistema classista
e autoritario. Oppure qualcuno mi spieghi il contrario!
Eugenia Lentini
Milano
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Ecco la traduzione del volantino
sopra riprodotto che, insieme a quello accanto, ha suscitato l'intervento di Eugenia Lentin: “Armati e sii violento, meravigiosamente
violento, finché tutto non brucerà. Perché ricordati che ogni azione
violenta contro i promotori di disuguaglianza è chiaramente giustificata dai secoli di infinita violenza
a cui ci hanno sottoposto. (Mauricio Morales, Punky Mauri). Mauri, sei presente in ogni attacco
del conflitto contro l'autorità, in ogni tentativo di distruggere questa società,
in ogni meraviglioso atto di solidarietà coi prigionieri”. “Fatemi un favore, fate in
modo che l'anarchia viva” |
Contro il materialismo, per il margine umano. Anche nel porno
Vi scrivo in merito all'interessante presentazione di diversi
punti di vista sul tema della pornografia. Quando Monica Lanfranco
parla (in “A”
401, ottobre 2015) della finta strada per la liberazione
argomentando che: “Alcune femministe italiane hanno sostenuto
che la libertà femminile si esprime e si legittima anche
nella scelta di vendersi, di farsi comprare, così come
di comprare, consumare o essere soggetto/oggetto di pornografia.
In questa certezza si lascia, però, di sfondo, un dato
non secondario: non si considera come queste scelte, propugnate
come libere, sono rigorosamente dentro l'orizzonte del mercato,
che non è per nulla libero, ma al contrario diventa l'unico
elemento regolatore delle relazioni così come delle vite
individuali e delle dinamiche collettive, causando la messa
in secondo piano dei sentimenti e delle emozioni, centrando
l'attenzione e la signoria sul denaro e il potere. Rendendoci,
tutti e tutte, al servizio acritico di un pensiero unico, e
non più libere e liberi”.
Il suo ragionamento è troppo materialista per quel che
credo, infatti un dato non secondario che la Lanfranco non considera,
riducendo tutte le nostre scelte alle dinamiche del mercato
che declinano le nostre vite come in un Matrix senza possibilità
di intervento, è quello che Romain Gary chiamerebbe il
nostro “margine umano”, quell'umanità che
sfugge a queste interpretazioni che in Lui non hanno fiducia
e che sviliscono la genuina irriducibilità di tutti noi,
uomini e donne, fruitori/ produttori, soggetti/oggetti del mercato
pornografico.
Il margine umano è la nostra possibilità di rendersi
conto di queste dinamiche e di combatterle in nome dell'Umano,
il nostro sentire, il nostro essere consapevoli che se il pensiero
unico acritico è la minestra più facile da ingoiare
ci sono molte altre pietanze che la vita ci offre, basta essere
curiosi, basta ricordarsi che ogni teoria che oggettivizza la
nostra unicità non ne coglie che una sfaccettatura, nella
misura e nella forma dei limiti stessi di ogni chiave interpretativa
che si vuole ultima e quindi dogmatica.
Una domanda proibiamo il porno e riapriamo le case chiuse?
Fabrizio Dentini
Marseille (Francia)
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Fondazione Giorgio Gaber
(Milano) quale contributo per la collaborazione nell'organizzazione
della serata su Pietro Gori, il 1° agosto 2015
a Carrara, 500,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Miloud, 500,00; Arnaldo Androni (Vigolo Marchese –
Pc) 10,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri Ponente)
12,50; Enrico Calandri (Roma) 150,00; Marco Cressatti
(Bari) 15,00; Giancarlo Nocini (San Giovanni Valdarno
– Ar) 10,00; Rinaldo Manganelli (Villafranca
in Lunigiana - Ms) per versione pdf, 10,00; Massimiliano
Bonacci (Bologna) 20,00. Totale € 1.227,50.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Sergio
Bissi (Mantova); Claudio Paderni (Bornato –
Bs); Luigi Palladino (Torre del Greco – Na).
Totale € 300,00.
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