Kurdistan turco
Viaggio in Bakur
di Giulio D'Errico per “RojavaResiste”
Impressioni di viaggio dalla regione dove i curdi - pur nel contesto di guerra - sperimentano, tra mille difficoltà, anche autogoverno e autogestione. A partire dall'influenza esercitata dal pensiero municipalista libertario di Murray Bookchin
Il Bakur (settentrione, com'è
chiamato il Kurdistan turco) è una terra attraversata
da sorprendenti esperimenti di autogoverno e autogestione, e
al contempo dilaniata da uno scontro continuo con il governo
di Recep Tayyip Erdogan.
Esperimenti
che prendono il via molto lontano. La profonda revisione del
programma del PKK attuata da Öcalan dall'isola-carcere
di Imrali, dove è tuttora imprigionato, ne è la
base teorica. Da una visione classicamente marxista-leninista
a un socialismo libertario fortemente inspirato al municipalismo
Bookchiniano, negli ultimi quindici anni il movimento di liberazione
curdo ha subito una forte metamorfosi. Passa di qua la rinuncia
all'obiettivo di creare uno stato curdo, sostituito dal progetto
del confederalismo democratico fondato sui quattro pilastri
di autonomia, democrazia diretta, femminismo e ecologia.
La lotta per l'autonomia e l'esperimento rivoluzionario nel
Rojava (occidente) siriano ne sono il carburante e la scintilla.
Alla guerra contro Daesh per liberare Kobane e i cantoni curdi
oltreconfine, i militanti del Kurdistan turco hanno partecipato
numerosi, così come numerosi stanno partecipando ai conflitti
nella regione irachena (o Bashur, meridione). La resistenza
e la ricostruzione della città-simbolo di Kobane è
stata costantemente supportata da diversi gruppi e organizzazioni
in tutto il Bakur, e nello stesso territorio migliaia di profughi
provenienti dalle zone di conflitto o dalle aree ancora in mano
al Daesh, popolano i numerosi campi profughi. Uno scambio continuo
ha attraversato una frontiera sempre più militarizzata
e ufficialmente invalicabile.
Nei primi mesi del 2015 alcune municipalità in territorio
turco hanno dichiarato la propria autonomia e si sono date forme
di autogoverno, traendo forza proprio da quanto sta avvenendo
in Rojava. Sono state istituite case del popolo, assemblee di
quartiere, comitati, scuole e centri culturali, così
come cooperative di lavoro in città e nei villaggi. Le
modalità sono diverse di luogo in luogo, come diverso
è il peso dei partiti curdi, delle organizzazioni sindacali
e delle stesse amministrazioni locali.
Esperimenti e conflitti, dicevamo. E qui, l'uno non si dà
senza l'altro.
Il governo di Ankara non ha mai perso occasione di appoggiare,
ufficialmente o meno, qualsiasi gruppo o formazione in funzione
anti-curda. L'instabile alleanza con Bashar Al-Assad aveva in
questo la sua forza principale, mentre i rapporti con Daesh
sono venuti alla luce in più occasioni.
Con le elezioni del giugno scorso però il conflitto ha
ripreso a inasprirsi anche sullo stesso territorio turco. Il
progetto di riforma costituzionale in senso presidenziale di
Erdogan ha subito una battuta d'arresto, poiché lo storico
traguardo del 13% del partito filo-curdo HDP (partito del popolo
democratico), primo partito dichiaratamente pro-curdo a entrare
in parlamento, ha impedito al presidente della repubblica turca
e al suo partito, l'AKP (partito per la giustizia e lo sviluppo),
di ottenere la maggioranza assoluta. Da quelle elezioni nessun
partito è uscito vincitore e un governo di unità
nazionale è stato creato per traghettare il paese fino
alle prossime elezioni di novembre. Da quelle elezioni è
però scaturita l'esigenza, ancora più forte di
prima, da parte di Erdogan, di annientare le opposizioni, con
il solito occhio di riguardo per quella curda, inasprendo gli
attacchi contro le diverse espressioni del dissenso.
Violenze e attacchi che si erano contati a centinaia già
in campagna elettorale, culminando con l'attentato a firma Daesh
del 5 giugno durante un comizio dell'HDP a Amed (Diyarbakir).
Il 20 luglio un attentatore suicida si fece saltare in aria
nel centro culturale Amara, a Suruc, sul confine con la Siria,
durante un incontro di giovani socialisti aderenti al SGDF (Federazione
delle associazioni dei giovani socialisti) raccolti lì
per portare aiuti e solidarietà a Kobane.
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Amed (Kurdistan turco) - Campo profughi dove risiedono oltre 2000 curdi yazidi dalla regione di Shengal |
Esperimenti e conflitti
Il nostro viaggio in Bakur, svoltosi nella seconda metà
di ottobre, per quanto breve, ci ha permesso di essere testimoni
di questa esperienza. Discussioni, interviste, chiacchiere e
incontri hanno reso possibile conoscere in parte quanto sta
avvenendo in quella regione. Le municipalità autonome,
che hanno rotto qualsiasi forma di comunicazione con il governo
centrale, hanno subito continui attacchi da parte delle forze
di polizia e dell'esercito. Il coprifuoco è il dispositivo
preferito per fiaccare la resistenza dei quartieri e dei villaggi
più combattivi. Interruzione dei servizi idrici ed elettrici,
oscuramento delle comunicazioni e dei social network in particolare,
blocco fisico di parte delle città, impossibilità
di entrare e uscire, pattugliamento continuo di mezzi corazzati.
Ovunque il coprifuoco ha portato con sé una scia di sangue.
Colpi di granate a sventrare i muri delle case e cecchini appostati
a colpire chiunque esca di casa. Una guerra sporca che il governo
attua in primo luogo contro i civili, utilizzando corpi di polizia
speciali e esercito.
A Cizira Botan (Cizre, secondo la topografia turca) siamo arrivati
poche settimane dopo il ritiro del coprifuoco. La violenza delle
truppe turche aveva come obiettivo particolare i quattro quartieri
liberati e autodifesi dai militanti curdi. Quartieri labirinto
che, dalle arterie principali della città, si addentrano
in una miriade di curve e di vicoli inaccessibili ai mezzi corazzati.
Quartieri difesi da barricate e teli di plastica a coprire le
vie all'occhio dei cecchini. Da uno stuolo di giovani e giovanissime
staffette e sentinelle che, dai tetti come dalle biciclette
o dalle moto, controllano le zone di accesso. Quartieri difesi
sia con le armi che con il supporto della comunità che
li vive.
A combattere in questo territorio sono le formazioni delle Ydg-H
(movimento giovanile patriottico rivoluzionario) e delle Ydgk-H,
sua costola esclusivamente femminile. Sono gruppi formati da
ventenni, cresciuti con la primavera siriana, la guerra civile
e la rivoluzione in Rojava, durante gli anni delle politiche
di terra bruciata intorno al PKK e ai movimenti pro curdi. Queste
formazioni, pur affiliate al PKK, mantengono una forte autonomia,
anche da un punto di vista strategico, in quanto optano per
una strategia tutta urbana di autodifesa armata dei quartieri
da cui provengono. Nove giorni di coprifuoco hanno tentato invano
di sfondare le difese di questi quartieri. Ventitré civili,
tra cui diversi bambini e anziani, sono rimasti uccisi dai colpi
dei cecchini o delle armi pesanti in dotazione alle forze armate
governative, in quello che è stato finora il coprifuoco
protrattosi più a lungo. I muri delle case e le strade
dei quartieri portano pesanti i segni di quei nove giorni, ma
i progetti di autogestione continuano. Ci viene raccontato della
creazione di una scuola in curdo, decisa e attuata in completa
autonomia da parte di un gruppo di cittadini, della prosecuzione
delle assemblee locali nel centro culturale del quartiere, del
progetto di autogoverno della città che prosegue nonostante
la violenze e nonostante al momento della dichiarazione di autonomia
la stessa co-sindaca dalla città sia stata rimossa dal
suo ruolo.
Il coprifuoco lo ritroviamo e lo viviamo ad Amed. La zona di
Sur, la città vecchia racchiusa dalle antiche mura è
inaccessibile, e lo resterà per quattro giorni. Il coprifuoco
si espande ad altre zone della città. Colonne di fumo
e colpi d'armi da fuoco sono la scenografia visiva e sonora
dell'antica capitale curda. Al di fuori delle aree di coprifuoco
sono i giovanissmi a ingaggiare la polizia in rapidi scontri,
con barricate improvvisate e lanci di pietre, mentre più
di un corteo viene organizzato per sostenere almeno simbolicamente
chi si trova nella zona del coprifuoco. Quanto sta avvenendo
all'interno della città vecchia lo apprendiamo solo alla
fine del coprifuoco, quando riusciamo a visitare parte di quella
zona. Gli attacchi delle forze di polizia hanno ucciso almeno
quattro persone tra cui una ragazzina di 12 anni. I muri di
case e moschee sono crivellate da colpi di artiglieria, le scritte
pro-PKK sono state cancellate o distrutte e sostituite da minacce
di morte di matrice religiosa, simboli dei lupi grigi e insulti.
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Suruc (Kurdistan turco) - Il memoriale a ricordo delle vittime dell'attentato al centro culturale Amara |
Genocidio culturale
Il ruolo del partito, l'HDP e la sua componente più
prettamente curda, il DBP (Partito delle regioni democratiche),
è emblematico e ineguale da una zona all'altra, sospeso
tra l'amministrazione legale della quasi totalità delle
municipalità del Bakur e il supporto – interno
o esterno a seconda dei casi – per le più diverse
espressioni della resistenza al dominio turco. L'impressione
è quella di assistere alla formazione di una società
separata dalle istituzioni centrali, società in cui il
partito e le istituzioni locali da esso controllate sono uno
tra i tanti strumenti e le tante forme di organizzazione a disposizione.
Separazione che si vede nelle iscrizioni in curdo – lingua
a tutt'oggi vietata – accostate a quelle ufficiali sui
palazzi comunali della città di Amed (Diyarbakir) come
nelle sovvenzioni alle accademie d'arte e ai centri culturali
sparsi su tutto il territorio, dove si insegna la lingua e le
tradizioni curde, e che sono diventati i principali centri di
resistenza al genocidio culturale messo in atto da decenni dallo
stato turco.
Se oggi – ci viene detto – gran parte dei ragazzi
parla correntemente curdo, così non era per i loro genitori.
Nulla è stato concesso, ogni spazio di libertà
è stato conquistato con determinazione negli ultimi anni.
E ancora oggi parlare curdo nei quartieri sbagliati o in situazioni
formali può significare l'arresto.
Separazione evidente anche nella gestione dei rifugiati siriani
e iracheni. I campi profughi nella regione sono numerosi. Alcuni
sono gestiti dall'equivalente turco della nostra Protezione
Civile, e a questi è impossibile accedere, altri sono
gestiti autonomamente dall'HDP. Abbiamo visitato il campo di
Suruc, un'arsa distesa di terra bruciata su cui posano 85 tende,
composto da profughi scappati dal nord della Siria, e il campo
per i profughi yezidi alla periferia di Amed, il più
grande della regione, dove vivono ancora migliaia di persone.
Il primo, privo di qualsiasi struttura comune, e di qualsiasi
servizio oltre la sopravvivenza, ospita ora meno della metà
delle persone che vi vivevano fino a qualche mese fa.
Molti sono tornati a Kobane o nei cantoni limitrofi una volta
finiti gli scontri, molti altri sono partiti per tentare di
entrare in Europa. Chi resta è in attesa di una delle
due, o resta per usufruire del servizio sanitario turco. Nel
campo di Amed la situazione è diversa. Tutti gli abitanti
arrivano dalla zona di Shingal, nel Kurdistan iracheno, grazie
alla protezione del PKK, che ne ha permesso la fuga dal Daesh,
prima in Siria e poi in Turchia. Nessuna delle persone con cui
parliamo vuole tornare a Shingal, anche in caso di pacificazione,
e per molti l'unico desiderio è arrivare in Europa. Il
campo ha però una dimensione molto più stabile,
con un ambulatorio e un piccolo edificio adibito a scuola, anche
se sicuramente non sufficiente a contenere l'enorme numero di
bambini e ragazzi che vivono lì. Gli altri campi della
regione sono più piccoli, e in via di ridimensionamento;
i servizi e la qualità delle strutture variano notevolmente,
e in alcuni di essi si sono avviati progetti educativi e sociali
in totale autogestione.
Una società parallela, dentro lo stato e contro lo stato,
che non mira ad abbatterlo, ma a conquistare e difendere una
completa autonomia. Una società che ormai si interfaccia
con lo stato solo su un piano di scontro, militare. Una società
che almeno sulla carta cerca di organizzarsi su quei principi
di democrazia diretta, autonomia, femminismo e ecologia che
sono i pilastri del confederalismo democratico, ma in cui la
diffusione di una consapevolezza politica che vada oltre semplici
parole d'ordine sembra riservata a un – seppur folto –
numero di attivisti e militanti.
Nel nostro viaggio abbiamo potuto constatare come in particolare
i temi del femminismo e dell'ecologia incidano inegualmente,
e in certi casi debolmente, sulla popolazione. E anche all'interno
della comunità più consapevole lo scarto fra città
e campagna è sensibile. Se in centri urbani come Sanliurfa
e Amed l'idea di autodeterminazione della donna sulla propria
vita e sul proprio corpo sembra essere un punto assodato, e
con essa una totale difesa del diritto al divorzio e all'aborto,
in posti più periferici come Suruc abbiamo incontrato
molta meno apertura su questi diritti, garantiti solo in situazioni
emergenziali (di violenza). L'idea di una società ecologica,
con tutte le sue implicazioni e conseguenze radicali, soffre
ancora di più questa difficoltà a fuoriuscire
da una ancora più stretta cerchia di accoliti.
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Cizre (Kurdistan turco) - Barricate a difesa del quartiere di Nur |
Nel palazzo del sultano
Siamo a Suruc, nel centro culturale Amara, quando apprendiamo
dell'attentato ad Ankara, il 10 ottobre. Ci troviamo nel luogo
esatto in cui – come già accennato – un altro
attentatore suicida uccise oltre 30 persone. Nel giardino del
centro un piccolo memoriale ricorda le vittime, mentre la parete
dell'edificio è ancora parzialmente distrutta. Ci viene
raccontato di come la polizia abbia impedito e rallentato l'arrivo
dei primi soccorsi, di come abbia sparato lacrimogeni sui feriti,
di come abbia contribuito a far salire il numero delle vittime.
Le similitudini tra questo racconto e quello che nelle ore successive
vedremo e leggeremo sull'attentato nella capitale sono agghiaccianti.
Anche ad Ankara le esplosioni avvengono vicino al punto di ritrovo
degli attivisti filo curdi. Anche ad Ankara la polizia (ciecamente?)
carica la folla e rallenta i soccorsi. Ancora la mano sembra
essere quella del Daesh.
“Mano fascista, regia democristiana” recitava uno
slogan a proposito della strage di Piazza Fontana a Milano,
“I responsabili di questo massacro stanno nel palazzo
del sultano”, recita lo striscione mostrato al presidio
a cui partecipiamo quello stesso giorno.
Giulio D'Errico per “RojavaResiste”
rojavaresiste.noblogs.org
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