Un futuro già presente
testo e foto di Orsetta Bellani
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Mural
nel Municipio Olga Isabel |
Si conclude qui la serie di
corrispondenze dal Chiapas iniziate nell'estate 2014 e uscite
su ogni numero (a parte lo scorso). In quest'ultima puntata
si parla di frugalità, produzione e sviluppo, buen
vivir, immaginario alternativo.
Il parlottare di un gruppo di
donne che sgrana pannocchie di mais mi scuote dal sonno. La
notte non è ancora finita ma nella comunità c'è
un via vai di persone come fosse pieno giorno. Alejandro1
mi spiega che quando il sole sorge bisogna già essere
nei campi, in modo da poter interrompere il lavoro quando la
calura non permette di continuare.
Mi invita a salire sul cavallo e ridiamo della mia goffaggine.
Attraversiamo sentieri di terra rossa circondati da mucche e
campi coltivati. Incontriamo persone a cavallo o a piedi, alcuni
portano sulle spalle sacchi di mais o attrezzi da lavoro. Sorridono
e alzano leggermente il bordo del cappello abbassando il mento,
in segno di saluto.
Il terreno che la comunità coltiva collettivamente si
arrampica su una montagna scoscesa. Alejandro mi spiega che
non ci sono macchine, si semina e si raccoglie con metodi tradizionali.
Si tratta di una milpa, un agrosistema molto utilizzato
presso i popoli indigeni mesoamericani e in cui si coltivano
mais, fagioli e zucche. La dieta delle comunità indigene
del Chiapas è composta quasi solo da questi tre elementi,
non sono molte le famiglie che coltivano altri ortaggi, e mi
chiedo perché l'organizzazione non promuova un'alimentazione
più ricca e variata.
Alzo il bordo inferiore della maglietta per creare una saccoccia,
che Alejandro riempie di chicchi di mais. Mi spiega che si semina
affondando un bastone nella terra e, senza accucciarsi, si fa
cadere un chicco nel solco che poi si ricopre con il piede.
Mi porge il bastone e mi dice che devo camminare lungo una linea
immaginaria facendo i buchi, uno dietro l'altro, ad una distanza
di circa un metro. Non so se sarò d'aiuto, ma spero almeno
di non fare danni.
Tutti lavorano duro ma nel frattempo chiacchierano, scherzano.
Almeno una persona per ogni famiglia del villaggio lavora nel
terreno che si coltiva collettivamente, e in assemblea decidono
come gestire il raccolto.
Nelle comunità zapatiste il collettivismo, la reciprocità
basata sulla mutua fiducia, è la relazione sociale basica2.
Storicamente molti villaggi indigeni sono sorti in habitat ostili
all'agricoltura e alla vita, come la selva o montagne che superano
i 2mila metri sul livello del mare, luoghi in cui la solidarietà
divenne necessaria alla sopravvivenza3.
È quella che viene normalmente definita come “comunalità”.
“Siamo comunalità, l'opposto dell'individualità,
siamo territorio comunale, non proprietà privata; siamo
compartizione, non competizione; siamo politeismo, non monoteismo.
Siamo intercambio, non commercio; siamo diversità,
non uguaglianza, malgrado anche in nome dell'uguaglianza ci
opprimano. Siamo interdipendenti, non liberi. Abbiamo autorità,
non abbiamo sovrani4”.
Il lavoro collettivo è un collante che favorisce la
costruzione di legami e socialità, di un senso di appartenenza
a un gruppo e a uno scopo. Si tratta di un modo di gestire i
rapporti lavorativi differente da quello presente nelle società
capitaliste, fuori dalla logica di sfruttamento della manodopera.
Il lavoro collettivo è, quindi, parte della resistenza
e della lotta per l'autonomia, è la materializzazione
del mondo differente che lo zapatismo costruisce con la sua
prassi.
Spiega Roberto, integrante della Giunta di Buon Governo de La
Garrucha:
“Il mal governo ha visto che non può distruggere
l'autonomia. Perché? Perché sappiamo che sta
nei nostri cuori. Quando la coscienza è matura, quando
la coscienza non è debole, allora possiamo continuare
a camminare lavorando in collettivo, tutti insieme, uomini,
bambini, donne, anziani, tutti lavoriamo5”.
Verso le 11 il sole brucia e smettiamo di lavorare, si riprenderà
nel tardo pomeriggio. Ci sediamo sotto un albero e mangiamo
fagioli, tortillas di mais e uova, bevendo Coca Cola.
Le bibite non mancano mai nelle comunità zapatiste, spesso
anche in luoghi così isolati da chiedersi come facciano
ad arrivarci.
Mi sento bene. Chiudo gli occhi e godo del sole che mi scalda,
mentre un vento leggero muove le nuvole rade. Guardo la loro
ombra correre sulle montagne verdi di prati, pascoli e campi
di granoturco. Penso che domani tutto questo finirà,
tornerò alla città.
Lascerò questa pace per il caos, ma finalmente dormirò
in un materasso morbido, con un piumone caldo. Non mi dovrò
tirare addosso secchiate di acqua fredda per bagnarmi ma basterà
aprire un rubinetto per farmi la doccia con acqua tiepida. Potrò
leggere le notizie seduta di fronte al computer e nel supermercato
davanti a casa comprare tutto quello che voglio; tutto quello
che qui mi manca.
Osservo le persone intorno a me e non sembrano invidiare la
mia vita, non desiderano tutto quello che possiedo e senza cui
io non potrei stare. Mi chiedo come sia possibile e non trovo
risposta.
“La frugalità è il tratto distintivo
delle culture libere dalla necessità di accumulare.
Al loro interno, le necessità quotidiane sono soddisfatte
soprattutto da una produzione di sussistenza, e solo una piccola
parte è stata comprata dal mercato. Ai nostri occhi
le persone hanno poche cose – una capanna, qualche pentola
e un vestito da mettere la domenica – e il denaro ha
un ruolo secondario. Ma tutti hanno accesso ai campi, ai fiumi
e ai boschi; la parentela e la comunità offrono i servizi
che, in altri luoghi, devono essere pagati. (...) In un villaggio
messicano tradizionale, ad esempio, l'accumulazione privata
porta all'ostracismo sociale: il prestigio si raggiunge nello
spendere in opere necessarie alla comunità. Malgrado
queste persone appartengano alla “fascia a basso reddito”,
nessuno patisce la fame. Tutto ciò si converte in “povertà”
quando soffre la pressione di una società basata sull'accumulazione6”.
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Cucina di una casa zapatista |
Produzione e sviluppo
Il 20 gennaio 1949, nel suo discorso di insediamento alla Casa
Bianca, l'ex presidente Harry Truman presentò una visione
del mondo che avrebbe avuto molta fortuna. Il vincitore della
Seconda Guerra Mondiale divise i paesi del pianeta tra un piccolo
gruppo di “sviluppati” e una maggioranza di “sottosviluppati”,
presto più gentilmente ribattezzati “in via di
sviluppo”.
Il modello economico e sociale dei paesi occidentali, eretto
grazie al capitale accumulato con lo sfruttamento coloniale,
era presentato come l'esempio a cui aspirare. “A chi non
piacerebbe essere come noi?”, sembrava chiedersi l'ex
presidente statunitense.
“Riconoscersi come sottosviluppato implica accettare
una condizione umiliante e indegna. Non si può più
aver fiducia nel proprio naso; bisogna affidarsi a quello
degli esperti, che ci porteranno allo sviluppo. Non è
più possibile sognare i propri sogni: sono già
stati sognati, i sogni degli “sviluppati” vengono
considerati come se fossero i propri sogni, anche se poi si
trasformano in incubi7”.
La dicotomia che attraversava il mondo dell'era Truman opponeva
la produzione alla scarsità.
La “crescita economica” era la meta da raggiungere.
Scarsità e sottosviluppo potevano essere superati seguendo
ricette che avrebbero portato, per tappe, al decollo economico8.
Governi, istituzioni finanziarie internazionali, banche e organizzazioni
non governative si sarebbero presi la briga di promuoverle e
metterle in pratica. Gli esperti dello sviluppo avrebbero eliminato
l'economia basata sull'intercambio e la proprietà collettiva
dei paesi sottosviluppati per creare società di consumatori
voraci. La capacità produttiva divenne il metro per misurare
il grado di civilizzazione di una società9.
Gli Stati Uniti promisero di accompagnare con rispetto i paesi
sottosviluppati nel loro processo di emancipazione. “Il
vecchio imperialismo – lo sfruttamento da parte di esterni
– non ha nulla a che vedere con le nostre intenzioni.
Ciò che è un programma di sviluppo basato sull'idea
di un negoziato giusto e democratico”, assicurò
l'ex presidente statunitense durante il suo discorso di insediamento
alla Casa Bianca.
La potenza nordamericana avrebbe aiutato i colonizzati a liberarsi
dai colonizzatori, e promise che il progresso avrebbe ridotto
la forbice tra i paesi “sviluppati” e quelli “sottosviluppati”.
In realtà, se nel 1960 i paesi ricchi lo erano 20 volte
in più di quelli poveri, nel 1980 erano 46 volte più
ricchi. Dopo 20 anni di sviluppo, i poveri erano sempre più
poveri10.
Ma la bontà del paradigma della produzione e dello sviluppo
per decenni non venne messo in discussione nei paesi capitalisti.
E neppure nel blocco socialista sovietico: produzione e sviluppo
erano le parole d'ordine anche dall'altra parte del muro.
Alla ricerca del buen vivir
Furono altri governi socialisti11,
quelli latinoamericani, a maturare per primi una riflessione
sull'impossibilità di una crescita economica infinita,
e sui danni ambientali irreversibili causati dallo sviluppo
capitalista.
Nel decennio scorso la protesta sociale, in buona parte indigena,
portò Evo Morales al governo della Bolivia e Rafael Correa
a quello dell'Equador. A partire dalla svolta a sinistra entrambi
i paesi approvarono nuove costituzioni (nel 2008 e 2009), che
garantiscono come diritti alcune rivendicazioni storiche dei
movimenti indigeni e contadini12.
Negli anni seguenti molte organizzazioni indigene si sono distanziate
dai due governi che accusano di non essersi, nella pratica,
allontanati dalle politiche “sviluppiste” delle
amministrazioni neoliberali precedenti, basate sullo sfruttamento
massiccio delle risorse naturali13.
Le costituzioni di entrambi i paesi sudamericani affermano che
il nuovo stato si basa sulla ricerca del buen vivir o
vivir bien, termine che cerca di tradurre il concetto
indigeno aymara suma qamaña, e il quechua sumac
kawsay14.
Il buen vivir è un filosofia di vita presente
nella cosmovisione e nelle pratiche dei popoli nativi americani,
e si modella a partire dal contatto tra la cultura indigena
ancestrale e la civilizzazione europea. Non esiste una definizione
univoca di buen vivir, ogni cultura lo costruisce a partire
della sua visione del mondo, ma presenta dei tratti comuni presso
tutte le nazioni indigene15.
Si tratta di un concetto olistico che vede gli esseri umani
stabilire fra loro relazioni di solidarietà e reciprocità,
e vivere in integrazione ed equilibrio con la natura secondo
una logica cosmocentrica piuttosto che antropocentrica16.
Si ha buen vivir quando esiste armonia all'interno della
famiglia e della comunità, quando si hanno salute, educazione
e una casa dignitosa, quando vengono rispettate la propria cultura
e le tradizioni.
Un concetto molto simile è presente anche nella filosofia
greca, nell'Odissea di Omero come in Sofocle, Euripide e nell'Etica
Nicomachea di Aristotele, secondo cui solo la saggezza che nasce
dall'armonia con il mondo e gli altri esseri umani può
portare alla felicità17.
Buen vivir non è vivere bene, ma è avere
una vita degna, che dev'essere conquistata. Non è un'idea
romantica di ritorno alla vita silvestre, ma una proposta politica
che implica una critica al concetto di sviluppo e all'insostenibile
stile di vita occidentale. Il buen vivir è uno
strumento di resistenza all'estrattivismo capitalista, e sempre
più frequentemente nei comunicati dell'EZLN. Nelle lingue
e tzotzil dei maya del Chiapas, il concetto di buen vivir viene
designato con il termine lekil kuxlejal.
“Il lekil kuxlejal è la buona vita
per antonomasia. Non è un'utopia perché non
si riferisce ad un sogno inesistente. Il kuxlejal è
esistito, si è degradato però non si è
estinto, ed è possibile recuperarlo”18.
Il lekil kuxlejal non è azione soggettiva ma
collettiva. Si manifesta nella vita comunitaria che tiene la
sua base nell'assemblea, è il lavoro collettivo e la
partecipazione alle feste, è difesa del territorio e
resistenza a valori e modelli di vita non accettabili dalla
comunità19.
Secondo l'antropologo Jaime Schlittler Álvarez del Centro
de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropología
Social (CIESAS), il lekil kuxlejal è un orizzonte
di lotta, per le comunità zapatiste e per tutti coloro
che si battono per la propria autonomia. “Esiste una relazione
tra l'idea di autonomia e la buona vita. Nel 1994, quando insorse
in armi, l'EZLN presentò delle richieste allo stato,
come garantire educazione e salute alle comunità indigene”,
spiega Jaime Schlittler Álvarez20.
“All'interno del loro percorso di lotta gli zapatisti
trasformarono queste richieste in linee guida di quello che
vogliono e stanno costruendo, che è l'autonomia. E perché
la vogliono? Perché l'autonomia garantisce una buona
vita, il lekil kuxlejal”.
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Partita di calcio in una comunità zapatista |
Un frammento, fragile ma tangibile
Il buen vivir dei popoli indigeni americani non propone
solo una critica al concetto di sviluppo, ma offre un'alternativa
alla crisi della nostra civiltà. Il modello attuale è
arrivato a un punto di non ritorno, non sappiamo cosa verrà
dopo, ma siamo chiamati a riflettere sul nostro ideale di buona
vita e a muovere i passi a partire da esso. Dobbiamo immaginare
le caratteristiche del nuovo mondo postcapitalista.
Come possiamo raggiungere la nostra idea di buen vivir,
di una vita di qualità? Cosa va contro quest'idea? È
possibile il buen vivir all'interno del sistema capitalista?
“La fine di un'era esige l'abbandono del tipo di pensiero
nel quale ci siamo formati e il riconoscere che per centocinquanta
anni siamo rimasti intrappolati nella disputa ideologica tra
capitalismo e socialismo. Abbiamo smesso di pensare. (...)
La cosa interessante è che, in vista del fatto che
stiamo modificando le nostre relazioni con la scienza, il
progresso e il potere, stiamo finendo in una situazione molto
particolare, nella quale dobbiamo guardare verso il passato
per incontrare risposte sul futuro21”.
Negli anni '70 nacque l'idea di un capitalismo rispettoso
della natura e dei cicli naturali, il cosiddetto “sviluppo
sostenibile”. Ma lo sviluppo è insostenibile per
definizione: lo sfruttamento degli esseri umani e della natura
è una delle caratteristiche fondamentali del sistema
attuale e il buen vivir – allo stesso modo della
decrescita resa celebre dal lavoro di Serge Latouche22
– è un progetto che non può muoversi al
suo interno.
Fuori dal capitalismo quindi, ma anche fuori dalla città?
Sembra infatti impossibile poter godere del buen vivir
nei grandi centri urbani, in cui vive l'80% della popolazione
mondiale. In questo caso, la sfida è pensare quale tipo
di città vogliamo e come la costruiremo, dibattendo sulla
funzione degli spazi pubblici e sul loro senso al di là
dell'aspetto estetico23.
Occorre inoltre allontanarsi dall'idea di umanità caratteristica
della modernità occidentale, di un essere umano interessato
al solo interesse personale. Non si tratta di accogliere l'idea
ingenua di un'umanità altruista e pacifica, ma di considerare
che, come afferma Marshall Sahlins, la natura umana è
un divenire culturale e come tale può essere modificata.
È necessario, in conclusione, costruire un immaginario
alternativo al presente capitalista a partire dalle forme sociali
già esistenti, e in opposizione a quelle che rifiutiamo.
Scrive Jérôme Baschet:
“Iniziare a sognare e dibattere collettivamente quello
che vogliamo costruire è parte del cammino. Un cammino
che si fa camminando e si cammina chiedendo, con l'energia
che ci muove verso ciò che ancora non è. (...)
Esperienze come quella zapatista sono un frammento, fragile
ma tangibile, di un futuro già presente24”.
Orsetta Bellani
@sobreamerica
Note
- Nome fittizio, per motivi di sicurezza.
- Dania López Córdova, La reciprocidad como
lazo social fundamental entre las personas y con la naturaleza
en una propuesta de transformación societal. In Boris
Marañón Pimentel (a cura di), Buen Vivir y
descolonialidad. Crítica al desarrollo y la racionalidad
instrumentales, Universidad Autónoma de México,
2014, pag. 99-120.
- Raúl Zibechi, Il paradosso zapatista. La guerriglia
antimilitarista in Chiapas, Elèuthera, Milano, 1998,
pag. 45.
- Jaime Martínez Luna, Eso que llaman comunalidad,
Colección Diálogos, Pueblos originarios de Oaxaca,
Conaculta, Messico, 2010.
- Quaderni di testo della prima Escuelita Zapatista, Resistencia
autónoma, pag. 45. I quaderni si possono scaricare
all'indirizzo http://anarquiacoronada.blogspot.it/2013/09/primera-escuela-zapatista-descarga-sus.html.
- Wolfgang Sachs, Planet Dialectics - Explorations in Environment
& Development, Zed Books, Londres, 1999.
- Gustavo Esteva, Más allá del desarrollo:
la buena vida. In América Latina en Movimiento
(ALAI), 1 giugno 2009. Consultabile in www.alainet.org/es/active/38110.
- Pablo Dávalos, Reflexiones sobre el sumak kawsay
(el buen vivir) y las teorías del desarrollo. In
América Latina en Movimiento (ALAI), 5 agosto
2008. Consultabile in www.alainet.org/es/active/25617#sthash.bjQZPnmm.dpuf.
- Wolfgang Sachs, Planet Dialectics - Explorations in Environment
& Development, Zed Books, Londres, 1999.
- Gustavo Esteva, Más allá del desarrollo:
la buena vida. In América Latina en Movimiento,
1 giugno 2009. Consultabile in www.alainet.org/es/active/38110.
- Il cosiddetto “Socialismo del XXI Secolo”.
- Prevedono, ad esempio, il rafforzamento del ruolo dello stato
nell'economia e garantiscono importanti diritti ai popoli indigeni:
gestione autonoma del loro territorio, possibilità di
esercitare il sistema politico e giudiziario indigeno e di partecipare
dei benefici dello sfruttamento delle risorse naturali presenti
nei loro territori.
- Pablo Stefanoni, Evo, “el modernizador”.
In settimanale Brecha, ottobre 2014. Consultabile in:
http://www.sobreamericalatina.com/?p=1652.
- Cletus Gregor Bailé, Nuevas narrativas constitucionales
en Bolivia y Ecuador: el buen vivir y los derechos de la naturaleza,
Latinoamérica. Revista de estudios latinoamericanos,
Messico, febbraio 2014. Consultabile in:
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1665857414717247.
- Aldo Zanchetta, Il Buen Vivir come paradigma del mondo
nuovo?, marzo 2013. Consultabile in: https://liberauniversitapopolare.files.wordpress.com/2009/11/il-buen-vivir-come-paradigma-del-mondo-nuovo.pdf.
- David Choquehuanca Céspedes, Hacia la reconstrucción
del Vivir Bien. In América Latina en Movimiento
(ALAI), febbraio 2010. Consultabile in: http://www.plataformabuenvivir.com/wp-content/uploads/2012/07/ChoquehuancaReconstruccionVivirBien2010.pdf.
- Olga Abasolo, Reflexiones sobre el concepto de buen vivir
en la cultura occidental. Entrevista a Emilio Lledó,
CIP-Ecosocial, Boletín ECOS n. 11, aprile-giugno 2010.
Consultabile in: https://www.fuhem.es/media/cdv/file/biblioteca/Entrevistas/Entrevista_Emilio_Lledo.pdf.
- Antonio Paoli, Educación, autonomía y lekil
kuxlejal: aproximaciones sociolingüisticas a la sabiduría
de los tseltales, Universidad Autónoma Metropolitana
(UAM) – Xochimilco, Ciudad de México, 2003.
- Jaime Martínez Luna, Eso que llaman comunalidad,
Colección Diálogos, Pueblos originarios de Oaxaca,
Conaculta, 2010.
- Intervista di Orsetta Bellani a Jaime Schlittler Álvarez,
San Cristóbal de Las Casas, ottobre 2015.
- Gustavo Esteva, Antistasis. L'insurrezione in corso,
Asterios, 2012, pag. 27 e 29.
- Secondo Serge Latouche, è necessario ristrutturare
l'apparato produttivo e cambiare il modello di consumo per ridurre
l'impatto dell'impronta ecologica, oltre a modificare il sistema
di valori di riferimento della società, per crearne una
basata sulla convivenza e sullo spirito del dono.
- Florencia Yanniello, Vivir bien en las ciudades,
rivista Tinta Verde, 12 gennaio 2014. Consultabile in: https://tintaverde.wordpress.com/2014/01/12/debates-en-torno-al-extractivismo-y-el-buen-vivir/.
- Jérôme Baschet, Adiós al capitalismo,
Futuro Anterior, Buenos Aires, Argentina, 2014, pag. 78-79.
Una riflessione di Eduardo Galeano
“Dov'è
che pagano il reddito medio pro capite?
C'è più di un morto di fame che vorrebbe
saperlo.
Dalle nostre parti, i numerini hanno miglior fortuna
delle persone.
Quanti se la passano bene quando va bene l'economia?
Quanti ne sviluppa lo sviluppo?
A Cuba, la rivoluzione trionfò nell'anno di
maggior prosperità
di tutta la storia economica dell'isola.
In America Centrale, più la gente era fottuta
e disperata
più le statistiche sorridevano e ridevano.
Negli anni '50, '60 e '70, anni tremendi,
tempi tumultuosi,
l'America Centrale vantava l'indice di crescita economica
più alto del mondo,
il più rapido ritmo di sviluppo regionale nella
storia dell'uomo.
In Colombia, fiumi di sangue intersecano fiumi d'oro.
Economia florida, anni di facili guadagni: al culmine
dell'euforia,
il paese produce cocaina, caffè e crimini in
grande quantità”.
Eduardo Galeano
Eduardo Galeano, Il libro degli abbracci, Sperling&Kupfer,
Milano, 2008
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