Manifesti di pace
per chiudere con la guerra
I
manifesti pacifisti occupano un posto speciale tra i molti strumenti
usati per la promozione di una cultura di pace e per la protesta
contro i vari aspetti di una subcultura di guerra e di violenza.
I manifesti spesso attribuiscono un volto memorabile alle questioni
sociali e politiche e possono esprimere l'essenza di un messaggio
tramite immagini forti. La gamma di metodi e movimenti che operano
in modalità nonviolenta per la pace e la giustizia sociale
e solidale sono evidenziati nella qualità artistica e
creativa e nelle informazioni, mirate ad esprimere il concetto
specifico, contenuto nei manifesti. Questo libro (Manifesti
raccontano... Le molte vie per chiudere con la guerra, a
cura di Vittorio Pallotti e Francesco Pugliese, Grafiche Futura,
Trento, 2014, pp. 200, € 20,00) riporta una piccola selezione
di manifesti che evidenzia alcuni dei temi e delle idee centrali
delle azioni e delle iniziative di pace in Italia e nel mondo.
Questa raccolta di manifesti per la pace è una piccola
porzione del vasto e variegato arcipelago nonviolento e pacifista
ed è solo una minima parte di tutti i manifesti che sono
stati stampati. Il libro si propone anche di fornire ispirazione
a coloro che, attualmente, nel nostro presente, e in rapporto
alle prossime generazioni, si impegnano sulla vasta gamma di
metodi, esperienze e iniziative possibili per creare un mondo
di pace e attualizzare un'utopia concreta di giustizia sociale
e solidale, di gestione nonviolenta e pacifica di conflitti
e contrasti, spaziando tra vasti temi e argomenti di sempre
più schiacciante attualità. Il libro tratta di
disarmo nucleare, dagli anni '50 ad oggi, tramite le marce per
la pace e l'obiezione di coscienza, fino a giungere ad una vasta
panoramica e considerazione dei diritti umani, delle difese
alternative, del divario tra nord e sud del mondo, spaziando
da schede descrittive sull'ONU e le costituzioni per la pace
ad argomenti relativi all'ecologia e all'ambientalismo ecopacifista.
Educare alla pace - anche tramite i manifesti che raccontano
- significa trasmettere concetti di mondialità, di giustizia,
di solidarietà, nel rispetto per l'altro, nell'educazione
alla cooperazione e all'interdipendenza tra popoli, genti e
minoranze, alla democrazia, alla responsabilità di tutti
per tutti, alla risoluzione dialettica e nonviolenta di contrasti
e conflitti.
A questo proposito, gli autori citano nella bibliografia testi
recenti e innovativi, tra cui “Il pensiero delle differenze.
Dall'intercultura all'educazione alla pace” e “Il
dialogo per la pace. Pedagogia della Resistenza contro ogni
razzismo” (Mimesis, 2015), maturati in ambiti intellettuali
orientati alla nonviolenza, alla risoluzione dei conflitti e
all'antifascismo, ossia al superamento di qualsiasi forma dittatoriale
e autoritaria della società. Grande rilievo meritano
i capitoli riguardanti l'educazione alla pace e relativi all'ecologia
e all'ambientalismo ecopacifista, in quanto “lottare contro
la guerra significa lottare per l'ambiente”. Infatti ormai
si parla di biocidio e geocidio, perché è in atto
una devastante guerra contro la natura e la terra. Per questi
motivi è sempre più urgente pensare a nuovi modelli
di sviluppo e stili di vita sobri e alternativi, con uno sforzo
della ragione, un innovativo pensiero capace di interrogarsi
sulla ricerca e lo studio delle potenzialità implicite
e delle alternative possibili, perché progresso è
tutto ciò che va in direzione della pace e della libertà
ed è compatibile con la solidarietà, l'equilibrio
ecologico e l'armonia universale. La riconversione ecologica
dell'economia è una necessità vitale per il pensiero
ambientalista e pacifista, per una sobrietà creativa,
perché dove è degradata la natura subentra anche
il degrado dell'umanità, con l'ingiustizia, la violenza,
la guerra, la morte. Il libro offre una ricca e dettagliata
panoramica sui molti aspetti della pace e dei movimenti pacifisti,
tramite saggi istruttivi e un'ampia bibliografia contenente
libri e articoli in italiano e in inglese. Molti di questi testi
sono stati scritti da Francesco Pugliese - autore del notevole
volume riccamente illustrato dal titolo “Abbasso la guerra.
Persone e movimenti per la pace dall'800 ad oggi” - e
il materiale riguardante i manifesti è stato in gran
parte prodotto da Vittorio Pallotti, realizzando così
un felice risultato, il libro, nato dalla stretta collaborazione
tra due esperti in ambiti intimamente correlati. Nella prefazione
al libro, Peter Van Den Dungen, coordinatore generale della
rete internazionale dei musei per la pace e Joyce Apsel, Università
di New York, sottolineano che il 2014 è l'anno della
commemorazione del centesimo anniversario di una delle più
devastanti guerre di tutti i tempi e che ha avuto un profondo
effetto nella storia umana e ha prodotto un'altra guerra catastrofica
e, successivamente, la guerra fredda, con la minaccia delle
armi di distruzione di massa e dell'apocalisse nucleare. La
chiave per un crescente movimento pacifista per il disarmo,
ampiamente illustrato dai manifesti per la pace, consiste nell'educare
la società e le persone a trasformare in senso positivo
le loro vite. Questo altro obiettivo deve realizzarsi tramite
la cessazione della produzione della vendita di armi e la trasformazione
della società verso la creazione di risorse che arricchiscano
l'esistenza mediante l'educazione, i programmi sociali, la creatività,
i nuovi modelli di sviluppo ecosostenibile, improntati sulla
riconversione ecologica e sull'utilizzo delle energie rinnovabili
e delle risorse che l'ambiente offre naturalmente all'umanità,
per chiudere definitivamente con il nucleare civile e militare,
per affermare, con la forza della verità, la nostra obiezione
e il dissenso alle guerre imperialiste, fomentate e manovrate
dalle multinazionali, dalle superpotenze economiche e politiche,
dai mercati dell'alta finanza e dai signori dell'atomo.
Laura Tussi
Municipalismo libertario e autogoverno/
Le proposte di Bookchin
Pubblichiamo
stralci della prefazione di Salvo Vaccaro al libro di Murray
Bookchin Democrazia diretta (Elèuthera,
2015, pp. 104, € 12,00).
Murray Bookchin (1921-2006) è stato uno dei pensatori
radicali più influenti del XX secolo. Le sue idee, maturate
nel corso di decenni in cui ha saputo intrecciare in maniera
feconda attività politica militante e riflessione teorica,
sono oggi diventate pratiche quotidiane diffuse in vari ambienti
del pianeta, anche laddove nessuno ha mai letto un rigo dei
suoi libri.
La sua attività politica e sindacale nell'immediato secondo
dopoguerra ha consentito a Bookchin di comprendere dinamiche
collettive cruciali per ogni progettualità politica,
dandogli rifugio dalle astrattezze concettuali e dalle inconcludenze
tentennanti tipiche di ogni intellettuale che voglia restare
«puro» rispetto alle contaminazioni della politica
quotidiana. In essa, Bookchin ha saputo progressivamente distanziarsi
dalla sua origine marxista e trockista per avvicinarsi sempre
più alla visione libertaria e anarchica sia del rapporto
con il mondo, sia delle forme organizzative con cui attivare
processi di trasformazione sociale, ancor prima che politica.
In parallelo, la sua formazione da autodidatta gli ha permesso
di costruirsi una solida cultura filosofica, politica, sociologica,
storica, antropologica, al passo con il consolidato teorico
della seconda metà del secolo scorso. Il suo ancoraggio
nella cultura dialettica hegelo-marxiana lo ha avvicinato ai
teorici di quella che fu denominata Scuola di Francoforte, ponendosi
come uno dei suoi epigoni più interessanti quanto più
eccentrica fu la sua collocazione tanto verso i Francofortesi,
quanto verso il marxismo politico di matrice teorica.
I suoi lavori, ormai tradotti in tante lingue, spaziano dalla
ricerca storica a quella antropologica, dalla ricostruzione
delle forme sociali di urbanizzazione (dalla polis alla metropoli
passando per i comuni medievali) ai temi più prettamente
politici di segno anarchico, sino alla recente raccolta di alcuni
suoi testi dall'emblematico titolo The Next Revolution,
curata dalla figlia Debbie insieme a Blair Taylor. L'opera sua
più celebre è The Ecology of Freedom, in
cui mette a frutto la sua intensa partecipazione ai movimenti
ambientali, inaugurando tuttavia una torsione teorico-politica
non indifferente, poiché Bookchin disloca il nesso tra
uomo e natura, che rappresenta il focus di ogni critica ecologica
al manifesto moderno stilato da Bacone, alla radice del rapporto
di dominio che pervade il rapporto dell'uomo con l'altro uomo,
con decenni di anticipo rispetto alle visioni divulgative di
Vandana Shiva o di Naomi Klein. La disponibilità, assoluta
o conflittuale, con cui l'umanità tratta la natura si
iscrive all'interno di una cornice più ampia in cui l'umano
dispone dell'altro umano in senso prettamente politico, dando
luogo a una specifica forma di vita che noi definiamo società.
Ecco perché, secondo Bookchin, ogni tesi ecologista che
reinterpreti e reinventi un rapporto tra uomo e natura, tanto
nella concettualità quanto nella pratica, è profondamente
sociale perché socialmente costruita. E tale costruzione
sociale delinea il campo della politica non come arte del governare
assegnata alle varie istituzioni che si sono succedute nel corso
dei secoli, bensì come modalità di organizzazione
sociale volontariamente progettata e costruita nel concorso
conflittuale di soggetti consapevoli e rischiarati nel dialogo
permanente di ragioni, argomentazioni e obiezioni critiche.
Il lavoro che viene qui riproposto – al di là di
qualche sporadico passaggio logorato dall'usura del tempo in
frenetica accelerazione nel corso dei recenti, ultimi anni (ma
basta sostituire i Grünen tedeschi, antesignani
di tutti i vani tentativi di creare un partito-non-partito,
con i greci di Syriza o con gli spagnoli di Podemos
e la critica non muta di segno né fallisce il bersaglio,
in relazione alla potenza corruttiva e vendicativa del potere
politico una volta integrati nel sistema istituzionale, come
peraltro ebbe ad affermare Bookchin nei suoi testi più
tardi)1 – si concentra
su una teoria politica dai forti risvolti pratici che segnano
il lascito politico di Murray Bookchin. Sotto il titolo di Democrazia
diretta, leggiamo alcuni dei testi centrali per focalizzare
tanto la sua filosofia politica del Communalism, quanto
la sua pratica sperimentale del municipalismo libertario ovverossia
del confederalismo libertario.
Con Communalism, Bookchin intende offrire una linea di
fuga affermativa alle istanze rivoluzionarie e radicali che
si agitavano lui vivente e si sono agitate dopo la sua scomparsa,
praticando concretamente modalità di agire politico e
sociale che Bookchin aveva sottolineato e anticipato nei suoi
scritti, senza volerne fare un profeta suo malgrado. In effetti,
pratiche adottate da movimenti quali Occupy Wall Street,
gli Indignados, alcuni aspetti delle rivolte arabe, ecc.
risentono pur senza citarle delle suggestioni offerte da Bookchin
in una miriade di interventi e di articoli scritti per la stampa
radicale, rivoluzionaria e anarchica nel corso della sua esistenza,
tutti segnati da una mobilitazione dal basso verso l'alto, da
una acquisizione di consapevolezza della propria forza (empowerment
sociale e politico, non solo di gender), dal ridimensionamento
pensato delle formazioni istituenti un corpo burocratico e leaderistico,
dai processi decisionali partecipati, diretti (face-to-face)
e orizzontali, dalla rotazione delle cariche rappresentative
immediatamente controllabili e revocabili, dalla concatenazione
di luoghi politici decentralizzati a sfere concentriche crescenti
e interdipendenti che coprono territori più ampi e coinvolgono
quantità di individui sempre più numerose (sebbene
Bookchin, a differenza dell'anarchismo e delle pratiche dei
movimenti recenti orientati ala condivisione per consenso, si
pronunci a favore di un processo decisionale su base maggioritaria).
Si tratta di ipotesi riscontrabili in ogni autore anarchico
che si rispetti, talora adottate in tormentati frangenti storici
(la Commune di Parigi), in momenti frammentari e a singhiozzo
(la rivoluzione spagnola del 1936), che Bookchin sistematizza
in una cornice generale che recepisce la dura lezione delle
rivoluzioni statuali dell'era moderna, sia di quelle che hanno
dato vita ai sistemi liberali rappresentativi, sia di quelle
che hanno dato vita a sistemi totalitari quali il leninismo
realizzato o il maoismo istituito.
Il Communalism, quindi, si propone come una teoria politica
che raccoglie l'eredità della spinta collettiva di una
politica rivoluzionaria, adottando pratiche libertarie che prevengano
e neutralizzino le derive fisiologiche connesse alla chiusura
statuale, elitaria (non importa se di classe, di partito o quant'altro),
in ultima analisi gerarchica e autoritaria. «Il Communalism
rappresenta una critica della società gerarchica e capitalista
nel suo insieme»2. Di questa
lunga e nobile tradizione, bacata sin dalla fonte come preconizzato
dal dissidio Marx-Bakunin nella I Internazionale e come testimoniato
dalle critiche anarchiche in tempo reale al sovietismo leninista
della rivoluzione russa, a Bookchin interessa principalmente
la dimensione collettiva della trasformazione sociale e politica,
giacché non può esistere alcuna proposta politica
che non sia collettiva nel suo respiro e nel suo protagonismo.
E con ciò Bookchin ci invita a distinguere sempre e comunque
una dimensione della politica potenzialmente estranea, differente
e conflittuale con una dimensione statuale, sempre in agguato
per catturarla e appiattirla su di essa3.
Oggi è tanto più importante sottolineare tale
dimensione communalista, che racchiude in sé lo
spirito del comune, dei beni comuni e del comunismo come filosofia
di vita (e non come progetto politico reale), quanto più
si va affermando - in inquietante parallelo con lo svuotamento
della politica da parte di egemonie e poteri forti che hanno
catturato la politica all'interno di logiche mercatiste declinate
secondo l'attuale congiuntura di finanziarizzazione dell'economia
politica dominante, quella capitalista - una ipotesi di fuoriuscita
rivoluzionaria legata alla sommatoria caotica ma causale, organizzabile
puntualmente ma informalmente, di prese di posizioni individuali,
di moltitudini tanto più singolari quanto più
invisibili dai circuiti di osservazione e controllo che si alimentano
di reti mediatiche e digitali altrettanto invisibili e pervasive.
Bookchin polemizza fortemente, magari eccessivamente, nel suo
libro Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: An Unbridgeable
Chasm del 1995, con un anarchismo ridotto, a suo avviso,
a stile di vita, a forma impolitica sempre pronta ad attaccare
frontalmente lo stato e le sue istituzioni ma solamente di tanto
in tanto, disdegnando un lungo e paziente lavorio sul terreno
per favorire, invece, soluzioni multi-individuali di fuga dal
reale ormai inesorabilmente catturato e illiberabile. [...]
Beninteso, quando il Communalism bookchiniano insiste
sui processi storici di mutamento delle forme di vita associate
offre idee per il presente e non mere ricostruzioni accademiche,
invitando ognuno a decostruire immaginari sedimentati in pratiche
ordinarie di esistenza avvilente per ricostruire immaginari
inediti da colmare in pratiche alternative di vita, di produzione,
di associazione, di consumo, di affettività, e via continuando.
Ma con la consapevolezza che tale duplice fatica acquista senso
se diviene comune, ossia condivisa, partecipata, collettiva.
In altri termini, la diffusività di una trasformazione
sociale dal basso che ripudia la via istituzionale, utile solo
al ricambio delle élites dominanti, non significa un
autocompiacimento di una micro-politica interstiziale e resistente,
quanto la destituzione (di senso nell'immaginario simbolico
quotidiano ma anche di presa efficace sulle esistenze) e la
contestuale espansione di ambiti di empowerment a livello
societario, incluso la gestione quanto più possibile
autonoma di territori di vita in comune, beninteso in una conflittualità
altrettanto diffusa socialmente, immune dalle seduzioni della
politique politicienne.
Qui entra in gioco il côté sperimentale
proposto da Bookchin con il municipalismo libertario, magari
modellato sul modello americano e quindi un po' distante dalle
usuali morse statuali contro le quali concepire una partecipazione
radicale sui territori che arrivi persino a gestire non tanto
pezzi di governo degli enti locali, ma comunque erodere potere
politico, strappare amministrazione di beni comuni (oltre il
pubblico e il privato, sloganisticamente parlando), condizionare
dal basso le politiche dei partiti ufficiali, affiancare le
istituzioni ufficiali con luoghi politici condivisi e partecipati
che elaborano politica orizzontalmente e dal basso. «Immaginava
che questo autogoverno diventasse sempre più forte mentre
si solidificava in un «potere duale», che avrebbe
sfidato e alla fine smantellato il potere dello Stato-nazione»4.
Una progettualità politica a servizio di un immaginario
sociale forgiato da una cittadinanza attiva che non coincide
minimamente con la cittadinanza recintata nei limiti del cerchio
rappresentativo, anzi contro-effettuata in senso radicale e
debordante limiti e recinti imposti.
Si tratta di una proposta che va oltre l'indubbio spirito di
resistenza che alimenta oggigiorno la gran parte delle ipotesi
politiche non-violente che cercano di coniugare politica e impegno
civico, radicalità e singolarità esistenziale,
poiché è ovvio che senza un profondo coinvolgimento
interiore che modifica l'ethos di ciascuno non si va
da nessuna parte, anzi generalmente si è trasportati
in direzioni lontane dalla libertà e della liberazione.
Ma di contro, senza una declinazione plurale di tale ethos singolare,
resistere è meritorio ma insufficiente a trasformare
la realtà in senso libertario, il che è concepibile
solo in una dimensione collettiva gradualmente e faticosamente
conseguibile, tenendo conto dei rapporti di forza e degli immaginari
da scardinare e da rielaborare. Ovvio che la cornice entro cui
inquadrare il communalism e la pratica sperimentale del
municipalismo libertario o della democrazia radicale diretta
o del confederalismo autogestionario o del potere politico parallelo
(dual power)5 sia quella
del conflitto con le gerarchie statuali da un lato, e dall'altro
con il predominio delle norme capitaliste di mercato che sovradeterminano
non solo le dinamiche economiche ma oggi, in piena era neoliberale,
anche le pratiche di soggettivazione in campi esteriori all'economia
di mercato.
Indubbiamente, le esperienze di autogoverno territoriale di
segno politico sono diversificate nel panorama mondiale, si
va dal contropotere assembleare rispetto alle amministrazioni
locali alla conquista elettorale degli enti locali mantenendo
un controllo di base sugli eletti, alla sottrazione di territori
alla cattura statuale, secondo il modello zapatista. Bookchin
concepisce il municipalismo libertario come un primo tassello
di riaffermazione della politica sull'economico, sulla tecnica
dei numeri aridi che imporrebbero soluzioni irriflesse e autoveridiche,
senza dare adito a pubblico dibattito, cui affiancare una serie
di altri pilastri di autogoverno territoriale sul piano delle
autogestioni di attività produttive e di consumo, nonché
di altre istituzioni quali la sanità e l'istruzione.
Ne sono esempi le cliniche autogestite degli zapatisti in Chiapas,
le pratiche rurali di autoproduzione e consumo sostenibile per
quanto concerne il ciclo alimentare, le energie rinnovabili
e non invasive o l'uso delle acque potabili, sino alle miriadi
di scuole/non-scuole libere ed extraistituzionali che si muovono
sul terreno non solo pedagogico seguendo variegate linee di
pensiero. [...]
Salvo Vaccaro
Note
- Murray Bookchin, The Next Revolution. Popular Assemblies
and the Promise of Direct Democracy, a cura di Debbie Bookchin
e Blair Taylor, Verso, London-New York, 2015, in particolare
p. 38.
- Ibidem, p. 19.
- Ibidem, p. 47.
- Debbie Bookchin, Bookchin: l'eredità vivente di
un rivoluzionario americano, intervista di Federico Venturini,
2 marzo 2015, http://zcomm.org/bookchin-living-legacy-of-an-american-revolutionary.
- Murray Bookchin, The Next Revolution, cit., pp. 78
ss.
Gli zolfatari siciliani
e il barbaro dominio del capitale
Scriveva
Vincenzo Consolo che “dallo zolfo, per lo zolfo, è
nata e cresciuta in Sicilia una nuova categoria di lavoratori;
nelle zone zolfifere, nei paesi delle miniere è nato
e si è sviluppato un nuovo modo d'essere siciliano, una
nuova umanità; dallo zolfo e per lo zolfo è nata
una storia politica e sociale, una letteratura”. Da Verga
a Giusti Sinopoli, da Alessio Di Giovanni a Sciascia, allo stesso
Consolo, tanti sono stati i romanzieri che “dallo zolfo”
della Sicilia si sono fatti ispirare; tanti, ancora oggi, sono
i libri dedicati alla storia delle zolfare siciliane. Di recente
ne è stato pubblicato uno, appassionante e interessante,
di Angelo Barberi, dal titolo Chista vita ca si faciva barbara
(Sicilia Punto L edizioni, Ragusa, 2015, pp. 180, € 10,00)
che a quel mondo, e a quel tempo, di zolfatari e miniere, ritorna
“direttamente”, attraverso le parole di chi, avendovi
lavorato, racconta com'era fatto - di sudore e sangue, di miseria
e sfruttamento - quel dannarsi a cavare zolfo da sottoterra.
In più di una decina di ampie e dettagliate testimonianze,
raccolte da Barberi, tra il 1987 e il 1988, dalla viva voce
di minatori siciliani, viene fuori un quadro documentato e dettagliato
delle condizioni di vita e di lavoro degli zolfatari delle provincie
siciliane di Agrigento, Caltanissetta ed Enna, dov'erano le
principali e più grandi miniere di zolfo dell'Isola.
Nei ricordi degli zolfatari, le emozioni intense per i loro
vissuti pesanti e drammatici, sono accompagnate sempre da un
lucido ragionare e da un sereno e realistico raccontare che
insiste minuziosamente sulle condizioni materiali del loro lavoro:
cosicché le loro testimonianze sono ricche di informazioni
e osservazioni sulle tecniche di estrazione, fusione e lavorazione
dello zolfo e sull'organizzazione gerarchica del lavoro che
vigeva in miniera e che andava da chi svolgeva le mansioni più
semplici (il caruso e il vagoniere) e quindi anche
meno pagate, a chi era addetto a più complesse attività
(il capomastro e il picconiere), e quindi era
più retribuito e, per di più, per la responsabilità
che aveva in miniera, godeva di una maggiore considerazione
sociale.
E ancora, dalle testimonianze che il libro raccoglie, si può
desumere la topografia dei siti minerari dell'entroterra siciliano
(le cave di zolfo o, come venivano chiamate in dialetto, le
pirrere: di Trabonella, Ciavolotta, Trabia, Tallarita,
etc.); dei paesi dai quali i minatori partivano per lavorarvi:
Villarosa, Favara, Riesi, Leonforte, Assoro, Sommatino e altri
ancora; finanche delle strade sterrate e dei viottoli di campagne
percorsi dai minatori a piedi, “stratone stratone,
accorzatoi accorzatoi”, per raggiungere la loro miniera,
distante dal loro paese decine e decine di chilometri.
Ma soprattutto il libro è la denuncia della “vita
che si faceva barbara” all'interno della miniera, dove
il lavoro massacrante, senza regole e senza diritti, a cui erano
sottoposti gli zolfatari li privava della loro dignità
personale e di ogni tutela sulla loro salute e sulla loro stessa
vita.
I racconti degli zolfatari, infatti, con estremo disincanto,
mettono tutti in luce la consapevolezza dei gravi rischi che
si correvano scendendo in miniera, per le frane e per le esplosioni
causate da gas come l'antimonio, che giornalmente condannavano
qualcuno dei minatori a pesanti infermità e alla morte.
Nel cinico disinteresse dei patroni, delle società,
degli enti pubblici che hanno gestito la proprietà e
la produzione dello zolfo in Sicilia, dai primi del novecento
agli anni '80, s'è consumato un eccidio di cui le testimonianze
degli zolfatari danno conto, così come epicamente, le
stesse voci dei minatori narrano della loro reazione alla rassegnazione,
alle ingiustizie, ai soprusi e allo sfruttamento: emergono dai
ricordi dei minatori, le gesta delle occupazioni e delle lotte,
i nomi dei primi agitatori, raccolti per lo più sotto
le bandiere del partito comunista, gli appoggi importanti di
qualche esponente politico, come l'onorevole Fausto Gullo: che
propose e favorì diversi interventi legislativi in favore
del miglioramento delle condizioni di lavoro dei minatori, ma
sopratutto fu l'ideatore della legge di riforma agraria che
anche se solo parzialmente, servì, negli anni cinquanta,
ad espropriare o comunque a ridimensionare le grandi proprietà
terriere siciliane (in buona parte ancora di stampo feudale)
a favore di una razionale ed equa distribuzione della terra
ai contadini.
E parlano dei contadini, i minatori, e si lamentano del fatto
che non solidarizzavano con loro, non sostenevano le loro agitazioni,
perché consideravano chi lavorava in miniera un privilegiato;
i contadini pensavano che il minatore, anche se veniva sottopagato,
aveva pur sempre un salario “sicuro”, mentre i loro
guadagni erano sempre incerti e precari, sia quando lavoravano
per un proprietario terriero che quando avevano un campo proprio
da coltivare. E in verità, ammettono i minatori intervistati,
anche loro pensavano di svolgere un lavoro non solo più
retribuito ma anche migliore nella qualità e nel prestigio
rispetto a quello dei contadini. Sentivano, così, di
far parte di un' aristocrazia dei poveri, in una guerra tra
miseri a solo vantaggio dei potenti e dei ricchi.
Un mondo di vinti, quello dei minatori, che non trovava conforto
nella chiesa: terribilmente e ingiustamente, raccontano gli
zolfatari, i preti rifiutarono per un lungo periodo di fare
i funerali ai morti in miniera che nei pochi resti dei loro
corpi smembrati dalle esplosioni o dalle frane di pareti e tetti
delle gallerie, venivano portati direttamente al cimitero, o
vietarono i funerali e gli altri sacramenti ai minatori che
avevano abbracciato, per dare voce alle loro rivendicazioni,
una fede socialista, comunista o anarchica.
Raccogliendo le memorie dei lavoratori delle ormai scomparse
miniere di zolfo (e riportandone le tante e caratteristiche
espressioni dialettali che a quelle memorie hanno ridato forma),
Barberi ha fatto un'operazione storico-documentaria di notevole
valore, restituendo un pezzo fondamentale della storia complessiva
del mondo del lavoro e delle classi subalterne in Sicilia; facendo
riemergere, meritoriamente, il dimenticato (e inattuale) protagonismo
di uomini che hanno combattuto, nella Sicilia più interna
e più povera, affinché il loro lavoro e la loro
umanità non si lasciasse piegare dal “barbaro”
dominio del capitale e del privilegio.
Silvestro Livolsi
Gli anni '60,
il Perù e le lotte per la terra
Eduardo
Galeano ha detto che il mondo non è fatto di atomi, ma
di storie. Perché sono le storie che convertono il passato
in presente, ciò che è lontano in vicino e possibile.
Una bella particina di mondo allora è contenuta nel libro
Noi, gli indios. Le lotte per la terra in Perù
(Nova Delphi Libri, Roma, 2015, pp. 240, € 14,00), del
suo amico Hugo Blanco Galdós, che - raccontando le avventure
della propria vita - avvicina il lettore alle lotte per la terra
nel Perù degli anni '60, con la vittoria contadina e
indigena sul sistema del latifondo, ma più in generale
all'eterna e confusa lotta tra sfruttati e sfruttatori, e alla
lotta attuale tra il neoliberismo e i figli della Pacha Mama.
Con la stessa semplicità con cui un manager di una multinazionale
vede nella selva amazzonica solo alberi da tagliare, Hugo Blanco
con le sue storie va delineando come sottofondo un'analisi semplice
e spietata della “nostra” società del consumo,
come stadio aggiornato della società dei conquistadores
spagnoli, a cui contrappone la ricchezza del millenario mondo
indigeno, una ricchezza fatta di colori, di sentieri, di nomi,
di sapori, di piante, di parole, di vita.
La poesia con cui l'ex guerrillero conclude il libro
è forse la pagina meno poetica di tutto il libro, perché
la poesia vera è dappertutto e nella sua vita, è
nel toccante carteggio con il poeta quechua José Marìa
Arguedas, nelle lettere scritte alla vigilia di una possibile
condanna a morte, nella resistenza orizzontale e dal basso contro
le atrocità dei latifondisti, nell'alzarsi gridando in
un aula di tribunale per condannare un'ingiustizia. È
poesia anche il dolore di tante morti innocenti, di tante sofferenze
dovute al carcere, alle discriminazioni, all'ingiustizia; sofferenze
che reclamano umilmente ma in modo deciso un razionale avvento
di un mondo giusto e dignitoso per tutti, un mondo “indio”,
anche per chi come Hugo (blanco di nome e di fatto) indio
non ci è nato.
Infatti tra le tante cose che può insegnare questo libro,
c'è che l'indio non è una razza sanguigna, ma
una razza culturale, perché - come precisa Blanco - “l'indio
è una cultura di cui fanno parte anche persone bionde
e con gli occhi azzurri e di cui non fanno parte alcune persone
che, per sangue, sono indios”. Per questo il libro
di Hugo Blanco va oltre l'essere ciò che potrebbe esser
definito un “interessante approfondimento”, su determinate
lotte in un determinato periodo e luogo del mondo, e va oltre
anche all'essere un caso di vita esemplare, in quanto autobiografia
di un individuo che per naturale tensione verso la giustizia
e la difesa degli oppressi si è ritrovato ad essere un
rivoluzionario.
“Noi, gli indios” diventa anche un libro di “teoria
e pratica rivoluzionaria”, sia per il resoconto di tante
azioni e lotte che hanno avuto il loro successo, sia per l'insistere
su determinati concetti che seppur limitati diventano (o vogliono
diventare) universali. Uno su tutti: è interessantissimo
l'ayllu, il sistema tradizionale di organizzazione comunitaria
quechua, realizzazione esemplare dei principi del mutuo appoggio
e della democrazia diretta. A riprova del fatto che ben prima
di Kroptokin e Bakunin l'anarchia esisteva e veniva praticata
nella vita quotidiana da persone che “anarchia”
non sapevano neanche cosa volesse dire. E uno di questi potrebbe
essere lo stesso Hugo Blanco: di formazione politica trotzkista,
ci dimostra che quando si è indaffarati a fare, quando
le intenzioni sono nobili, gli obiettivi chiari e il metodo
è rigidamente antiautoritario, poco importano le opinioni
personali su Cuba o Lenin, e - senza perder mai un briciolo
della propria coerenza di rivoluzionario - si può passare
dagli scioperi alla lotta armata, dalla carica di senatore all'organizzazione
del turismo sociale.
Con la stessa ironia per cui si dice che il 1492 non è
stato l'anno della scoperta di un continente, ma l'anno in cui
qualche indigeno ha scoperto Cristoforo Colombo perso nel mare,
si potrebbe dire che, pur così lungimirante nelle sue
analisi del capitalismo da far venire il sospetto che sia lui
stesso dalla tomba a dirigere gli andamenti dell'economia mondiale,
nemmeno Marx si sarebbe mai immaginato che i migliori lettori
dei suoi libri potessero essere dei poveri analfabeti indigeni.
Per dirlo altrimenti: sembra che il mito freddo e quasi terribile
di una dittatura del proletariato che redimerà l'umanità,
possa trovare applicazioni di successo nella vita reale soltanto
lontano dalle grandi industrie, come valore aggiunto alla cultura
millenaria, pura e concreta dei popoli indigeni. Il Chiapas
(per esempio), da ormai vent'anni a questa parte, lo sta dimostrando.
La funzione didattica di questo libro non si esaurisce nei grandi
concetti, nei grandi temi, (come la riforma agraria, il rispetto
della madre terra, eccetera) ma contiene nascoste tante piccole
cose da scoprire. Una di queste è che, non si sa perché,
pare che tutte le lingue indigene a differenza di quelle europee
abbiano due termini distinti per dire “noi”, una
che include l'interlocutore e una che lo esclude.
Allora sarebbe interessante sapere da Hugo Blanco quale delle
due opzioni sarebbe da usare in una traduzione in quechua di
questo libro. Ma forse in questo caso risulta più poetico
l'indefinito castigliano “nosotros”, così
che sarà poi il lettore a dargli una definizione, o magari
una volta terminato il libro decidere di scoprirsi egli stesso
incluso nel grande popolo degli indios. Allora probabilmente
scoprirà che il popolo degli indios per continuare a
esistere e lottare non ha bisogno di alcun aiuto, ma per servire
la Pacha Mama ha tanto bisogno di altre voci, di altre braccia,
di altri cuori.
Una storia di Galeano dice: “il mondo è questo:
un sacco di gente, un mare di fuocherelli. Non c'è un
fuoco uguale ad un altro, ogni persona brilla di luce propria
in mezzo a tutte le altre, ci son persone di fuochi sereni che
non sentono neanche il vento, ci sono persone di fuochi pazzi
che riempiono l'aria di scintille, ci sono fuochi sciocchi che
non illuminano né riscaldano, però altri ardono
la vita con così tanta voglia che non si può guardarli
senza rimanerne abbagliati, e chi si avvicina, si incendia”.
Il tayta Hugo Blanco assomiglia a uno di questi grandi
fuochi e con il libro “Noi, gli indios” si prende
l'onore di elevarsi a portavoce del mondo indigeno; se può
permetterselo, senza perdere niente della sua umiltà,
è per la sua enorme e indiscutibile umanità, per
aver non solo meritato ma anche ampiamente ripagato la solidarietà
mondiale che più di una volta gli ha salvato la vita.
Michele Salsi
Una guida per l'edificazione
dell'uomo libero
Pubblichiamo
la prefazione del libro di Paolo Zapparoli Il mammifero
anarchico (Youcanprint Self-Publishing, Roma, 2015, pp.
80, € 10,00).
Per contatti:
www.youcanprint.it
raskolnika@gmail.com
Pacificate le greggi, è tornato il silenzio. Il dio denaro,
unico generatore di valori rimasto in campo, sembra ormai aver
delimitato irrimediabilmente i confini dell'agire politico,
riducendolo a mero strumento di attuazione di decisioni economiche
prese da un ristretto numeri di burocrati e banchieri.
Allo stesso tempo, e con simili intenti, anche il mondo dell'informazione
viene sempre più ammaestrato e costretto ad assumere
i connotati di un gigantesco megafono, amplificando l'unica
voce rimasta in campo, quella del padrone.
L'incessante e martellante bombardamento mediatico fatto di
informazioni fugaci e volatili ha in questo modo inevitabilmente
ridotto gli spazi di conversazione ed interrotto drasticamente
il tempo della riflessione. Così piegato, l'animale uomo,
mercificato ed alienato a dismisura, ha ormai addirittura dismesso
le proprie pulsioni desideranti e trasformato il suo potenziale
sessuale ed erotico in forza lavoro o nel suo valore di scambio
equivalente.
Date queste condizioni, in un mondo in cui il dominio capitalistico
superata la sua fase spettacolare viene sempre più ad
assumere una dimensione biopolitica totalizzante, si fa più
urgente la necessità della costruzione e predisposizione
di necessari antidoti che siano all'altezza della sfida attuale.
Il nemico è lo stesso di sempre, il Potere con la P maiuscola,
quello che condiziona il nostro modo di mangiare, di vestire,
di pensare, e che da nemico esterno si è ora trasformato
anche in nemico interno introducendosi subdolamente nelle nostre
menti. È quindi soprattutto verso noi stessi che dobbiamo
rivolgere ora lo sguardo se vogliamo veramente sradicare la
malapianta del dominio neoliberista e statalista. A questo appuntamento
di certo gli anarchici non arrivano totalmente impreparati,
tutt'altro.
La nostra vecchia cara Idea, piantata saggiamente dalle fervide
menti che ci hanno preceduto, è ora capace di germogliare
frutti inaspettati proprio quando le contraddizioni del capitalismo
finanziario vengono oggi sempre più alla luce. Occorre
però rivolgere lo sguardo nella giusta direzione e in
tempi difficili come questi, aguzzare l'ingegno. “Malatempora
currunt”... gli oligarchi a capo di Amazon, Apple, Nestlé,
Facebook, Google, ecc... stanno inventando il nostro futuro
plasmandolo a misura dei loro interessi. In conseguenza di ciò,
lo stesso famigerato “conflitto di interessi”, da
fenomeno episodico diventa così elemento endemico e costitutivo
della macchina amministrativa, a tal punto che oggi non si dà
governo se non in conflitto di interessi.
I consigli di amministrazione delle sempre più voraci
multinazionali, in combutta con i burocrati di governo che assecondano
sfacciatamente i loro propositi, monitorano ogni aspetto della
nostra vita; sanno tutto del nostro passato e valutano alla
perfezione i nostri gusti e le nostre debolezze, sanno dove
siamo ed a cosa stiamo pensando. Alcune multinazionali si spingono
addirittura a studiare i comportamenti dei giocatori dei cosiddetti
“massively multiplayer on-line games”, utilizzati
come banco di prova per esperimenti sull'impatto di possibili
politiche sociali.
Ma allora se di biopolitica oggi si tratta, cioè del
dominio totalizzante dell'Impero neoliberista su ogni fase della
nostra vita, il nostro sforzo e il nostro sguardo dovranno essere
principalmente indirizzati verso la sfera morale e pedagogica
nell'accezione da sempre esemplificata dalla gran parte delle
dottrine anarchiche e libertarie di tutto il mondo. Coloro che
non hanno mai avuto dimestichezza con questi ideali troveranno
qui uno strumento utile e propedeutico per districarsi in questo
caotico e meraviglioso mondo dell'Idea anarchica. Chi invece
si è sempre nutrito di tali letture vi troverà
non solo una panoramica riassuntiva dei principali concetti
che hanno caratterizzato la storia del pensiero morale e pedagogico
anarchico, ma anche possibili spunti per affrontare le sfide
attuali con nuove parole/idee e soprattutto con nuove azioni.
In fondo questo libro avrebbe anche potuto chiamarsi: “Guida
all'edificazione dell'uomo libero”, perché tali
sono i presupposti ideologici che da sempre animano il pensiero
anarchico, dove per uomo libero, si deve intendere una persona
che sia veramente maestra di se stessa e che non sia ammaestrabile
da qualsivoglia autorità esterna, sia essa di tipo materiale
(Stato, Chiesa, Partito, Esercito) sia essa di tipo spirituale/metafisico
(religioni, ideologie astratte, superstizioni varie).
Paolo Zapparoli
Vivere come i nomadi/
Il movimento anarchico milanese prima del fascismo
“Gli
anarchici, nella vita, sono dei nomadi. Non seguono quella tale
strada, ma la loro strada; a piacere della loro natura, del
loro modo di pensare, del loro temperamento, anche.” (Leda
Rafanelli, L'Eroe della Folla, 1920). Questa frase dell'anarchica
toscana dà il titolo al volume di Fausto Buttà
(Living like nomads. The milanese anarchist movement before
fascism, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne,
2015, pp. 299, £ 47,99), un ricercatore italiano che lavora
all'Università del Western Australia. Il libro è
in lingua inglese ed è arricchito da citazioni, note,
fotografie di anarchici e mappe di Milano. La pubblicazione
è diretta principalmente al mondo accademico anglo-sassone
e ha lo scopo di colmare una lacuna storiografica. E' infatti
la prima volta che la storia del movimento anarchico a Milano
viene narrata in modo comprensivo e dettagliato, a partire dalle
sue origini fino all'avvento del fascismo.
La storia comincia nella Milano della fine degli anni sessanta
dell'Ottocento ed esplora gli eventi, i personaggi, le attività
e le idee che diedero vita ai primi gruppi internazionalisti.
Emergono personaggi come Vincenzo Pezza, seguace di Bakunin,
e Theodor Cuno, un ingegnere tedesco, emissario di Engels a
Milano, i quali fondarono, il giorno della vigilia di Natale
del 1871, il Circolo Operaio, ovvero la sezione milanese della
Prima Internazionale. Le relazioni e i contrasti tra i seguaci
di Bakunin e i socialisti legalitari contribuirono, negli anni
successivi, a delineare un'identità anarchica che presentava
molteplici sfaccettature e che abbracciava diverse classi sociali
e professioni. Una ricerca sociologica qualitativa degli anarchici
presenti a Milano nel periodo in questione dimostra la natura
interclassista del movimento anarchico. Fu questa una caratteristica
che sopravvisse negli anni successivi, e che non combacia con
l'idea che gli anarchici milanesi fossero solamente degli intellettuali
piccolo borghesi. L'altra caratteristica principale, che dà
spunto al titolo del libro, risiede nella nomadicità
dei membri del movimento, ovvero il fatto che molti dei militanti
anarchici a Milano non solo non erano nativi del capoluogo lombardo
ma qui sostarono solo per un po' di tempo prima di trasferirsi
altrove, prima di “essere trascinati al Nord”, come
scrisse in un'altra occasione Pietro Gori. Se da un lato va
riconosciuto che essi giocarono un ruolo importantissimo per
il movimento anarchico in città, dall'altro ne costituirono
anche una debolezza, poiché il continuo ricambio dei
militanti impedì che i gruppi si radicassero sul territorio,
nei quartieri e nelle fabbriche, in modo stabile e duraturo.
Fu così che parecchi anarchici italiani vennero a Milano
e poi se ne andarono, per varie ragioni tra cui, soprattutto
nel caso dei militanti più attivi e carismatici, la repressione.
Tra queste figure vanno ricordati i nomi già conosciuti
di Pietro Gori, Giovanni Gavilli, Ettore Molinari, Nella Giacomelli,
Luigi Molinari e Leda Rafanelli. A questi nomi il libro di Buttà
affianca quelli di altri militanti sconosciuti, nomi di personaggi
che sono caduti nell'oblio e che costituirono il grosso del
movimento anarchico a Milano. A tal fine, l'autore si è
servito sia delle fonti di polizia e di prefettura conservate
all'Archivio Centrale di Roma e all'Archivio di Stato di Milano,
sia della letteratura specializzata, da Masini a Cerrito, da
Antonioli a Berti, a Mantovani, compreso il Dizionario Biografico
degli Anarchici Italiani.
S'intrecciano così le vite di uomini e donne in continuo
movimento, come quella di Ernesto Cantoni detto “Risott”,
perseguitato dalla questura che lo riteneva capace di atti violenti,
costretto a viaggiare e a cambiare nome parecchie volte. Vite
spezzate, come quella di Angelo Galli, ucciso durante uno sciopero
e il cui funerale fu immortalato da un dipinto di Carlo Carrà.
Vite da militanti, come quella di Aida Latini, donna forte,
sempre presente e in prima fila negli scioperi e nelle iniziative
anti-militariste di inizio secolo. Vite brevi, come quella del
fornaio Sante Caserio da Motta Visconti, prima fondatore e membro
di un circolo anarchico in Porta Genova, e poi uccisore del
presidente francese Sadi Carnot; o come quella di Bruno Filippi,
vittima della propria dinamite preparata per i clienti facoltosi
del Caffè Biffi in pieno centro a Milano. Vite spese
per l'ideale libertario, come quelle della maestra Maria Rossi,
della tipografa Leda Rafanelli, dell'educatrice Nella Giacomelli,
del commerciante in rottami di ferro Ricciotti Longhi, dell'elettricista
Carlo Gelosa, e di tanti altri sparsi tra i vari capitoli del
libro.
Ne esce un quadro dettagliato, un ritratto sociale particolareggiato
del movimento anarchico nel capoluogo lombardo, dove le vicende
italiane e i continui rimandi all'anarchismo in Italia fanno
da sfondo alle biografie dei militanti, ai loro dibattiti, litigi,
cooperazioni, alle loro idee, al loro attivismo e in particolare
ai loro giornali. Il materiale pubblicato dagli anarchici a
Milano è vasto e, secondo Buttà, costituisce il
loro lascito principale, l'eredità culturale del movimento
libertario. Attorno a testate giornalistiche come Il Martello,
Tito Vezio, L'Amico del Popolo, Il Grido della Folla, La Protesta
Umana, Sciarpa Nera, Umanità Nova e altri, si riunirono
individui, militanti, reti sociali di persone che si conoscevano
e che sostenevano campagne politiche contigue e complementari.
Gli anarchici milanesi furono coinvolti in numerose iniziative:
diedero vita a una Scuola moderna, si schierarono con i lavoratori
negli scioperi delle fabbriche milanesi di inizio secolo, condussero
battaglie anti-militariste, parteciparono alla Settimana Rossa
del giugno 1914, si opposero alla prima guerra mondiale, nel
biennio 1919-1920 s'illusero che la rivoluzione sociale fosse
a portata di mano e invece si ritrovarono a combattere contro
l'avanzata di Mussolini e del fascismo. L'ultimo capitolo del
libro racconta i fatti successivi alla strage del Teatro Diana
nel marzo 1921, la quale segnò l'inizio di un declino
sempre più rapido del movimento anarchico, non solo milanese
ma in tutto il paese. Come tutte le voci dissenzienti, il regime
fascista finì per mettere a tacere anche quella degli
anarchici grazie alle leggi sulla stampa del 1926.
Una delle tesi dell'autore del libro è che Milano non
fu solo il centro principale dell'anarchismo individualista
in Italia, ma offrì l'opportunità a diverse correnti
dell'anarchismo di svilupparsi e di confrontarsi. La storia
del movimento anarchico locale conferma così la natura
del capoluogo lombardo come un laboratorio di idee e di pratiche
sociali e politiche. Milano rappresentò un terreno fertile
per un movimento dinamico, spesso disorganizzato, ma organico
perchè fatto di strette reti di relazioni basate sulla
solidarietà tra i militanti. Un movimento che, nel 1891,
Luigi Galleani poeticamente definì “una concorde
irrequieta attivissima schiera di giovani esuberanti di fede
ed energia d'un anelito di battaglia irresistibile”.
Giovanni Carletti
L'amore?
È l'anarchia nel cuore
“Mi
sono sentita tanto in colpa di essere di nuovo felice, nonna.
Era come se tutti mi dicessero: come puoi partire per una vacanza,
bere un bicchiere di vino, amare un uomo, farti amare nel piacere,
dormire dopo. Come puoi essere ancora viva, insomma, e aver
voglia di stare ancora nel mondo. Hai dimenticato le bambine?
Vergognati. È come se mi dicessero che sono morta anche
io, e che è uno scandalo che mi ribelli.”
L'ultimo libro di Concita De Gregorio Mi sa che fuori è
primavera (Feltrinelli, Milano, 2015, pp. 128, € 13,00)
dà voce a una donna, Irina, oggi cinquantenne, che ha
vissuto una tragedia immane, un dolore che non si può
raccontare, e che ha trovato la forza di affrontarlo e il coraggio
di ribellarsi per continuare a vivere, per non accontentarsi
di sopravvivere alla catastrofe.
I fatti sono noti, la cronaca racconta una storia terribile:
nel gennaio del 2011, il marito di Irina – la coppia è
separata e sta divorziando – sparisce dal suo domicilio
di Saint-Sulpice presso Losanna in Svizzera con le figlie Alessia
e Livia, due gemelline di sei anni. Dopo diversi spostamenti,
da Marsiglia, alla Corsica, al sud Italia, l'uomo si butta sotto
un treno a Cerignola, in Puglia; delle bambine, di cui lui ha
lasciato scritto “riposano in pace”, “non
hanno sofferto”, “non le rivedrai mai più”,
non si è più avuta traccia. La madre, Irina Lucidi
– italiana, che vive e lavora come avvocato a Losanna
da diversi anni – appare più volte sulle reti televisive
centroeuropee con i suoi appelli sobri, determinati, strazianti.
E vani.
Non è mia intenzione soffermarmi sui terribili fatti
che hanno stravolto e lacerato la vita di Irina, la vita di
una madre e delle sue bambine, né esprimermi sull'opera
giornalistica e letteraria della De Gregorio, ma piuttosto rilevare
quanto i pregiudizi e il moralismo possano caricare sulle spalle
di una donna, vittima di una tragedia oltre l'immaginabile,
l'ombra pesante di una o più colpe e un'ulteriore condanna.
I pregiudizi, subdoli ma rassicuranti per chi li ha e se li
coltiva, non certo per chi li subisce. I primi contro cui Irina
ha dovuto far fronte sono quelli classici: donna indipendente,
italiana in Svizzera, avvocato, parla cinque lingue, guadagna
meglio e, all'interno della stessa ditta, è più
riconosciuta professionalmente del marito; a volte è
lontana da casa, per lavoro, non sarà certo dunque
né una moglie né una madre ideale. Si è
ribellata alla pena di un matrimonio oppressivo, ha chiesto
il divorzio, si è dunque caricata della colpa di aver
distrutto, lei per prima, la famiglia. Sì perché
il fatto che il marito non fosse né ideale né
psicologicamente equilibrato non entra un granché in
linea di conto prima della tragedia.
Contro questi pregiudizi, positivi nei confronti del marito
e negativi nei suoi confronti, Irina ha dovuto lottare da subito,
non solo con l'entourage famigliare e domestico, non solo nel
corso delle pratiche di separazione e divorzio ma soprattutto
nelle fasi di denuncia della scomparsa delle bambine. Pregiudizi,
moralismi e sentenze terribili che gettano ombre di sospetto
a cui è difficile sottrarsi e che marchieranno Irina
come vittima non innocente.
A questa sentenza sottaciuta di parziale colpevolezza, alla
condanna “a vita” della scomparsa, della morte non
accertata, senza un dove, un come, un quando delle sue bambine,
sulle spalle di Irina si aggiunge un'altra colpa, quella di
voler continuare a vivere, di volersi riappropriare di una vita
degna di essere vissuta. Sì perché questo suo
ostinato attaccamento alla vita malgrado la tragedia, questo
suo opporsi alla morte viva senza possibili sconti di pena,
destino segnato per una giovane madre sopravvissuta, si scontra
violentemente contro un moralismo anche maschilista, contro
il perbenismo di una società più benpensante che
solidale. In questo senso la sua tenacia è vista come
una scandalosa disubbidienza. Forse è un non detto, ma
è un pensiero così denso da pesare più
di una sentenza scritta.
Il racconto di Concita De Gregorio disegna il profilo di una
donna coraggiosa, forte, lucida anche nello strazio vuoto e
opprimente e disarmante della scomparsa e traduce e trasmette
bene l'energia e le fatiche, razionali ed emotive, necessarie
non solo per resistere alla morte nel cuore ma anche per opporsi
appunto alle condanne silenziose di un ordine simbolico e di
un moralismo malato, ritrovati sia nel contesto e nella famiglia
acquisita in Svizzera, sia nella sua famiglia italiana.
L'anarchia nel cuore, che è poi capacità di ascoltare
innanzitutto sé stessi, l'amore che sgorga a rivendicare
il diritto di vivere ancora, di essere quello che vogliamo,
che sentiamo di essere, senza calpestare gli altri ma senza
lasciarci calpestare; è una forma di libertà che
sento e ammiro profondamente, di cui percepisco la purezza,
la dolorosa fermezza e la paradossale, inevitabile fragilità.
Perché siamo tutti pieni di pregiudizi, troviamo tutti
scorciatoie e strade comode e ribellarsi è una fatica
immane che non sempre, anzi, decidiamo di intraprendere. “Toglierci
dal posto che gli altri ci assegnano, possiamo”, dice
Irina, “gli altri non sono il destino”. È
con questa determinata leggerezza che Irina riesce a sollevare
anche il cuore di chi legge, ad infondere forza, a regalare
energia vitale capace di opporsi ostinatamente e serenamente
ad ogni corrente.
“Ferite d'oro. Quando un oggetto di valore si rompe, in
Giappone, lo si ripara con oro liquido. È un'antica tecnica
che mostra e non nasconde le fratture. Le esibisce come rinascita.
Anche per le persone è così. Chi ha sofferto è
prezioso, la fragilità può trasformarsi in forza.
La tecnica che salda i pezzi, negli esseri umani, si chiama
amore.”
L'amore di Irina per le sue bambine, per la vita, la sua e quella
di altre madri, di altri bambini, altri famigliari, ha vinto
sul dolore. A partire dal 2011, ha fondato “Missing Children
Switzerland”, una ONG inserita in una rete europea che
assiste le famiglie e le autorità in tutte le fasi degli
eventi legati alla scomparsa di minori.
Nell'immaginario di oggi, che fa della positività un
valore supremo, la grande resistenza di Irina, questa sua intraprendenza
e capacità di trovare le risorse per far trarre profitto
ad altri dalla sua tragedia, è senz'altro guardata con
ammirazione. È così anche per la sua non-docilità,
per la sua ferma capacità di dissentire e di distanziarsi
dalla corrente morale di una collettività? Non sarebbe
più facile compatirla se avesse ceduto ad altri, all'insieme
di norme civili democraticamente riconosciute, la capacità
di scegliere tra il bene e il male invece di ostinarsi a seguire
il nocciolo duro della sua coscienza? Non so quanti pesi e quante
misura abbiano le nostre incoerenze, ma fa sempre bene chiederselo.
Paola Pronini Medici
La fine della scuola
e le alternative libertarie
È
recentemente uscito il volume del nostro collaboratore Francesco
Codello sulla scuola. Si intitola La campanella non
suona più. Fine dei sistemi scolastici e alternative
libertarie possibili (Edizioni La Baronata, Lugano,
2015, pp. 208, € 17,50). Per richieste: Edizioni
La Baronata, Casella postale 328, CH-6906 Lugano (Svizzera),
www.anarca-bolo.ch/baronata.
baronata@anarca-bolo.ch
baronata@bluemail.ch
Ne ripubblichiamo l'introduzione.
«Vaso, creta o fiore? Né riempire, né plasmare
ma educare». Questa metafora coniata da Colin Ward (Talking
Schools, 1995) sintetizza in modo esemplare il possibile
significato di educazione libertaria. I fondamenti che stanno
alla base di un'autentica educazione antiautoritaria possono,
infatti, sostanziarsi in questa definizione: educare non è
riempire (il vaso), non è neppure plasmare (la creta),
ma promuovere il naturale sbocciare del fiore. Tutto questo,
apparentemente semplice, comporta alcune considerazioni e mette
in luce una varietà di problematiche davvero importanti.
Che cos'è l'educazione libertaria, in che cosa si differenzia
da una autoritaria, come può realizzarsi concretamente,
qual è il ruolo dell'insegnante nella relazione educativa,
e quello dei genitori, la Scuola (il sistema scolastico) che
soprassiede alla formazione attuale può essere modificata?
Queste, e molte altre domande, ricorrono sistematicamente in
quanti hanno a cuore la realizzazione di un'educazione libertaria.
Occorre innanzitutto ritornare al significato originario della
parola “educazione”, riflettere sull'etimologia
e analizzare poi la sua evoluzione di significato (semantica).
Capire perché, da un concetto di educare sorto per significare
il “tirar fuori” (ex-ducere), si sia transitato
nel corso del tempo a un'idea diametralmente opposta (riempire,
plasmare, ecc.), è molto importante. Questa operazione
di genealogia filosofica è indispensabile per capire
i meccanismi che il dominio, nelle sue varie espressioni, mette
in atto per far apparire consolidato e vero un concetto che
all'origine aveva altri significati. Infatti, educare sta proprio
a significare l'azione che il soggetto compie nel trarre da
sé il suo pensiero, in relazione con gli altri e con
la mediazione dell'ambiente. Se questo è il concetto
originario, appare del tutto evidente quanto si sia venuto formando
un pensiero diametralmente opposto nel corso dei secoli, tanto
da far perdere completamente questa realtà e imporre
una visione educativa profondamente autoritaria, fondata sulla
negazione di questa relazione e sull'inaugurazione di una gerarchizzazione
dei rapporti educativi.
La metafora della levatrice
Pressoché tutte le concezioni pedagogiche, tranne pochi
esempi, hanno, nel corso della storia, manipolato la concezione
originaria sostenendo una relazione educativa a-simmetrica,
gerarchica, autoritaria. In questo modo si è passati
da un'idea di soggetto auto-educantesi a una di oggetto dell'intervento
sistematico, voluto, programmato di educazione e istruzione.
Questo è avvenuto perché le teorie e le prassi
educative che si sono imposte storicamente, si fondano su un'idea
antropologica a priori, su una concezione filosofica, o religiosa,
o politica o economica, ecc., in sostanza si ispirano a una
visione teleologica della storia, inverandosi in pratiche educative
che hanno come fondamento della propria giustificazione e realizzazione,
il dover essere del bambino e della bambina, in generale dell'altro
da sé. Allora, come diceva Mark Twain, l'educazione è
divenuta la difesa organizzata degli adulti contro la gioventù,
si è imposta cioè quella che Paulo Freire ha efficacemente
definito una visione “bancaria” dell'educazione,
cioè una sorta di dono che i sapienti (così si
considerano) fanno agli ignoranti. Le caratteristiche di questa
tradizione educativa si possono cogliere nell'insieme di informazioni
e abilità del passato da trasmettere alle nuove generazioni,
nelle regole e norme di condotta a cui addestrare la gioventù,
nel complesso dell'organizzazione su cui basarsi fatta di programmi,
valutazioni, classificazioni, regole disciplinari, rituali,
gerarchie, ecc. L'educatore (insegnante o genitore) diviene
una sorta di funzionario-agente di questo processo in una relazione
autoritaria con l'educando. Se, dall'avvento del cristianesimo
e soprattutto a partire dall'età medioevale, la pedagogia
era considerata ancella della teologia, oggi il complesso sistema
educativo e le teorie che lo inverano, sono al servizio della
logica del consumo e dell'interiorizzazione di falsi bisogni
e false verità.
La visione dell'educazione dominante è comunque, ieri
come oggi, una concezione depositaria, cioè una
rappresentazione dell'idea educativa fondata su una separazione
sostanziale, magari talvolta non facilmente manifesta, tra chi
detiene le conoscenze e ha il diritto-dovere di tramandarle,
e chi è l'oggetto di questa trasmissione. Da queste premesse
deriva la centralità che il complesso sistema educativo
(scuola, famiglia, altri soggetti) assegna alla formazione.
Formare è divenuta la parola “magica” e simbolica
che dà voce alla necessità, sempre più
impellente, di garantire un consenso diffuso, una pratica consumistica
ma, soprattutto, di creazione di un nuovo modello antropologico
che abbia interiorizzato quei valori e quei comportamenti, ritenuti
necessari per mantenere un consenso generalizzato a questa visione
del mondo. La formazione, dunque, diviene sempre più
sinonimo di educazione, capovolgendone il significato, e sostituendosi
alla più coerente istanza della liberazione. Liberazione
che invece si accomuna con un'idea di educazione libertaria
e recupera una caratteristica originaria propria del significato
vero della parola “educare” e che rievoca la metafora
della levatrice, di quell'azione reciproca che compie, da un
lato la donna che partorisce e, dall'altro, la persona che sta
per venire al mondo. Questa prospettiva educativa libertaria
è dunque un educare a essere, a divenire ciò che
si desidera partendo da ciò che progressivamente si è.
Non solo, pertanto, non dover essere secondo un disegno
predefinito da altri, ma neanche un essere ciò che si
è secondo una concezione riduzionista e genetica della
vita umana. Compare nella concezione libertaria, un'idea educativa
dell'essere che si realizza progressivamente nella relazione
con l'altro e con l'ambiente, un individuo che afferma la sua
peculiare diversità e costruisce il suo futuro su un
atto libero e autonomo di volontà, attraverso le inevitabili
mediazioni con il contesto esterno alla sua soggettività.
L'azione educativa per la trasformazione
sociale
La libertà diviene dunque autodeterminazione individuale,
ma necessariamente intrecciata con le altre diversità,
altrettanto rilevanti, e con l'adesione libera e autonoma a
un insieme di relazioni sociali ugualmente indispensabili e
vitali. Così il sapere, la conoscenza, la novità,
è su di sé e non “utili” o per servire
a qualcosa. Allo stesso modo la libertà, come ci ha dimostrato
Bakunin, non è quella della concezione liberale (la mia
libertà finisce, dove inizia quella dell'altro), ma è
quella anarchica (la libertà individuale si realizza
solo a condizione che gli altri siano altrettanto liberi). Gli
altri non sono dunque un limite ma un presupposto imprescindibile
per permettere al mio essere di realizzare la sua, propria,
specifica, libertà. Appare evidente, in questa prospettiva
filosofica, il recupero della filosofia di Parmenide, nutrita
della sensibilità cosmocentrica, propria dei cosiddetti
filosofi pre-socratici. Se l'essere è, non può
non essere, sosteneva il filosofo nato nella Magna Grecia (presumibilmente
nel 540 a.C.), così come il non essere non è e
non può in alcun modo essere. Il percorso educativo è
allora quel cammino che conduce alla consapevolezza di se stessi,
nel seguire in ogni istante l'essere, così come il mutare
presenta sempre nuovi eterni innanzi a ciascuno di noi. Ciò
è indispensabile se si desidera che ciascuno sia in grado
di capire e di avere coscienza della situazione in cui ci si
trova. La cultura del nostro tempo invece nega un senso fondamentale
al mondo e all'esistenza, poiché il pensare dominante
è quello che si interessa della singola parte, è
il pensare specialistico, che ha estromesso la dimensione olistica
dell'esistenza.
Qui ci arrivano alla mente i versi di Thomas S. Eliot: «In
my beginning is my end. In my end is my beginning» e la
concezione greca del tempo circolare e non lineare. Il mio inizio
è la mia fine, la mia fine è il mio inizio, vale
a dire proprio che l'essere, anche quando apparentemente diviene,
è sempre l'essere che è in quel momento, dunque
provvisoriamente ma continuamente assoluto.
Ciò che è indispensabile allora apprendere è
seguire se stessi, non cercare nell'altro da sé la verità
e la via. Come ci ricorda mirabilmente Nietzsche, in Così
parlò Zarathustra: «Voi non avevate ancora
cercato voi stessi: ecco che trovaste me. Così fanno
tutti i credenti; perciò ogni fede vale così poco.
E ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando mi
avrete tutti rinnegato io tornerò tra voi». Nella
relazione libertaria l'educatore diviene accompagnatore, non
passa al tuo posto ma viene con te. I pellerossa aspettavano
di vedere chi era il bambino, impiegavano il tempo necessario
prima di dargli un nome, per conoscere la risultante psichica
e psicologica che lo caratterizzava, prima di chiamarlo con
un nome. L'obiettivo principale, pertanto, non è il risultato,
ma l'enfasi è posta sul processo, l'attenzione è
al rispetto di ciò che continuamente si è, né
su ciò che si vuole che l'altro divenga, né su
quello che si ha stabilito a priori che deve necessariamente
essere.
Persino Kant, nella sua opera più importante e culminante
la sua ricerca filosofica (Critica della facoltà di
giudizio), dissertando sul bello e sul sublime, si lascia
andare alla convinzione che sia necessario contemplare le cose
belle senza chiedere loro di corrispondere ai nostri canoni
estetici. Educare a essere dunque si può ritenere come
il presupposto fondativo di un'educazione autenticamente libertaria
perché pone al centro il soggetto singolo e lo sostiene
nella relazione sociale. Il fulcro allora del rapporto educativo
è veramente l'educando (bambino/a) e non l'educatore
(l'adulto).
La centralità è fissata sull'apprendimento e non
sull'insegnamento e da questo presupposto devono essere declinate
sia le azioni, sia progettate e realizzate le organizzazioni,
in grado di mantenere coerentemente questa prospettiva.
Alcune esperienze concrete
Tutta la tradizione libertaria, a partire dalle pagine illuminanti
di Godwin (The Enquirer, 1823), si è collocata
nel solco di pensare l'azione educativa come uno dei mezzi fondamentali
per poter promuovere un cambiamento radicale della società.
L'idea di un uomo nuovo, antropologicamente diverso, in grado
di desiderare e poi vivere una realtà relazionale libera
da ogni forma di dominio, è stata un obiettivo costante
degli anarchici. Ma, i più acuti e attenti, hanno anche
rilevato come l'enfasi sul nuovo non avrebbe garantito una piena
liberazione dell'individuo. Occorreva affiancare l'oggettiva
novità (rispetto alla tradizione) con la sottolineatura
della libertà necessaria e imprescindibile che deve accompagnare
questa trasformazione. In fin dei conti molti altri pensatori
e movimenti hanno pensato di generare un uomo nuovo nel corso
della storia e questa novità non ha sempre rappresentato
una vera liberazione. Ecco che dunque la tradizione libertaria
deve sottolineare con forza la priorità della dimensione
dell'autonomia e della libertà rispetto a quella della
novità. Perorare l'ideale di un uomo nuovo non caratterizza
completamente un'educazione libertaria poiché si fonda
comunque su un'idea (seppur diversa) di modello antropologico
definito pertanto a priori e caricato, arbitrariamente, di valore
positivo. Si ritorna dentro lo schema dell'educare al dover
essere e poco importa (in questo senso) che si ritenga questo
dover essere migliore dell'attuale.
Educare significa, per la tradizione libertaria, liberare, sciogliere,
portare alla luce, quanto di più profondo, autentico,
intenso, vi è in ciascuno di noi nel momento in cui si
compie la relazione educativa. Pertanto non vi può essere
educazione senza auto-educazione, senza quella libertà
e quell'autonomia che caratterizzano una relazione dialogica
che si sviluppa per larga parte sull'incidentalità come
presupposto dell'istruzione e dell'educazione stessa. Paul Goodman
ripeteva che ai bambini non bisogna insegnare, bensì
permettere di scoprire. Essi devono essere incoraggiati a indovinare
e a usare il cervello, invece di venir esaminati sulle giuste
risposte. L'educazione e l'apprendimento incidentale sono naturali,
spontanei, inevitabili, non così invece quelli formali
e istituzionalizzati, che sono deliberati, programmati, definiti,
valutati conseguentemente.
Le esperienze storiche caratteristiche dell'anarchismo militante,
quelle di Cempuis (Paul Robin), La Ruche (Sébastien Faure),
Escuela Moderna (Francisco Ferrer), Jasnaja Poljana (Lev Tolstoj),
le scuole di Madeleine Vernet e Louise Michel, solo per ricordare
quelle più note, sviluppatesi tra la fine dell'Ottocento
e la prima metà del Novecento, cresciute anche grazie
alle intuizioni di Stirner, Bakunin, Kropotkin, Reclus, e molti
altri militanti e pensatori libertari, sono lì a testimoniare
della vitalità di un pensiero educativo autenticamente
antiautoritario.
Questo filone di scuole ed esperienze si collega idealmente
a quel movimento, così forte e presente oggi nei diversi
continenti, di scuole “democratiche” che trovano
la loro primaria fonte nella scuola di Summerhill, in Inghilterra,
fondata nel 1921 (dapprima in Germania e poi dal 1924 nel Suffolk
inglese) da Alexander Neill. Le scuole libertarie presentano,
seppur così variegate e diverse anche geograficamente,
alcuni tratti comuni che le differenziano radicalmente dalla
scuola tradizionale. La centralità, essendo posta sull'apprendimento
e non sull'insegnamento, mette a fuoco l'educando e le sue esigenze,
i suoi tempi, le sue attese, le sue curiosità, le domande,
ecc., in una concezione dello sviluppo della conoscenza che
non sia lineare e rigidamente consecutiva ma pensata come una
spirale, per permettere un processo infinito che va dalla non
conoscenza alla conoscenza, per poi ritornare alla non conoscenza,
e così all'infinito. Errori, tentativi, sperimentazioni,
devianze, creatività, ricerche, costituiscono l'humus
sostanziale del processo di apprendimento. La motivazione è
intrinseca, liberata cioè da una valutazione giudicante
e classificante, non fondata su premi e castighi, quindi non
estrinseca. La gestione delle comunità educanti è
improntata a una reale democrazia diretta che determina un processo
decisionale paritario tra bambini e adulti. La frequenza alle
lezioni è facoltativa e concordata, grazie anche a una
relazione fortemente empatica che deve intercorrere tra educatori
ed educandi. Le metodologie didattiche sono fondate sulla massima
varietà, comunque tutte costruite su quell'attivismo
didattico indispensabile per coniugare esperienza vera e conoscenza
profonda. L'educazione è dunque integrale e armonica,
per corrispondere all'esigenza di uno sviluppo della personalità
completo e ricco di specificità individuali, pertanto
la diversità e l'originalità sono stimolate e
incoraggiate. Bambine e bambini, insomma, sono liberi di imparare
e autonomi nell'esprimere se stessi globalmente, mettendo al
centro di questo percorso il corpo vero e reale, le molteplici
intelligenze, le variegate curiosità.
Su questi presupposti educativi si fonda la critica ai sistemi
scolastici, che in questo libro vengono analizzati, e in nome
di questi principi e di queste pratiche sono presentate alcune
esperienze concrete di un modo radicalmente diverso di fare
scuola, con lo scopo di dimostrare che non solo un'altra educazione
è possibile, ma è quanto mai urgente praticare.
Raccogliendo le suggestioni che ci provengono da Albert Camus
possiamo dire che educare significa toccare ciò che esiste
di più vivo e vitale in ogni essere umano, è contagiare
e accendere il fuoco della passione. Per consentire a questa
contaminazione di svilupparsi, per permettere quella che l'anarchico
individualista E. Armand definiva iniziazione, è
indispensabile assumere una postura diversa, muoversi come ci
si muove quando si cammina sulla sabbia e si cerca l'equilibrio,
consci che ogni piccolo spostamento modifica l'equilibrio stesso.
In altre parole, prendendo a prestito dei versi di Janusz Korckzak
(educatore libertario polacco ed ebreo morto assieme ai suoi
bambini nel campo di concentramento di Treblinka), è
indispensabile mettersi di fianco, trovare il vero senso della
parola rispetto, amare senza se e senza ma, in sostanza
permettere a ciascuno di essere ciò che è:
«Dite: è faticoso frequentare i bambini. Avete
ragione. Poi aggiungete: perché bisogna mettersi al loro
livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora
avete torto. Non è questo che più stanca. È
piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all'altezza
dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta
dei piedi. Per non ferirli.»
Francesco Codello
La repubblica dell'immaginazione/
La dittatura dell'indifferenza
Credo
di dire un'ovvietà affermando che il grado di civiltà
di un paese vada misurato prima di tutto attraverso l'osservazione
del suo sistema scolastico e poi, subito conseguente, nel rapporto
che intrattiene con la cultura.
Nel libro di cui sto per parlare si dice: “La vocazione
del maestro è tra le più elevate che l'uomo conosca.
Né la politica né la religione ci conferiscono
una missione più elevata di questo precipuo mestiere
di dispiegare e rafforzare le potenzialità dell'animo
umano”.
E inoltre: “Se i nostri figli non hanno imparato a pensare
in maniera critica, non è perché vengono imbottiti
di troppa poesia e storia. Al contrario, è colpa di una
cultura che rende costoso e irrilevante l'accesso al pensiero
libero. È colpa dei docenti stracarichi di lavoro e sottopagati,
della mancanza di fondi pubblici per l'istruzione, della carenza
di disciplina o di rispetto per l'apprendimento e per gli insegnanti:
è colpa di una cultura troppo incentrata sui soldi, sul
successo, sull'intrattenimento, sul rendere la vita più
facile che significativa”.
Uscito lo scorso mese di agosto per quelli di Adelphi, il libro
in questione è La repubblica dell'immaginazione
(Milano, 2015, pp. 288, € 19,00) della scrittrice iraniana
Azar Nafisi, resa famosa a livello internazionale da Leggere
Lolita a Teheran, il suo primo libro, pubblicato in traduzione
italiana nel 2004 (vedi
“A” 398 - maggio 2015).
Azar Nafisi ha insegnato letteratura anglo-americana in varie
università del suo paese fino a quando le restrizioni
del governo degli ayatollah non gliel'hanno impedito. Dal 1997
vive negli Stati Uniti e dal 2008 è cittadina americana.
Oggi prosegue la sua riflessione spostando l'attenzione sul
rapporto che il paese che la ospita intrattiene con la libertà,
domandandosi se non sia forse possibile che la letteratura occidentale
si rivolga più alle anime bramose di cultura della repubblica
islamica dell'Iran che agli abitanti della terra dov'è
nata. Chiedendosi se non sia per caso vero che chi affronta
la censura, la tortura e il carcere per poter leggere libri,
ascoltare musica, guardare film e conoscere opere d'arte vede
tutto questo sotto un'altra luce. È possibile che nelle
democrazie il bisogno di leggere non sia poi così impellente
e perché?
Dice Scout, la bambina protagonista di Il buio oltre la siepe
(romanzo di Harper Lee e bellissimo film diretto da Robert Mulligan
nel 1962): “Leggere non mi è mai piaciuto tanto,
finchè non ho avuto paura di non poterlo più fare.
Non si ama respirare”.
Significa che per comprendere davvero la necessità vitale
di una cosa è necessario arrivare al punto di perderla?
La scrittrice fa ruotare le circa trecento pagine del libro
intorno a questi interrogativi e per farlo racconta storie,
quelle dei protagonisti dei testi di cui parla, che si intrecciano
alla sua che a sua volta si intreccia con quella di altre persone,
in un fitto legame tra storie immaginate e storie vissute che
non perde mai di intensità.
Parte dall'Ottocento, alla ricerca dei fondamenti dell'identità
americana che si trova proprio nel carattere meticcio della
sua popolazione, magistralmente narrata in quello che spesso
è considerato un classico solo per ragazzi - Huckleberry
Finn di Mark Twain - in realtà romanzo epico del
primo ribelle americano e ancora attuale atto d'accusa verso
la nostra coscienza sociale, in quanto ben documenta come le
persone cosiddette normali o perbene, ma anche gli emarginati,
possano smettere di ascoltare la propria interiorità
e scegliere la più facile via che adotta i peggiori pensieri
e pregiudizi sanciti dalla società. Tanto che, suggerisce
la Nafisi, attraverso la lettura di Huck Finn possiamo arrivare
a chiederci se atrocità come lo schiavismo e l'olocausto
sarebbero potute accadere senza la complicità –
o cecità volontaria – di tanta gente “perbene”.
Huck è un eroe ordinario, che sa scegliere tra quello
che gli viene detto di fare e quello che invece ritiene giusto
- forse esempio dell'individualismo americano nella sua forma
migliore – figura molto più complessa del classico
cowboy solitario che arriva in città, fa fuori i cattivi
e se ne va in sella al suo cavallo.
Di quanta America siamo fatti anche noi italiani? Dagli sbarchi
alleati di fine guerra, alla cinematografia, alla musica, all'immigrazione,
l'Italia così com'è, nel male e nel bene, è
l'Italia che siamo e il mito americano, costruito su una lunga
schiera di piccoli eroi, anche noi l'abbiamo guardato e in qualche
misura ci ha influenzato. E se Huckberry Finn possiamo
trovarlo tra i compagni che hanno formato la nostra preadolescenza,
Babbit vive di riflesso in tutto quel mondo governato
dal vendere e dal comprare che ha imperversato, imperversa e
ora vacilla.
George Babbit è il protagonista del libro più
famoso di Sinclair Lewis: il classico americano che si è
fatto da sé, che ha sgobbato per arrivare dove è
arrivato e che vive in un mondo governato dal business. Ha successo,
una famiglia, una buona posizione sociale, ricchezza e un futuro
sorridente. Ciò nonostante Babbit si chiede il perché?
Perché malgrado questo si sente insoddisfatto? Domanda
che lo accompagna per tutta la storia.
Dopo Twain e Lewis, attraverso autori come William Faulkner
e Carson McCullers - per citarne solo due - la scrittrice cerca
di ripercorrere la storia del carattere e della realtà
statunitense. Ci mostra le tante facce di un mito che ormai
non sta più in piedi, che traballa insieme a tutto l'Occidente,
perché la crisi, che affligge anche quel paese, non è
solo economica o politica, ma “qualcosa di più
profondo che sta sconquassando il paese: una visione mercenaria
e utilitaristica insensibile al vero benessere della gente,
che taglia fuori l'immaginazione e il pensiero, che marchia
come insignificante la passione per la conoscenza.[...] Tutti
gli stati – anche quelli totalitari – offrono lusinghe
e tentazioni. Se cediamo, il prezzo che paghiamo è il
conformismo: ci abbandoniamo ai dettami del gruppo. La letteratura
è un antidoto, un memento sul potere della scelta individuale.
Al centro di ogni romanzo c'è una scelta compiuta da
almeno uno dei protagonisti, la quale ricorda al lettore che
anche lui può scegliere di essere indipendente, di opporsi
alle cose che i genitori, la società o lo Stato gli dicono
di fare, e seguire il debole ma essenziale palpito del suo cuore”.
Con questo ottimo libro Azar Nafisi continua a portare avanti
la sua battaglia in difesa del valore sovversivo della letteratura,
di questa cosa meravigliosa che - come tutta l'arte, quando
è vera - lascia libero il lettore di pensare e di sentire,
di prendere le proprie decisioni riguardo ciò che sta
leggendo. Che ci permette di osservare le storie degli altri,
le loro scelte e, se vogliamo, sinceramente, porci la domanda:
“E io? chi sono io?”.
Viviamo in una società che tende ad anestetizzarci, a
non mostrare l'interezza di un esistere fatto di gioia, dolore,
vecchiaia e morte, salvo poi ridurre le atrocità più
feroci a quotidiano spettacolo televisivo senza emozioni. Siamo
arrivati al punto che, invece di insegnare ai giovani come nella
vita non esistano luoghi sicuri, che la sicurezza è illusoria
e la sola possibilità che abbiamo è vivere, sentire
la vita nella sua totalità anche dolorosa - perché
questo è l'unico modo col quale possiamo preservare la
nostra umanità -, siamo arrivati al punto di voler mettere
le avvertenze sui libri laddove si raccontano gesti di violenza
(perché questo è ciò che sta accadendo
nelle università americane), così che le giovani
anime degli studenti non vengano turbate e possano evitare di
leggere, ad esempio, quei passi di Dante troppo trucidi o quel
Tolstoj troppo realistico.
In fondo censurare la letteratura o rifiutarla equivale a rifiutare
il dilemma che ci accompagna e che chiamiamo vita.
Silvia Papi
Per un'urbanistica
in chiave autogestionaria
Contro
l'urbanistica (Torino, 2015, pp. 158, € 12,00) è
il titolo di un saggio di Franco La Cecla, apparso quest'anno
per i tipi della Giulio Einaudi che ho letto di recente. Prima
di questo avevo letto il suo romanzo “faustiano”
Falsomiele, il diavolo a Palermo (2014, pp. 224, €
13,00), edito nel 2014 da :duepunti edizioni.
Ho provato ad intrecciare le mie impressioni su questi due testi
che parlano in realtà, sotto forme diverse - un approccio
disciplinare il primo, romanzo il secondo - degli stessi argomenti.
Contro l'urbanistica il primo, si ma a favore dell'urbanità,
o meglio contro la attuale disciplina urbanistica così
come è venuta configurandosi dopo i suoi inizi libertari.
Inizi che come ci ricorda La Cecla in un capitolo dedicato affondano
le loro radici nella collaborazione in Inghilterra alla fine
del XIX secolo tra Peter Kropotkin e Patrick Geddes, che attraverso
la rielaborazione di Lewis Mumford, Ebenezer Howard e altri
arrivano in Italia nel secondo dopoguerra attraverso le figure
di Carlo Doglio e Giancarlo De Carlo, questi ultimi maestri
miei e di Franco alla facoltà di Architettura di Venezia
negli anni Settanta. Per La Cecla l'urbanità è
“quella produzione di città che la gente fa normalmente
vivendoci” citando Henry Lefebvre nel suo Il diritto alla
città del 1967.
L'ineluttabilità della crescita illimitata dell'ambiente
urbano a scapito di quello agricolo è un fantasma agitato
per il proprio profitto dalle teorie neo-liberali oggi dominanti
che tendono a distruggere ogni forma di partecipazione dal basso
e ogni forma di autogestione e democrazia. Se la disciplina
urbanistica oggi si affida principalmente alla promozione di
smart cities e segue il mito della sostenibilità,
confidando nello sviluppo tecnologico e nei supporti informatici,
per La Cecla “la democrazia è la possibilità
di circolare fisicamente in una città (non come veicoli
ma come corpi) tra altri individui conosciuti e sconosciuti”
come afferma Rebecca Solnit.
Il proliferare di modelli quali le smart city, le creative
cities, resilient cities, open source cities
ecc non sono altro che formule per l'omogeinizzazione di ogni
insediamento sul territorio, la morte della città e il
tentativo definitivo di por fine ad ogni forma di intervento
dal basso per la creazione di insediamenti di collettività
che possano contribuire a modellare il proprio ambiente. Oggi
“Le città [...] promettono di essere puri
hub dell'ubiquità, porte di accesso a una geografia smaterializzata.”
Contro l'urbanistica è anche la riflessione di
un architetto-antropologo sul concetto di “Ubiquità”
sotto forma di saggio, così come Falsomiele, lo
è sotto forma di romanzo.
La Cecla ama la città, o meglio qualsiasi contesto urbano,
dal piccolo villaggio alle gigantesche megalopoli asiatiche
passando per Ragusa di cui fa una splendida apologia nel suo
saggio.
Architetto non praticante, passato all'Antropologia Culturale,
in realtà nelle sue opere migliori parla sempre di città,
così come un altro architetto mancato, Orhan Pamuck,
che dopo tre anni di architettura abbandona e si dedica alla
scrittura.
Una
sindrome diffusa quella dell'architetto che nella vita fa tutt'altro
ma finisce sempre per cantare la città, i luoghi urbani
e le persone che determinano gli spazi, quelli che stanno, come
li definisce La Cecla. Ad esempio gli abitanti degli slums
che praticano la logica dello “stare” e dell'immanenza
che sfugge spessissimo a chi pianifica ma anche a chi lavora
nelle Ong”.
Quasi tutti i romanzi di Pamuck parlano di città, della
sua città, Istambul, e ne descrivono gli spazi attraverso
i corpi che la abitano e la definiscono. Pamuck ha realizzato
il suo “Museo dell'innocenza” a Istanbul come omaggio
alla sua città, La Cecla da buon antropologo ha cercato
ovunque la sua città, conscio che “l'antropologia
è la filosofia che ha il coraggio di vivere fuori”
citando da Tim Ingold. L'antropologia ha da insegnare molto
all'urbanistica, sostiene La Cecla, e forse la frase di Ingold
in trasparenza si potrebbe leggere come: “l'antropologia
è l'urbanistica che ha il coraggio di vivere fuori”.
E La Cecla vive sempre fuori, come ne danno testimonianze le
belle descrizioni di città intercalate al testo più
propriamente di critica all'urbanistica. Città che pur
essendo concrete e ben vive nelle sue descrizioni, da Yojakarta
a Taskent o Shangai, passando per Istambul e Milano riecheggiano
le atmosfere delle Città invisibili di Calvino
o spesso come in maniera più trasparente in Falsomiele
un affinità con la mitica città di Kalhesa del
Progetto Kalhesa bellissimo racconto che ha pubblicato
Giancarlo De Carlo con lo pseudonimo di Ismé Gimdalcha.
Nel Progetto Kalhesa alla fine Ismé si chiede:
“dove mai è Kalhesa? [...] Kalhesa non c'è,
e anche che è dappertutto. Forse come tutte le città
di valore inestimabile, Kalhesa ha la prerogativa di essere
allo stesso tempo unica e universale”.
Khalesa, in modo trasparente è Palermo, la città
di Franco La Cecla, la città dalla quale non esce mai
nel suo Falsomiele pur intrecciando rapporti e avventure
in tutto il mondo. La sua dannazione e la sua salvezza sta in
una frase finale del libro: “che senso ha perdersi se
poi uno torna sempre indietro”. Perdersi, sottotitolato
l'uomo senza ambiente è a mio parere uno dei libri
più belli di Franco insieme a Mente Locale, lo
stare in un luogo col corpo e l'essere altrove pienamente, i
due poli tra i quali La Cecla continua a oscillare e che tenta,
ubiquamente di conciliare attraverso tutti i suoi libri e i
suoi innumerevoli viaggi di studio. Franco venderebbe l'anima
- o l'ha già fatto? - per poter essere contemporaneamente
in tutte le città del mondo che ama o che desidera ancora
scoprire, di persona, con il proprio corpo, mentre prende un
gelato nella sua Palermo, “al Foro Italico, sul fronte
di una Marina in cui il Mediterraneo è invisibile”,
per avere il dono dell'ubiquità, come candidamente confessa
nel suo romanzo Falsomiele. Franco sa benissimo che “Le
guide mentono: I veri posti non ci sono mai.” Come recita
l'incipit di Falsomiele. “E poi nelle guide di
Palermo, Falsomiele non c'è mai. Nessuno che ci sia mai
andato: No Falsomiele non c'è ed è per questo
che Caruso ci va.”
Caruso alter-ego dell'autore finirà per accettare il
dono del misterioso Gaetano Volpes, novello Mefistofele che
regala la merce più preziosa oggi, l'ubiquità,
l'essere ovunque, la “reductio ad unum” di un pianeta
che il neo-liberismo vuole trasformare in un'unica enorme “città
furbetta”, traduzione letterale di smart city,
in realtà un'unica omnicomprensiva mart's city,
luogo in cui trionfa il mart, un bel centro commerciale.
Franco Bunuga
Antispecismo e pensiero queer/
Percorsi per un'autodeterminazione
Se
d'improvviso immaginassimo di trovarci al centro di uno dei
capannoni in cui si allevano polli broiler, o di venire catapultati
a bordo di un peschereccio industriale al termine della sua
giornata di strascico, di fronte a quelle distese di innumerabili
forse un brivido ci suggerirebbe che cosa significa per un corpo
non contare nulla.
Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis,
Milano, 2015, pp. 108, € 10,00) è un titolo che
può essere letto in molte direzioni. Gli animali “da
reddito” nella nostra società sono corpi che non
contano. Ed è per questo che molto spesso i loro
cadaveri sono tanti che non si contano. Ma è anche
un modo per interloquire con una delle più importanti
filosofe del nostro tempo, Judith Butler (che ha scritto un
testo famoso dal titolo Corpi che contano. I limiti discorsivi
del “sesso”), e provocarne il pensiero verso
nuovi orizzonti di senso.
Butler negli ultimi venti anni ha offerto alcuni dei contributi
più interessanti per la filosofia contemporanea, in cui
l'analisi della performance di genere e il riconoscimento del
lutto come questione intrinsecamente biopolitica articolano
una riflessione sui processi di costituzione del soggetto e
sul suo posizionamento nella struttura simbolica della nostra
società. Butler ha risposto con interesse alla provocazione
con cui i curatori Massimo Filippi e Marco Reggio la intervistano
a proposito della questione animale. E ciò è forse
potuto accadere perché il pensiero queer e femminista,
in quanto tenacemente fedele alla problematica dei corpi, ha
per lunghi anni affilato gli strumenti più efficaci a
decostruire la violenza strutturale su determinate categorie
di viventi, e i binarismi normativi che sono capaci di “tagliarli
fuori” dalla comunità morale.
I contributi che accompagnano l'intervista rafforzano il ponte
con il pensiero antispecista e ci aiutano a rileggere, radicalizzandolo,
il dibattito contemporaneo sul biopotere, sulle “vite
precarie” e sulla vulnerabilità intesa non come
limite ma come fondamento della comunità dei viventi.
Filippi, Stanescu, Reggio, Iveson e Zappino partono dal confronto,
appassionato e irriverente al tempo stesso, con i testi di Butler
per parlare della necessità di riconoscerci “vite
precarie”, corpi vulnerabili, “carne del mondo”,
insomma in definitiva animali.
Al termine della lettura l'animalità si delinea come
la soglia imprescindibile per capire i processi di distribuzione
del potere, del privilegio, del riconoscimento morale, finanche
della vita e della morte. Come suggerito da Massimo Filippi
nell'Introduzione, «la definizione ontologica di
che cosa sia una vita non può essere sganciata da una
discussione squisitamente biopolitica». Impianto teorico
che ci permette di individuare chiaramente nella questione “che
cos'è la vita?” il problema fondamentale della
nostra epoca, problema che non a caso è allo stesso tempo
d'ordine metafisico, scientifico e politico.
È a partire da qui che si può cominciare a rintracciare,
attraverso i diversi autori della raccolta di saggi, una tessitura
nuova sul tema della vita e dei viventi, che sfida il paradigma
moderno della Persona e della Vita, sacre e continuamente sacrificabili,
e sviluppa arditamente tutte le possibilità dei concetti
butleriani. Segue dunque al momento decostruttivo l'immaginazione
di nuove forme etiche e sociali, «indispensabili per una
politica che si fondi sulla corpeazione condivisa, una politica
capace di metterci nella condizione di affrontare la realtà
violenta della contemporaneità». Il lutto è
il perno su cui si articola questo movimento in avanti: la consapevolezza
della comune vulnerabilità dei viventi è portatrice
di intenzionalità politica nel momento in cui, per dirla
con le parole di Marco Reggio, «desidera che il proprio
dolore per un evento ormai passato si rivolga al presente e
al futuro, nella forma di una rivendicazione politica radicale».
Ecco dunque che quello tra pensiero antispecista e pensiero
queer si fa uno scambio assolutamente biunivoco di strumenti
concettuali. Se la “norma eterosessuale” sarà
uno strumento utile agli animalisti per capire come funzionino
i dispositivi di naturalizzazione delle performance sociali,
è la questione animale che, secondo Federico Zappino
può inquadrare anche il regime politico dell'eteronormatività
in un dispositivo più ampio e che egli definisce “norma
sacrificale”.
Ed è infine grazie a questa nuova amicizia che il movimento
per la liberazione animale può abbandonare una volta
per tutte la posa virile del protettore e quella eroica del
salvatore, e interpretare il proprio agire politico come una
forma di sostegno a una resistenza che viene innanzitutto dagli
animali stessi, veicolo quindi di “solidarietà
politica” alla loro autodeterminazione, in quella che
«è già una società multispecifica».
Intorno alla voce di Butler i curatori costruiscono così
un canto a più voci, che è quasi un requiem perché
testimonia del lutto per gli esclusi, e quasi un canto di protesta
attorno a cui si raccolgono le forze per sfidare il potere.
Benedetta Piazzesi
La bambina
invisibile
L'infanzia
possiede risorse segrete per superare le difficoltà della
vita. Lo testimonia una bambina senza stella, che conosce fin
dalla nascita la disperazione dell'abbandono. Ma imparerà
prima degli altri a fare ricorso alle proprie risorse interiori.
Silvia Vegetti Finzi, (Una bambina senza stella, Rizzoli,
Milano, 2015, pp. 229, € 18,50) padre ebreo e madre cattolica,
appartiene alla generazione di famiglie e bambini travolta,
il secolo scorso, dalla catastrofe della guerra.
“La nostra vita non è tanto quella vissuta, quanto
quella narrata, che non cessa mai di ricercare il senso del
nostro destino”, scrive nella sua memoria autobiografica.
L'autrice guarda alla grande storia dal basso, con gli occhi
dell'infanzia. La prospettiva sulla realtà si arricchisce
dello sguardo di bambina. Mette al centro bambine e bambini,
da sempre esclusi e muti. Un'infanzia invisibile, taciuta anche
nella famiglia, insieme a molte altre testimonianze.
La bambina, ora adulta, raccoglie frammenti di ricordi per intravvedere
un ordine. Vince il pudore della parte più intima e segreta,
spesso sepolta sotto i sedimenti della memoria, là dove
si dischiude il nocciolo dell'identità di ognuno. Così,
allo stesso tempo, infrange un'omertà che ha impedito
a generazioni di ricordare. La scoperta delle fotografie dei
campi di sterminio nascoste sotto una pila di lenzuola rivelano
il “non detto”, pesante più delle parole.
Nomi di luoghi lontani e sconosciuti come Mauthausen, Auschwitz,
origliati dietro la porta, insieme alla storia del nonno e degli
zii scomparsi, emergono dal silenzio e infrangono un'omertà
che ha impedito a una generazione ferita di ricordare.
Portata ad un precoce pensiero introspettivo a disvelare le
proprie forze interiori, trarrà dal limite e dalla sofferenza
per l'abbandono motivazione in età adulta per dedicarsi,
come psicoterapeuta, proprio a quei problemi dell'infanzia,
sofferti in prima persona. La narrazione autobiografica - a
tratti una prosa poetica - si alterna a un'altra voce dialogante,
più riflessiva. Questo bel libro dalla lettura piacevole
rappresenta il frutto del sapere donato all'autrice, nella sua
professione, dall'ascolto e dalla cura dei bambini.
Lasciata a venti giorni ad una giovane balia, proprio quando
nel '38 in Italia vengono emanate le leggi razziali, la bambina
conoscerà la mamma e il fratello maggiore cinque anni
dopo. Per sfuggire alle persecuzioni che investono anche i figli
di genitori misti, infatti, raggiungeranno il padre in Abissinia.
Lo conoscerà solo dopo sette anni, al rimpatrio.
Accudita da bonari anziani parenti a Villimpenta, tra le risaie
mantovane, nell'autunno del '43, proprio quando la campagna
antisemita passa dalla discriminazione alla persecuzione, sarà
costretta a trasferirsi in treno con la mamma-maestra a Manerbio,
nella bigotta provincia bresciana. La bambina dall'identità
espropriata e mai consolidata non sarà marchiata con
la stella gialla cucita sugli abiti. Così, proprio durante
il viaggio, dovrà pronunciare all'ufficiale nazista un
nome e cognome che non le appartengono. E nel suo ulteriore
peregrinare dalla campagna bresciana alla città, senza
che nessuno le spieghi le ragioni, si percepirà come
un'apolide, una senza luogo, lontana senza sapere da dove. Loro
sono “i forestér”. E la conferma: il non
esserci corrisponde alla sua collocazione nel mondo.
La bambina invisibile, non esistendo, si sente al sicuro. Sceglierà
l'esilio volontario nel pianeta dell'immaginazione. Altera,
corpo asciutto, zeppe di sughero, labbra rosso carminio, un
aspetto da cinema, antifascista e miscredente, vedrà
la mamma per la prima volta con gli occhi del paese, con la
stessa estraneità e la stessa diffidenza.
La sente del resto come una non-mamma, dal cuore secco, nervosa,
aggressiva, maschile. Fuma, legge il giornale, viaggia, ascolta
i comunicati di radio Londra. Tuttavia, garantisce alla famiglia
il necessario: spezza la legna per la stufa, fa il pane, il
burro, prepara il sapone, tratta con il padrone di casa e i
carabinieri.
Nell'autunno del '44, l'inizio della scuola con la mamma-maestra,
ancora più rigida con la figlia per dimostrare a tutti
che non le concede preferenze, toglie alla piccola ogni speranza
di rinnovamento: non completerà la quinta elementare,
per accudire la sorellina.
Intanto, gli stereotipi ingabbiano l'infanzia. Vaga, imprecisa,
distratta, dicono assomigli alla nonna.
Una spilla in regalo con raffigurata un'oca - invece per il
fratello geniale un libro - le varrà l'epiteto di piccola
guardiana d'oche. Il burattinaio e l'asino stampati sulla cartella
di cartone annunciano il suo insuccesso scolastico, mentre comincia
a sentirsi cattiva come Pinocchio ed esposta alla vergogna come
l'asino.
Ma la bambina con le antenne annusa il pericolo incombente.
In assenza di presenze affettive, anche se dimenticata, scopre
il bisogno di essere accudita e si cura da sé. Ama il
bambolotto brutto, non piace a nessuno, e perciò le assomiglia:
l'accudimento alla bambola è un accudimento di sé.
Esce dall'autoesilio nel quale si è rifugiata con l'immaginazione.
Capisce che il gioco solitario in presenza di un'amica comprende
la solitudine. Così si apre agli altri.
A Brescia, la maestra non sarà più la mamma. Per
la bambina, l'occasione di riprendere gli studi interrotti è
l'inizio di una rivoluzione interiore. La vera accoglienza da
parte della nuova insegnante, l'apprezzamento della sua intelligenza,
l'orgoglio di imparare, il gusto della lettura dischiudono una
vitalità tenuta troppo a lungo compressa. La bambina
ha scoperto la sua stella, e si apre alla vita.
“Senza rischi non si cresce e chi non ha mai affrontato
il dolore non ha potuto produrre anticorpi che difendano dallo
sconforto e dalla disperazione”.
Un invito a leggere e ascoltare il bambino che è in noi,
per capire, con partecipazione empatica, chi ci sta accanto,
ma senza impedire a bambine e bambini di confrontarsi con le
difficoltà del mondo reale.
Come in una lunga lettera rivolta a lettrici e lettori, l'autrice
sollecita gli adulti a guardare all'infanzia come un'opportunità:
nonostante tutto, sa trovare le risorse interiori per rafforzarsi
e crescere forte e libera. Bambine e bambini sanno capire come
attrezzarsi per sfidare la precarietà del vivere. E questa,
per gli adulti, è proprio una bella confortante notizia.
Claudia Piccinelli
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