Guardarsi negli occhi
La prima cosa che ho tentato di insegnare alle mie figlie,
quella che cerco di far capire ai miei studenti, quel che mi
preme in ogni conversazione è che si parli guardandosi
negli occhi.
Le due persone coinvolte in ogni dialogo - chi dice e chi ascolta
- devono essere collegate da un ponte di sguardi, perché
questo traduce prima di tutto il rispetto, il riconoscimento
della presenza dell'altro e, da parte di chi parla, il coraggio
di dire e la consapevolezza di quel che si dice. È, questa,
una regola elementare del discorso. Ogni sua effrazione, come
scrive Michel Foucault e come conferma la nostra vita quotidiana,
rivela uno squilibrio, la cui spiegazione più elementare
sta nel mancato riconoscimento dell'esistenza dell'altro, troppo
insignificante o troppo superiore per poter essere guardato.
Perciò
mi colpisce leggere, nell'editoriale del numero speciale del
quotidiano danese Dagbladet Information, commentato da
The Guardian e da Internazionale, che “Per
i politici, i rifugiati sono solo un problema da risolvere il
prima possibile, e molti preferiscono farlo senza mai guardarli
negli occhi”.
Dagbladet Information ha fatto una cosa insolita e, nel
contesto della bizzarra fortezza in cui vorremmo trasformare
l'Europa, straordinariamente efficace nella sua semplicità.
Ha affidato un intero numero del giornale a 12 rifugiati, nel
loro paese d'origine giornalisti di mestiere, facendosi da parte
perché l'Altro potesse parlare con la sua voce.
Ora, la scelta è rivoluzionaria, e mi dispiace che non
se ne parli di più. La prassi consueta, senza dubbio
più frequente nei servizi giornalistici come nelle narrazioni
della migrazione, è l'appropriazione, totale o parziale,
della voce del migrante.
Accade spesso, e forse inevitabilmente, nei reportage giornalistici.
Chi approda alle rassicuranti (ma poi non troppo) coste dell'Europa,
al massimo parla, nelle rappresentazioni, con voce spezzata
o nella elementare e disperata sintassi del pianto. L'oggetto
della rappresentazione giornalistica finisce per essere soprattutto
questo: la disperazione inarginabile di chi ha perso tutto e
per ciò stesso deve suscitare pietà. Pietà,
e solidarietà, e comprensione, non necessariamente accoglienza,
che quella è una cosa più complessa e per metterla
davvero in atto occorre guardare il migrante negli occhi, ascoltare
la sua voce, e non contentarsi della facile assoluzione concessa
appunto dal compatimento. Alla fine, i reportage ottengono questo
risultato primario: ci assegnano un piccolo spazio di “sofferenza
guidata“ e, dopo, una facile assoluzione.
Nelle narrazioni, invece, quel che mettiamo in atto è
un procedimento più complesso, soprattutto quando queste
narrazioni sono la versione romanzata di una storia vera, che
però non è stata vissuta dall'autore, se non in
forma riflessa, ovverosia attraverso le parole di testimoni
o del/la protagonista stesso/a. È un'operazione sulla
quale, personalmente, nutro moltissimi dubbi. E forse la mia
valutazione discende da quello che, lo ammetto, è un
insormontabile pregiudizio. Trovo presuntuoso, sbagliato e,
in ultima analisi, congruente con le forme dell'imperialismo
occidentale, appropriarsi della voce dell'Altro e raccontare
una storia “come se” la si fosse vissuta in prima
persona quando noi davvero, nelle nostre case sicure e nei nostri
contesti protetti, davvero non abbiamo idea, non possiamo
avere idea, al di là dei fatti, di quel che accade in
contesti di guerra, dittatura, repressione, e via dicendo. Occorre,
semmai, trovare il modo di rispettare la distanza, e guardare
negli occhi l'Altro, riconoscergli una voce autonoma, che è
la sua. Non colonizzarla, questa voce, con la pretesa di poter
comprendere.
Per questo trovo straordinaria l'operazione messa in atto da
Daglabet Information. “Di questi tempi in Danimarca
non si parla altro che di rifugiati”, scrive una redattrice
del giornale. “Abbiamo pensato di tacere e lasciare che
fossero loro stessi a dettare il programma. Il risultato è
radicalmente diverso da tutto ciò di cui stanno discutendo
i politici”.
Ed è diverso da quello che pensa l'europeo comune, che
è spaventato e proprio non è in grado di comprendere.
Come si guarda negli occhi una madre la cui figlia è
stata uccisa perché la madre in questione, giornalista,
non si rassegnava a tacere? Io non lo so, e soprattutto non
voglio pretendere di saperlo.
Perciò ascolto.
Guardo negli occhi.
Cerco di non avere paura.
Faccio i conti con la mia incapacità.
Rispetto gli spazi di un dialogo che è infinitamente
difficile, e non liquidabile.
Ora non più.
Nicoletta Vallorani
|