Deficit di storytelling
Quello europeo è un problema di storytelling: la diagnosi arriva da una frase di Alessandro Baricco, circolata sul web dopo i fatti di Parigi, ma in realtà formulata qualche giorno prima, il 15 novembre, in un'intervista realizzata da La Lettura. Parlando dell'ambizioso programma della Scuola Holden di quest'anno, lo scrittore dichiara, più precisamente, che “Noi pensiamo che il problema dell'Europa non sia né economico né politico ma di storytelling. Non abbiamo una buona storia da raccontare e quindi ci incartiamo su problemi politici, economici, burocratici”.
Fermo restando che è sempre difficile estrapolare una frase dal suo contesto e precisando che, appunto, quando l'intervista è stata realizzata, i fatti di Parigi non avevano ancora mostrato con tragica evidenza gli errori delle politiche europee, la frase mi ha fatto pensare. Pur non avendo grande simpatia per il personaggio Baricco, credo gli vada riconosciuto il merito di aver scritto, almeno all'inizio della sua carriera alcuni romanzi tra i più riusciti della letteratura italiana contemporanea. Con ogni probabilità, l'uomo possiede anche un discreto intuito in termini di marketing, quello stesso intuito che gli ha consentito non solo di fondare, ma di mantenere felicemente attiva una scuola di scrittura, in tempi in cui promettere successi in questo ambito, e nel contesto editoriale di oggi, è una specie di operazione di magia.
E però la frase, quando l'ho letta, mi ha lasciata perplessa, e ha rispolverato in me una serie di domande che mi pongo da tempo, e che hanno a che fare con l'utilità di qualcosa che l'Italia, e in modo meno evidente l'Europa, considera del tutto esiziale: la letteratura, la narrazione di storie, e in sintesi il ruolo dello scrittore o, in senso più ampio, dell'intellettuale (a meno che egli o ella non rientri nella catena alimentare di gestione del potere).
La
mia prima reazione
Così mi sono convinta che Alessandro Baricco potesse
saperne di più di me su questo argomento.
Uno sguardo anche veloce sul web fa saltar fuori tesori nascosti,
spesso fasulli ma sempre utili. Ci metto poco a scoprire un'altra
cosa interessante: un Baricco come di consueto sicuro dei suoi
mezzi tiene, in aprile 2015, una lezione “esclusiva”
(qualificata come tale dal giornalista del quale leggo l'articolo,
su Repubblica@scuola) al liceo classico statale Massimo D'Azeglio
di Torino, agli studenti della III F. In coda alla prestazione,
inaccessibile agli esterni ma mandata in streaming per i fan,
Baricco si esibisce in una serie di valutazioni – sempre
riportate nell'articolo di Federico Pace – piuttosto curiose:
dopo aver chiarito che tutto è stato raccontato e che
oggi altro non facciamo che rimodellare storie già esistenti,
stratificandone i significati (opinione del tutto condivisibile),
aggiunge che “Le élite intellettuali sono riconoscibili
proprio dal fatto che hanno consapevolezza di tutte le diverse
stratificazioni di queste storie”. Poi Baricco si fa le
domande e si risponde. Si chiede a cosa serve il liceo classico
oggi, e si replica da solo che “Il liceo classico è
inteso ancora come una scuola mirata alla formazione della futura
classe dirigente del paese, e parzialmente questo è spiegabile
proprio in quel modo lì. Conoscere la riformulazione
della storia, così da conoscere il Dna che cambia della
tua civiltà”.
La mia prima reazione è stata di indignazione: come sarebbe
“èlite intellettuali”? Dove siamo finiti?
In un romanzo di H.G Wells? O in un impero romano prima maniera?
La seconda, di spaesamento: qual è il mondo vero? Quello
in cui ascolto Salvini che inanella parolacce e congiuntivi
raffazzonati nelle sue invettive antislamiche o quello in cui
il mondo è governato da élite intellettuali che
conoscono il DNA che cambia della loro civiltà? Poi ho
provato a votarmi a un analfabetismo di ritorno e mi sono ravveduta
solo quando ho intuito con orrore che esso potrebbe essere considerato
una forma arditissima di sperimentalismo letterario. Infine
sono tornata me stessa, e ho provato a discernere le cose sensate
dalla fuffa, almeno dal mio punto di vista.
E allora ho pensato che è vero, lo sappiamo tutti: non
facciamo che rimodellare le stesse storie, però –
ed è un gigantesco “però” –
il contesto delle storie cambia, e così forse più
delle ricorrenze ha senso la modalità di ricodifica,
la ricostruzione, la riqualifica di Caino, che forse in fin
dei conti qualche piccola ragione per detestare un fratello
perfetto l'aveva. Insomma, dopo la Bibbia non esistono novità,
e questo lo dice con molto più senso anche Erri De Luca,
e però magari se non banalizziamo è meglio, altrimenti
cestiniamo anche Dante, Shakespeare e Gadda. Son discorsi complessi,
Baricco mio, e io credo che tu lo sappia molto bene. Oltretutto,
chi studia da élite intellettuale sa anche che della
strategia del rimodellamento di storie già scritte il
postmodernismo ha già parlato abbastanza, qualcosa come
40 anni fa.
Poi c'è la faccenda dello storytelling, che è
un poco più complessa. Non ho la lungimiranza di Baricco,
il suo sguardo ampio sulle contingenze contemporanee, e non
mi spingerei a leggere le implicazioni di un deficit di storytelling
nelle svolte delle politiche europee di questi anni. Però
confesso di aver riflettuto anch'io un poco, seguendo percorsi
totalmente diversi, su questa faccenda dell'importanza del narrare.
Un metodo diverso
I miei studenti studiano Mediazione linguistica e culturale.
Ci sono tanti stranieri, molti dei quali parlano italiano meglio
di me, ma altri lo controllano poco e male. Tutti, o quasi,
arrivano da percorsi scolastici di tipo tecnico o professionale.
Tutti sanno che a Mediazione non vi è un insegnamento
letterario con questo nome, sebbene io mi ostini a far leggere
alcuni capolavori irrinunciabili della letteratura inglese,
come le opere di Shakespeare o quelle di Conrad. Anche se adoro
le mie matricole, devo ammettere che di rado mi riesce di far
sì che leggano Heart of Darkness per intero, o
che vadano a guardarsi nel dettaglio cosa racconta il Macbeth.
Quest'anno ho pensato che valesse la pena tentare un metodo
diverso, e fare quello che mi piace di più: raccontare
storie invece di compilare complessi .ppt teorici. Provare ad
affascinare il mio pubblico studentesco non semplicemente con
percorsi di analisi per il romanzo in questione, ma raccontarlo
come una storia, lasciando trasparire la passione, usando le
strategie della suspense, e costruendo i personaggi come fossero
uomini e donne.
E vi dico una cosa: funziona. Funziona per un motivo elementare,
che in parte sta dentro le parole di Baricco: raccontare storie
non si usa più. Questi ragazzi non conoscevano neanche
la favola di Barbablù, figuriamoci se potevo raccontagli
la versione femminista di quella stessa storia. E a raccontare
prima una versione e poi l'altra, li ho visti incantarsi molto
di più che davanti a uno schermo.
Così ho pensato che sì, questa faccenda di recuperare
lo storytelling è vera. Magari stiamo attenti
a non pensare che abbia dirette implicazioni politiche ed economiche.
Ma forma persone. E le forma non soltanto, come parrebbe ritenere
Baricco, nelle élite intellettuali. Per fortuna.
Nicoletta Vallorani
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