No Tav
Tra memoria e lotte
di Maria Matteo / foto di Luca Perino
Dal 4 all'8 dicembre scorsi si è ricordato in Val Susa - con varie iniziative di lotta, festa, confronto, memoria - il decimo anniversario della rivolta popolare che aveva smontato le recinzioni del cantiere a Venaus. Cronaca e riflessioni di un'esponente della Federazione Anarchica Torinese.
Ogni settimana qualcuno va a
Chiomonte. Il mercoledì e il venerdì si mangia
ai margini della zona occupata, si gioca a bocce quadre, si
tentano incursioni all'interno. Almeno una sera a settimana
i No Tav dell'NPA - il Nucleo Pintoni Attivi - prendono il sentiero
da Giaglione e raggiungono il terreno di fronte al cantiere.
Non c'è bisogno di illuminazione. I fari sparano luce
come allo stadio durante la partita. Ma non siamo allo stadio,
anche se dentro è pieno di poliziotti e carabinieri:
il filo spinato, le recinzioni, i blindati lince, i soldati
ci ricordano che siamo in zona occupata.
Sotto la tettoia i No Tav mangiano, chiacchierano, bevono un
bicchiere: quando fa freddo ci si scalda con un buon fuoco.
Poi si ritorna indietro. Prima di partire i No Tav si fermano
di fronte alle recinzioni e fanno battiture, slogan, canti.
Ormai da qualche mese la polizia risponde, mettendo in azione
l'idrante e sparando lacrimogeni. Non importa che il nucleo
duro sia costituito da un gruppo di arzilli ultrasessantenni.
La polizia non fa sconti a nessuno.
Alla fine dell'estate di notte qualcuno ha tirato petardi e
chiuso i cancelli. La prima volta i ragazzi fermati dalla polizia
sono finiti per tre giorni alle Vallette. Qualche giorno dopo
sotto i cappucci la polizia ha pescato una banda di valligiani
tra i sessanta e gli ottant'anni. I media hanno ridotto la sfida
degli over 60 a una goliardata, per non ammettere che l'azione
diretta è patrimonio di tutti e da tutti viene approvata
e praticata.
Da allora anche le banali battiture dopo le cene vengono gasate
e bagnate.
Eppure nessuno molla. Si torna sempre sui propri passi, sebbene
si sia consapevoli che non si inceppa così il treno,
tuttavia nessuno vuole che vinca la narrazione che vorrebbe
la valle pacificata. La rassegnazione è il peggiore nemico
del movimento. Vale la pena di rischiare doccia e aerosol.
Alle 4 del mattino, gli idranti
Per l'8 dicembre, decimo anniversario della rivolta popolare
che aveva smontato le recinzioni del cantiere a Venaus e obbligato
il governo a fare dietro front, il movimento ha dato vita a
cinque giorni di iniziative di lotta, festa, confronto, memoria.
Si è cominciato il 4 dicembre. Un centinaio di No Tav
imbacuccati per la notte si ritrovano al campo sportivo di Giaglione.
Un sorso di grappa, due castagne al cioccolato e si parte direzione
del cantiere della Clarea. In fondo, prima del piazzale che
precede il sottopasso per l'autostrada, la polizia ha piazzato
i jersey. Dietro si scorgono uomini in armi e un idrante pronto
ad entrare in azione.
Un grosso bidone viene riempito di legna e presto il tepore
scalda questa notte che ancora ha sapore d'autunno. Dieci anni
fa si presidiava in mezzo alla neve.
Anche al bivio da cui si dipana il sentiero alto c'è
un fuoco. Tante torce sono infilate nei muretti a secco per
illuminare il cammino.
La polizia è piazzata anche sui sentieri. I caschi brillano
mentre scendono verso i No Tav, sferzando la notte con i loro
fari. Sono nervosi.
Il fuoco lungo il sentiero alto è una barriera che gli
preclude il pieno controllo del territorio. Sparano a più
riprese lacrimogeni. L'aria si riempie di gas.
Un ragazzo viene colpito al petto da un candelotto e si accascia,
ma dopo poco si rimette in piedi.
I No Tav si spostano senza fretta, con la pacatezza di chi è
ormai avvezzo alla violenza di Stato.
Nella valle risuonano canti e slogan.
Sui sentieri che portano al cantiere, ancora una volta vietati
ai No Tav per i cinque giorni di lotta e memoria nel decimo
anniversario della rivolta di Venaus, i No Tav vegliano. Qualcuno
va via, altri arrivano. La notte è ancora lunga.
Alle 4 del mattino entra in azione l'idrante, la polizia prova
ad identificare gli ultimi rimasti, che resteranno al bivacco
sino al pomeriggio successivo quando arriva un altro gruppo
a rinforzare il presidio. Poi si va tutti a Venaus.
La domenica è il giorno della memoria. Nel salone della
Borgata “8 dicembre”, costruita dal comune di Venaus,
al posto del cantiere, ci si ritrova per mettere insieme le
narrazioni, i ricordi. La Storia l'abbiamo sentita tante volte,
al punto di aver scordato di averla fatta. Le storie, quelle
minuscole, quelle di chi c'era e ne sa un pezzo, sono ben diverse.
Sono impastate di entusiasmo, paura, esaltazione, ironia. Una
sorta di bildungsroman collettivo. In tutte c'è un “prima”
e c'è un “dopo”. C'è chi racconta
del bivacco e del caffè offerto ai poliziotti, nemici
ma umani, prima della rabbia della notte di Venaus. Una ruspa
con un vicequestore mai dimenticato, Sanna, quello che gridava
“massacrateli tutti!” impartì a tanti un
corso accelerato di dottrina dello Stato. Da quella notte, la
notte dello sgombero violento della Libera Repubblica di Venaus,
nessuno ha più allungato un caffè ad una persona
in divisa.
La foto di Patrizia l'hanno vista tutti. Venne pubblicata dai
tutti i giornali. L'espressione di indignato dolore nel suo
sguardo era la cifra esatta di quella notte di sangue e dignità
calpestata. Patrizia in quei giorni era sempre al presidio.
Per un incidente d'auto aveva il collare e non andava a lavorare.
Nella foto è ritratta con il sangue che le cola sul viso,
sul collare bianco: una manganellata in testa fu per lei lo
spartiacque. Prima era una “madama”, che fidava
nell'ordine costituito e nella giustizia, un minuto dopo il
senso delle cose era cambiato.
Luca aveva vent'anni e non disse ai suoi dove trascorreva quelle
notti. Era di quelli che parlano poco e hanno poca confidenza
con il mondo. Intorno al fuoco di Venaus strinse le relazioni
che ne avrebbero cambiato la vita. Il suo racconto è
un misto di ironia, specie verso se stesso: gli sbirri che faticano
a passare un ruscelletto, le botte, la faccia schiacciata in
terra da uno scarpone sono narrati senza enfasi ma con grande
vivacità.
Io ho provato a raccontare la meraviglia di vedere, finalmente
nella vita, il tempo sospeso di una rivolta popolare vera. La
criminalità del potere mi indignava, ma non mi stupiva.
Le barricate, immaginate ma mai viste, invece sì. Ho
imparato tante cose in quei giorni. Il tempo della rivolta spezza
la normalità e muta gli sguardi, le pratiche. In quei
momenti cresce la consapevolezza che il dominio si alimenta
della nostra paura, che la gerarchia si spezza quando le persone
prendono in mano le proprie vite. La rivolta, il blocco rendono
concrete aspirazioni, progetti, idee sedimentate nel tempo.
Venaus non fu un lampo nel deserto, perché il terreno
era stato arato per decenni, perché il filo rosso della
memoria della Resistenza e delle lotte degli anni Settanta non
si era mai spezzato, perché il “no” al treno
era condito dall'aspirazione a relazioni politiche e sociali
immaginate e desiderate.
La notte di Venaus le campane suonarono per svegliare chi dormiva
o si era assopito. Un sonno che per alcuni era durato una vita,
divenne un risveglio con il sapore dell'aurora.
La sfida è sempre la stessa
Martedì 8 dicembre 2015 il corteo cresce con il trascorrere
delle ore. Quando arriviamo nella piana di Venaus siamo diverse
migliaia. È il giorno dell'orgoglio di chi, nonostante
la violenza quotidiana, nonostante gli arresti, nonostante l'occupazione
militare, resiste ogni giorno.
A Susa, di fronte all'hotel Napoleon, che ospita da anni le
truppe di occupazione, slogan e fumogeni. Dal roccione sulla
città viene calato un enorme striscione “Terrorista
è lo Stato. No Tav liberi!”. Dal balcone di una
casa un altro striscione ricorda i ragazzi del compressore.
Poi cibo, musica, racconti.
A Venaus dieci anni fa abbiamo vinto. La violenza di Stato di
questi ultimi cinque anni ha cercato di offuscare la memoria
di quella vittoria, di spezzare la fiducia, di alimentare la
convinzione che si trattasse di un evento irripetibile. Non
ci sono riusciti. I tempi sono mutati ma la sfida è sempre
la stessa. La posta in gioco è tuttavia più alta,
perché l'aurora è passata ma ne portiamo in spalla
il fardello di responsabilità. L'8 dicembre c'era tanta
gente da fuori, dai tanti luoghi di lotta alimentati dal vento
forte che spirava da quest'angolo di Piemonte.
Lo Stato cerca di imporre la pacificazione ma ha paura. La banda
Renzi ha dimostrato che il timore di una rivolta popolare non
è ancora sopito. Altrimenti non avrebbero scelto di ampliare
il cantiere/fortino di Chiomonte, facendo partire i lavori del
tunnel di base nel cuore della montagna, nel punto di innesto
con la galleria geognostica oggi in costruzione. Il nuovo progetto
è più costoso e più rischioso. Ha un unico
vantaggio: rendere più difficile la resistenza.
La decisione di scavare il tunnel dalla montagna sta imponendo
una riflessione sulle strategie di contrasto al cantiere e all'occupazione
militare. La scommessa di tanti di mantenere salda la natura
popolare e, insieme, la scelta di lotta non simbolica, non è
facile da tradurre in pratiche condivise. Le questioni di metodo
hanno innescato un dibattito, che a volte è molto acceso,
perché pur non intaccando la sostanza, ossia la necessità
di una lotta popolare ed incisiva, ha mostrato qualche difficoltà
nel definire il ruolo delle minoranze agenti.
Un ruolo importante, perché ha dimostrato la volontà
di tutti di contrastare attivamente i lavori. I No Tav non hanno
mai accettato di ridursi a meri testimoni dello scempio, a semplice
movimento di opinione. Lo dimostra il sostegno attivo agli attivisti
arrestati e condannati per aver partecipato a blocchi, sabotaggi,
scontri.
La scommessa per i prossimi mesi è ridurre la distanza,
che inevitabilmente diventa delega, tra le minoranze agenti
ed il grosso del movimento popolare. Nel 2005 vincemmo perché
tutti divennero protagonisti attivi della lotta. Dietro alle
barricate, in mezzo all'autostrada, a buttare giù le
reti c'eravamo tutti. Il governo ha paura che la storia si ripeta,
ha paura di perdere il controllo di un territorio, teme chi
sperimenta la pratica dell'autonomia dai poteri costituiti.
Non per caso – a distanza di tanti anni – il ricordo
è ancora emozione viva, sapore di polenta, bivacco tra
i lacrimogeni, un sorso d'acqua allungato da uno sconosciuto
quando la gola brucia troppo.
Maria Matteo
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