Globalienazione/
La vita stampata su una banconota
Disobbedire è possibile?
Lo scollamento con il mondo politico e l'apparente onnipotenza
del mondo della finanza sembrano inevitabilmente indirizzare
il singolo soggetto/cittadino ad uno stato di perenne sconforto
e di impotenza, quell'impotenza che può essere riassunta
nella frase. “È questa la situazione, non posso
fare niente per cambiarla, per quanto io mi sforzi”.
Tale scoramento è chiaramente avvertibile in tutte le
forme antagoniste di dissenso, incluse quelle che si dichiarano
estreme, che sembrano ipotizzare azioni di forza più
per frustrazione che per autentica progettualità politica.
Come del resto sorprendersi? L'alienazione del terzo millennio
è generata dalla sensazione che ci sia un nettissimo
scollamento tra ciò che succede attorno a noi e la nostra
impossibilità – pur in un contesto nominalmente
“democratico” – di influenzarlo in qualche
modo; e per di più è acuita dalla percezione che
il nostro nemico sia invisibile (e quindi inaffrontabile e invincibile)
e al contempo strabordante, perché include tutti i nostri
simili, e addirittura include noi stessi1.
Come si combatte “la finanza”? O gli oligopoli?
Come si combattono quelli che, pur trovandosi nella nostra stessa
identica situazione, non avvertono la necessità di un
cambiamento? Come si combatte quella parte di noi stessi che
ci sussurra maligna “è inutile affannarsi, non
cambierà niente”, oppure “chi ti dice che
il cambiamento non sarà per il peggio”?
Queste spinose domande sono il cuore di un dibattito che possa
considerarsi a pieno titolo “politico”, permeate
come sono di un senso che lambisce anche l'esistenziale della
collettività.
Rispondere a queste domande è assai complicato, anche
se non impossibile.
A nostro parere, per cercare di dipanare questa apparentemente
inestricabile matassa, si deve per forza di cose cercare di
fare un passo indietro e provare a sviscerare il cuore del problema
(the core, per dirla all'inglese), analizzandolo da una
prospettiva differente.
Il mondo gira su una monetina
Gli appassionati della fantascienza anni ‘70 ricorderanno
sicuramente il film di Michael Crichton del 1973, Il mondo
dei robot, pellicola il cui tema principale era la rivolta
degli androidi contro l'uomo; tale tema è molto presente
nella fantascienza del ventesimo secolo (si pensi, giusto per
fare un nome altisonante, al Kubrick di 2001 Odissea nello
Spazio) e che banalizzando si può riassumere in “È
possibile che qualcosa creato dall'uomo possa ribellarsi contro
di lui? Che diventi così potente da minacciare la sua
stessa esistenza?”.
Trasliamo questa domanda in un ambito differente: la finanza,
e ancor prima il denaro, sono creazioni dell'uomo. Come diavolo
è possibile che la finanza, il denaro siano diventati
così potenti da determinare così prepotentemente
la nostra vita?
Su un piano puramente razionale, dire che non possiamo fare
qualcosa perché “non abbiamo i soldi” corrisponde
a dire “non posso uscire stasera perché sennò
la mia lavastoviglie si sente sola”. La nostra vita è
influenzata da uno strumento, che noi stessi abbiamo inventato,
e che è in grado di condizionare la nostra (vera o presunta)
felicità o soddisfazione.
Da quando il mondo va in questa maniera? Quando il denaro è
diventato lo strumento apparentemente unico e indispensabile
per la gratificazione personale?
È facile rispondere “da sempre”, ma sarebbe
altrettanto corretto sostenere che “non è mai stato
così”; pur all'interno di un contesto politico/culturale
capitalista, che veicola un immaginario popolato unicamente
dal “nasci-consuma-produci-crepa”, gli interstizi
per opporsi a questa ottica sono ben presenti, e proprio tali
interstizi rappresentano una via prioritaria di reale antagonismo.
Una politica da quattro soldi
Pensiamoci: le forze politiche di opposizione più consistenti
in Italia, ovvero il M5S, FI e la Lega, basano le loro rivendicazioni
soprattutto sul concetto che lo Stato “mette le mani in
tasca ai cittadini”, e che l'azione politica debba essere
rivolta “contro gli sprechi”. L'opposizione che
va per la maggiore, oggi, parte da una monetarizzazione dell'ideologia,
che consiste nello spingere il cittadino a votare l'una o l'altra
forza politica in base ai vantaggi economici che potrebbe riceverne.
La cosa più paradossale – almeno agli occhi di
chi non sia anarchico, e quindi avvezzo alle dinamiche insite
al potere in sé – è che anche i partiti
di governo hanno operato questa monetarizzazione dell'ideologia,
e anch'essi si richiamano ormai unicamente al rigore nei conti,
ai tagli, alla lotta agli sprechi, magari concedendo un po'
di più, rispetto alle opposizioni, a quegli aspetti marginali
dei diritti civili che fungono da patetica maschera e belletto
messi su per differenziarsi dall'opposizione.
The ILVA paradox
Che la monetarizzazione esistenziale sia diventata il caposaldo
dell'ideologia capitalistica contemporanea lo dimostra quanto
accaduto negli stabilimenti dell' ILVA: la cittadinanza di Taranto,
chiamata a decidere direttamente, tramite referendum, sulla
chiusura dello stabilimento altamente inquinante, ha deciso
di disertare i seggi, quasi che la questione non la interessasse.
In realtà la questione interessava sì la cittadinanza,
ma tra l'alternativa di chiudere o mantenere operativa un'industria
che, seppur gravosa per la salute propria e dei propri figli,
permetteva ad una fetta della popolazione di avere un lavoro,
i tarantini hanno – nel migliore dei casi – optato
per un silenzioso assenso e avallo alle pratiche di smaltimento
illecito operate nello stabilimento, nel peggiore sbraitato
ai quattro venti che i colpevoli della crisi dell'ILVA sono
i giudici e non gli amministratori delegati dell'azienda.
Come a dire: i soldi ora, subito, a qualsiasi costo, sia pure
la stessa vita mia, dei miei figli, della cittadinanza tutta.
Il consumo prima di tutto.
Il culto del denaro, tipico del capitalismo, racchiude in sé
anche la necessità di quel sentimento di disperazione
che si deve provare a non possederlo, ed effettivamente
è la disperazione il sine qua non del capitalismo
globale odierno: è la disperazione il motore che spinge
una società ad autodivorarsi in nome di un idolo, i soldi,
che senza un immaginario globale che lo alimenta non è
niente di più che un oggetto vuoto e privo di senso.
Il tempo è denaro?
Ora, a nostro parere, se di opposizione reale si vuole parlare,
bisogna necessariamente uscire dall'ottica monetaria, non nel
semplice senso di dirsi contrari allo strapotere della finanza
o della BCE (slogan che caratterizzano anche la fittizia opposizione
partitica), ma proprio dal punto di vista concettuale. I soldi
non devono più far parte del dibattito ideologico, non
devono nemmeno essere nominati. I soldi sono uno strumento (di
oppressione, per di più), non hanno posto all'interno
di una prospettiva politica differente: lottare per fare avere
80 Ä in più in busta paga, o per il reddito di cittadinanza,
non ha senso, serve al limite a creare nuovi consumatori coatti
e nuove divisioni (tra cittadini di serie A e di serie B, tra
comunitari ed extracomunitari).
Si deve lottare per delle idee. E si deve lottare in ogni ambito
della propria vita individuale, a casa, a scuola, al lavoro,
senza compartimenti stagni e senza ambiguità e ipocrisie.
Perché per quanto paradossale possa sembrare, la monetarizzazione
della nostra vita ha come principale obiettivo quello di strozzare
sul nascere le idee, attraverso una semplice operazione: annullare
il nostro tempo individuale. Pensare ai soldi occupa buona parte
del nostro tempo, ma anche utilizzare i prodotti comprati con
il denaro ci toglie tempo, toglie tempo all'elaborazione, alla
socializzazione, al confronto: sono questi ultimi gli unici
spazi che ci consentirebbero, sottraendoci al condizionamento
perverso del sistema esistente, di inceppare in qualche punto
il meccanismo attuale di potere.
Igor Cardella
Palermo
1. Come ho scritto in
A 400, come è possibile sentirsi “assolti”
quando noi stessi usufruiamo, direttamente o indirettamente,
dello sfruttamento altrui?
Dibattito
ricerca scientifica
Continua il dibattito sulla ricerca scientifica iniziato
con l'articolo di Philippe
Godard apparso su “A” 397 (aprile 2015). A quell'articolo
sono seguiti gli interventi di Marco Cappato (“Ricerca
scientifica. Altro che bloccarla, lottiamo per la sua libertà”,
“A” 399 - giugno 2015), Philippe Godard (“Il
blocco è necessario. Mancano saggezza ed etica”,
“A'” 399 - giugno 2015), Lorenzo Coniglione (“Appropriarsi
della scienza”, “A” 401 - ottobre 2015),
Massimiliano Barbone (“Ma
la scienza va socializzata”, “A” 401 -
ottobre 2015), Philippe Godard (“La
scienza è legata ai sistemi di dominio”, “A”
403 - dicembre 2015-gennaio 2016).
Dibattito ricerca scientifica.
7/ Per una tecnologia della liberazione
Il dibattito sulla ricerca scientifica ha esplicitato un elemento
ampiamente condiviso: la necessità di “indirizzare
la scienza verso una politica di non dominio”, per utilizzare
le parole di Godard.
Rimane controverso il modo per farlo. Fermando la ricerca o
favorendo un suo sviluppo diverso? Propendo per la seconda soluzione,
senza comunque nascondermene gli elementi velleitari (presenti
però, mi pare, anche nella prima soluzione).
In primo luogo, se la scienza è legata ai sistemi di
dominio, lo è perché ne riceve il finanziamento
indispensabile. Non per altro e, soprattutto, non perché
il metodo scientifico sia in sé intrinsecamente autoritario.
È vero anzi il contrario (come giustamente ricorda anche
Fabio Esposito su “Umanità Nova”, n°
32, nel suo articolo Il metodo scientifico come strumento
di liberazione e di lotta): il metodo scientifico, pur con
i limiti derivanti dal fatto di essere finalizzato a conoscere
solo un certo aspetto (quello quantitativo, regolare, uniforme)
della realtà, è comunque un potente strumento
di demistificazione e di critica di ogni autorità (ivi
compresa l'autorità dei baroni della scienza e di chi
li sostiene).
In secondo luogo, già oggi esistono ricerche ed applicazioni
che lasciano intravvedere potenzialità libertarie. Qualche
esempio: impianti solari più efficienti, che consentono
la generazione e distribuzione diffusa e decentrata dell'energia;
la stampa 3D, che a breve renderà possibile la nascita
di un vero e proprio “artigianato digitale”, coniugando
la standardizzazione e quindi la diffusione universale del prodotto
industriale con l'originalità di quello artigianale;
il software Open Source, sviluppato da “community”
di programmatori ed utenti autogestite e fondate sul contributo
volontario e la condivisione; la ricerca biomedicale, svincolata
dalle limitazioni imposte dai brevetti (interessante, in merito,
il bel testo di Alessandro Delfanti Biohacker, edito
da Eléuthera).
In terzo luogo, poiché oggi la scienza è asservita,
mi sembra irrealistico pensare di frenarla o svilupparla diversamente
senza porre in discussione il sistema del quale è al
servizio. In tale complessiva contrapposizione, può anche
inserirsi il sostegno (raccolta fondi, diffusione delle conoscenze,
utilizzo delle applicazioni derivate) alle ricerche che, dal
punto di vista libertario, possono essere funzionali alla liberazione
degli individui (in primo luogo, dal dolore e dalla fatica).
In tal senso un movimento per una “tecnologia della liberazione”,
dovrebbe orientarsi secondo alcuni criteri di fondo:
- orientamento ai bisogni (ed ai desideri), non al mercato:
la tecnologia deve mettere gli individui e le comunità
in condizione di produrre quello che serve direttamente a loro;
- apertura: condivisione del sapere e delle sue ricadute applicative;
critica pubblica, lavoro collaborativo dei ricercatori, contributo
di tutti gli interessati (ritengo per inciso che il movimento
Open Source nel software dovrebbe essere oggetto di maggiore
attenzione ed in tal senso mi permetto anche di sollecitare
la nostra rivista a dedicargli un po' di spazio nelle sue pagine);
- autogestione: nelle linee di ricerca, nella conduzione dei
laboratori, delle officine tecniche, nella creazione di spazi
condivisi di “artigianato digitale”;
- decentramento: la tecnologia deve essere impiegata per incentivare
l'autonomia, non la dipendenza. Un esempio: l'autoproduzione
di energia elettrica; la costruzione di oggetti adatti alle
proprie personali esigenze con la stampa 3D.
Si tratta, ovviamente, solo di indicazioni parziali e comunque
soggette a tutte le limitazioni che ostacolano ogni nostra iniziativa
politica; non per questo, però, il nostro movimento può
ignorare i possibili sviluppi positivi della scienza per assumere
esclusivamente un atteggiamento di contrapposizione.
Massimiliano Barbone
Bergamo
Dibattito ricerca scientifica.
8/ Diversi modi per spiegare il mondo
Condivido con piacere il mio punto di vista riguardo al dibattito
su Scienza e Ricerca scientifica: premetto che la mia posizione
iniziale ha avuto modo di cambiare nel corso di questi ultimi
mesi, non ultima la lettera
di Massimiliano Borbone sul numero di “A” di
ottobre (n. 401) mi ha aiutato ad incentrare la riflessione
non tanto sull'utilizzo che viene fatto della scienza nel mondo
postmoderno quanto della sua intrinseca natura libertaria e
di emancipazione. Sono innegabili gli incredibili sviluppi sociali
approntati dalla scienza al mondo e alla società nel
corso di questi secoli così come è innegabile
la natura profondamente “Libertaria” del metodo
scientifico.
Bisogna tuttavia prendere coscienza di elementi che non sempre
coloro che ripongono totale fiducia nel metodo scientifico (e
questo è dettato dal tipo di socializzazione che hanno
avuto con l'argomento) tendono a considerare.
Anzitutto la necessità di applicare alla Scienza stessa
la sua stessa metodologia: la falsicabilità, la verificabilità,
la riproducibilità. A mio parere una visione più
“aperta” e “democratica” possibile del
metodo richiederebbe una costante messa in discussione anche
al di fuori di quello che è il paradigma scientifico.
Non ritengo corretto la creazione di una “auto-ghettizzazione”
del metodo e dei suoi fautori dai fattori, e dai fatti, che
non possono essere spiegati attraverso il metodo ma che fanno
parte della realtà quotidiana. Pongo un esempio: Il paradigma
scientifico non riesce a spiegare il volo, a livello fisico,
di un calabrone mentre riesce invece a inviare sonde nello spazio
e a far volare gli aerei. Questo ovviamente non invera le teorie
che permettono il volo degli aerei ma crea il presupposto per
una soluzione “esterna” al paradigma scientifico
o, quantomeno, non rientrante nella categorie con cui il metodo
“spiega” il mondo. Da qui la necessità, a
mio parere, di ampliare il proprio raggio di azione e di vedute
e di mettere in campo un'”umiltà” nella stessa
ricerca. Andiamo sulla luna ma non riusciamo a spiegare il volo
degli insetti.
Un secondo elemento molto importante (che si ricollega al discorso
sulla “Umiltà” della ricerca) è
la prospettiva culturalista attraverso la quale noi osserviamo
e valutiamo questa argomentazione. La medicina moderna di stampo
occidentale ha il “Monopolio” nello studio, nella
ricerca e nella cura in quanto costituita da un metodo scientifico
inattaccabile. Tuttavia esistono molte altre culture sparse
per il mondo che utilizzano metodi e medicine differenti e che
“noi” tendiamo sempre a bollare come “mistiche”,
“spirituali”, “primitive” per delegittimare
metodi differenti da quello scientifico. La maggior parte di
coloro ai quali poni una questione di questo tipo risponde “se
i mezzi che utilizzano non sono riconducibili a ricerche che
si basano su falsificabilità, verificabilità e
riproducibilità ( non si attengono quindi al “Nostro”
metodo scientifico) si tratta solo di credenze e superstizioni”.
Riprendo il concetto di umiltà per sottolineare come
il fatto che le “loro” ricerche non rispondano al
“nostro” metodo pone la “loro” medicina
in subordinazione alla “nostra”. Come se una tribù
Mongola o un villaggio sperso nella Cina o nelle Ande dovesse
stilare una ricerca che rispetti in toto i parametri del nostro
metodo per venirci a dimostrare che anche loro hanno ragione
e hanno diritto a curarsi come vogliono senza essere bollati
come “primitivi”. L'esclusione aprioristica di metodi
differenti da quello scientifico occidentale fa cadere quella
visione olistica del mondo che dovrebbe essere alla base di
ogni riflessione libertaria, così come l'esclusione totale
di teorie non riconducibili al nostro metodo sembra rendere
“meno democratico” tutto il discorso che stiamo
facendo. L'umiltà dovrebbe risiedere nell'accettare le
diverse prospettive di studio, anche se basate su metodi totalmente
diversi, altrimenti si rischia di cadere in un dogmatismo esasperato
che potenzialmente potrebbe finire col riempirci a vita di pastiglie
e vaccini in nome della ricerca e del metodo.
La verità sul mondo non la conosciamo e non la conosceremo
mai, mettiamoci il cuore in pace. Siamo tutti nella stessa barca
e finché non inizieremo a remare tutti nello stesso verso
accettando le differenze di metodi e di prospettive finiremo
a scannarci su “questioni sul metodo” solo perché
nessuno è disposto ad accettare l'impossibilità
di una spiegazione unitaria del mondo. Ben venga il metodo scientifico,
ben venga l'omeopatia, la medicina orientale e quella africana.
Sono linguaggi e lenti da vista con i quali ognuno, a modo suo,
vede e spiega il mondo. Pretendere che la “Nostra”
medicina prevalga sulle altre in quanto l'unica a rispettare
i “Nostri” parametri temo che potrebbe portare ad
un altro dogmatismo di cui non abbiamo il minimo bisogno.
Un abbraccio,
Gabriele Lugaro
Savona
Dibattito Isis/L'Occidente
è vittima?
I media, soprattutto di fronte a tragedie, uniformano il messaggio,
cancellano la dialettica il buon senso. Stragi e guerre accentuano
la standardizzazione della informazione che, anche quando non
ci sono drammi, lascia uno spazio minimo alla divergenza sostanziale
di opinioni. Quando i morti sono tanti, si gioca facilmente
su emozioni e paure, per rafforzare le identità ed accendere
sentimenti di amore (per il gruppo con cui si è chiamati
ad identificarsi) e odio (per i “nemici”). Queste
dinamiche di accentuazione dell'appartenenza, con conseguente
ostilità per “gli altri”, sono ricorrenti
nella storia; coniugate con la violenza collettiva, organizzata,
orchestrata da Stati e eserciti, spesso conducono a genocidi,
guerre, campi di sterminio.
Se ci si identifica solo con le vittime “nostre”,
chi commette la strage diventa semplicemente un mostro, fuori
dai canoni di una comune umanità, protagonista di brutalità
bestiale e incomprensibile. Che senso dare alla violenza stragista
che ha colpito la Francia? Siamo vittime di un male insensato,
incomprensibile, di cui non abbiamo alcuna responsabilità,
frutto impazzito di un integralismo disumano? Sembrano andare
in questa direzione le reazioni isteriche di politici e giornalisti.
È un messaggio facile, che impone l'adesione e non richiede
esami di coscienza: i cattivi sono gli altri. Ragionare così
impedisce di chiedersi perché l'Europa e gli Stato Uniti
siano odiati in diverse parti del mondo, perché diventano
bersaglio di violenze. Nonostante ai politici piace presentare
l'Occidente come la culla di democrazie garanti di libertà
e giustizia, promotrici di pace e sviluppo, non è questa
la visione che, in genere, si ha dei “nostri” governi
in altre parti del mondo. Se si avesse la capacità di
guardarci con gli occhi degli altri e di ascoltare le ragioni
della violenza che subiamo, ci renderemo conto che la “nostra”
narrazione degli eventi è arbitraria, faziosa, mistificante.
Controcorrente, mi assumo il compito di ricordare che Europa
e Stati Uniti, nelle relazioni con altri parti del mondo, non
sono stati, nel complesso, vittime ma piuttosto carnefici. Gli
Europei sono tra i principali protagonisti del commercio di
oltre una decina di milioni di schiavi africani. La preponderanza
militare generata dal perfezionamento degli strumenti bellici
ha permesso agli eserciti europei di esportare morte, massacri,
sottomissione, dominio, lavori forzati, ed instaurare il dominio
coloniale in ampissime parti del globo tra il Cinquecento e
il Novecento. Al massacro dei popoli colonizzati sono seguite
condizioni umilianti di resa. In Ghana, area che conosco bene,
ad esempio, bruciano la capitale, fanno esplodere il mausoleo
con i resti dei sovrani, pretendono che siano consegnati gli
oggetti più sacri. Non è un caso limite ma la
regola. Colonialismo e razzismo sono state le giustificazioni
politiche e genetiche della perdurante inferiorizzazione di
interi continenti.
Il passaggio dal colonialismo all'imperialismo non ha alterato
la sostanza di un dominio, apparentemente meno evidente, ma
ugualmente senza scrupoli, che non ha avuto remore a sostenere
colpi di Stato contro governi eletti e ad appoggiare dittatori
assassini. Il neocolonialismo neoliberista, sotto la retorica
dello sviluppo e delle riforme strutturali ha depredato risorse,
devastato territori e tagliato servizi sociali. Mentre le popolazioni
di alcuni continenti languono in terre sempre più sterili
o in discariche tossiche, benessere, comodità, agio e
potere si accumulano dove si esercita il dominio militare. La
ricchezza non può che generare invidia e ostilità
quando è evidentemente il risultato di flussi commerciali
iniqui, di uno squilibrio di potere che si alimenta con il sudore
dei più deboli, con la progressiva spoliazione del loro
ambiente.
A tutto questo, in Medio Oriente e Africa Settentrionale, si
aggiunge la sistematica tendenza a bombardare e invadere a piacimento,
scatenando guerre e instabilità che durano per decenni:
Somalia (1992-1993), Afganistan (2001-), Iraq (2003-), Siria
(2011-), Libia (2011-). Campagne militari decise ed orchestrate
in Occidente che mietono vittime tra i civili ed alimentano
spirali di violenza con la speranza di generare un governo amico
o il controllo su una risorsa strategica. Chiaro i governi europei
e statunitensi non sono gli unici responsabili: trovano complici
e nemici ugualmente sanguinari nei capi e nei governi locali.
Eppure, rispetto ad altri attori del conflitto, i potenti governi
occidentali hanno l'aggravante di essere vissuti come invasori;
di condurre una guerra aerea che semina morte indiscriminatamente;
di assumere atteggiamenti verso le popolazioni locali che oscillano
tra il disprezzo e il paternalismo; di essere invariabilmente
tra i maggiori fornitori di armi alle parti in conflitto. L'illusione
che si possa seminare terrore in giro per il mondo e confinarlo
altrove è stata smascherata: le tragedie alimentate in
giro per il mondo bussano alla porta di casa.
Il trattamento degradante dei migranti accentua il senso di
ostilità per l'Occidente opulento, che respinge, costringe
a viaggi insicuri, perseguita i rifugiati, ingabbia i profughi
e poi li costringe all'ozio forzato. Il senso di discriminazione
sociale ed economica permane nelle generazioni che crescono
in Europa, rinchiuse in ghetti, continuo bersaglio di discorsi
e atteggiamenti razzisti, privati di opportunità e riconoscimento.
Non sorprende che buona parte degli attentatori parigini siano
nati e cresciuti in Europa, in reti sociali perseguitate dalla
polizia, emarginate dai servizi sociali, sfruttate dal capitale.
Le categorie marginalizzate e vilipese, alla lunga, rispondono
al disagio con la strage indiscriminata.
Quale è il valore dei morti occidentali (i tremila del
11 settembre a New York e i centotrenta dello scorso novembre
a Parigi) rispetto a quelli che causano gli eserciti dei “nostri”
stati democratici? Quanto valgono le centinaia di migliaia di
vittime della guerra in Iraq, solo nei primi anni del conflitto,
o le decine di migliaia in Afganistan o i tremila morti annuali
di migranti che cercano di attraversare il Mediterraneo rispetto
ai morti che sentiamo più vicini? Le guerra è
sempre terroristica: sia quando si massacrano civili a Parigi
sia quando, come è documentato, si sganciano bombe su
feste di matrimonio o si uccidono ragazzini indifesi per divertirsi.
Ad ottobre 2015 aerei occidentali hanno bombardato un ospedale
di Medici Senza Frontiere, di cui erano state comunicate le
coordinate che servivano a localizzarlo, causando 37 vittime.
Se le vittime sono lontane, se non parlano la nostra lingua,
se non professano la nostra religione, valgono meno?
Per convincersi che nella spirale di violenza che stanno alimentando
governi, politicanti e fanatici religiosi, noi siamo vittime
bisogna adottare il principio della incommensurabilità
della violenza, ovvero ci si deve convincere che la violenza
che subisco è più importante, più grave,
più subdola, più cattiva, più malefica
di quella che esercitano i “miei” soldati. Ci si
deve convincere che i metodi violenti degli “altri”,
ad esempio gli attentati suicidi, sono più malvagi della
igienica guerra aerea o dei respingimenti dei barconi. Si deve
credere che la violenza di chi dice di stare dalla mia parte
sia più giusta, dettata dal buon senso, finalizzata alla
pace, all'aiuto umanitario, alla rimozione di un dittatore,
e quella degli altri non ha giustificazioni: pura, cieca follia.
Quindi i miei morti valgono di più.
Il principio della incommensurabilità della violenza
è etnocentrico e razzista. Acquista credibilità
sociale solo perché siamo imbevuti delle ragioni di una
sola parte e siamo inconsapevoli dei dolori altrui, che direttamente
e indirettamente causiamo. Ma i morti sono morti; ogni famiglia
li piange, ognuna nutre rancore e spesso voglia di vendetta.
Le tattiche usate nella spirale di violenza sono quelle consentite
dalla tecnologia militare: assurdo pretendere che i nemici aspettino
pazientemente di essere uccisi dai bombardamenti umanitari;
si ribellano e reagiscono.
Quello che si dovrebbe aver capito, dopo aver conosciuto la
tragedia della guerra è che è foriera di distruzione
e traumi che si sedimentano su più generazioni. Quello
che si dovrebbe aver capito è che le spirali belliche
fanno comodo a chi vende armi, a governi e presidenti che intendono
restringere le libertà dei cittadini, a capi religiosi
e politici che cercano di usare l'odio per il proselitismo.
Quello che si dovrebbe aver capito è che le guerre le
pagano le popolazioni in termini di morti, distruzione, oppressione.
Per ripudiare la guerra si devono piangere i defunti di tutte
le parti con la stessa intensità, non solo per pietà
umana ma anche perché un morto altrove rischia di diventare
un morto a me vicino, nella logica della vendetta in un mondo
globalizzato. Un'azione militare di cui non ho notizia, perché
non ci raccontano i massacri che commettono i “nostri”
eserciti altrove, rischia di trasformarsi nell'attentato che
uccide un mio familiare, un mio vicino. I nemici non sono i
migranti, non sono le popolazioni del Medio Oriente, non è
una religione; sono piuttosto quelli che hanno seminato violenza
e morte per decenni, a prescindere dal colore della loro divisa;
quelli che vendono armi e finanziano eserciti di qualsiasi nazione;
quelli che alimentano odio per tornaconto personale in tutti
i luoghi. Alcuni dei guerrafondai che ci hanno portato la violenza
a casa, ora piangono, ipocriti, presentandosi come vittime innocenti
di una violenza incomprensibile.
Stefano Boni
Modena
La “buona scuola”/Solo
retorica e burocrazia
Negli ultimi tempi mi è capitato di seguire diversi eventi
istituzionali che riguardavano la scuola e il “mondo dei
giovani”, questa categoria arbitraria, che dovrebbe redimere
il nostro paese attraverso la venuta salvifica dell'”innovazione”
in tutti i campi.
Ho assistito, andando in giro tra Montecitorio e Palazzo Madama,
alla “Giornata delle Eccellenze”, alla proclamazione
della “Capitale Italiana dei Giovani”, al cordiale
incontro tra Stefania Giannini e Tibor Navracsics. Quest'ultimo,
braccio destro del premier ungherese Orbàn, è
il commissario europeo all'istruzione fortemente contestato,
anche, tra gli altri, da Barbara Spinelli, per “aver appoggiato
l'offensiva del proprio governo contro il pluralismo dei mezzi
di comunicazione e l'indipendenza di numerose associazioni cittadine”.
In queste situazioni ho sentito spesso umiliate le intelligenze
di professori e studenti, costretti a partecipare a una rappresentazione
irrealistica della scuola, dove i primi della classe “meritevoli”
vincono e sono premiati, e tutti gli altri, non gli ultimi,
ma tutti gli altri, devono accontentarsi di “prendere
esempio dai più bravi”. Così (non) rispondeva
il presidente del Senato Pietro Grasso a una domanda sul problema
della dispersione scolastica.
La rappresentazione che la scuola italiana dà di se stessa
dentro i palazzi del potere assume spesso i toni di uno sciovinismo
zoppicante. Si racconta ai più giovani che siamo i migliori
anche se non abbiamo risorse, che all'estero abbiamo un successo
strepitoso, che Roma è, malgrado i suoi problemi, la
città più bella del mondo.
Ci si fa vanto dell'italianità in un italiano misero,
che oscilla tra un linguaggio burocratico e un inglese superfluo,
ma “smart”. “Innoviamo”, “apriamo
start-up”, ci diamo delle “mission”. Dobbiamo
essere “the best”, insomma. “Fuck all the
rest”, il complemento sottinteso.
Molti rimproverano agli insegnanti non allineati di essere ideologici,
come faceva giovedì scorso il pittore Giuseppe Gallo,
che ha premiato i disegni di 56 alunni per il concorso “Disegniamo
l'Intelligence” organizzato dal Dipartimento Informazioni
per la Sicurezza in collaborazione con il Miur. I disegni, ha
commentato Gallo, erano, sì, tutti belli, ma quelli “un
po' troppo condizionati dai professori” lo erano meno.
L'artista, che ha selezionato i più bravi d'Italia nel
rappresentare i servizi segreti, ha scelto bei disegni, onore
al merito, che ritraevano, ad esempio, spie giganti in piedi
su un piccolo mondo su cui si fronteggiavano l'ISIS e Charlie
Hebdo.
Alla cerimonia è stato proiettato anche un video. Un'animazione
per raccontare ai ragazzi delle prime classi delle medie inferiori
come funzionano i servizi segreti: una storia di fantasia in
cui gli agenti italiani sventano un attentato terroristico al
concerto di “Johnny White”, allo stadio Olimpico
di Roma, mentre gli imam lanciano “la giornata della collera
contro il sostegno occidentale alla repressione” (in sottofondo
passano le immagini di piazza Tahrir gremita) e “qualcuno,
nella comunità islamica di Roma, parla esplicitamente
di martirio”. Grazie all'intervento dell'AISE (Agenzia
informazioni e sicurezza esterna) i “due magrebini”
che avevano architettato l'attentato “vengono arrestati”
proprio “mentre stanno per entrare in azione” all'Olimpico.
“Chissà se è successo oppure no” ha
commentato il direttore della Scuola di Formazione del Comparto
Intelligence, al termine della proiezione.
Mentre s'insegna ai ragazzini che il terrore è “maghrebino”,
ed è alle porte, di mafie, a Roma, si sente parlare soltanto
nelle assemblee d'istituto, queste istituzioni di antica memoria
che sono state le primissime palestre di partecipazione per
tanti e, per diversi, anche le ultime.
Mi auguro che i ragazzi difendano con le unghie e con i denti
gli spazi di democrazia dentro le scuole, e che li vivano attivamente,
anche se tanti presidi e parecchi professori, sono, senza generalizzare,
sempre meno inclini a concederli. E mi auguro che, chi le scuole
le ha lasciate da un po', ma ha a che fare con gli studenti
per lavoro o per attività politiche, o di volontariato,
sappia interagire con i ragazzi senza paternalismo, in uno spirito
sincero di collaborazione e solidarietà. Sappia riconoscere
ai ragazzi delle superiori che solo loro, oggi, hanno il coraggio
di scendere in piazza mossi dalla speranza, e non dalla disperazione.
Di mettere insieme tutte le parole in cui credono, in modo ingenuo
ma vero, mischiando la lotta alla militarizzazione dei territori
con il diritto allo studio, la libertà di circolazione
delle persone con l'antifascismo e il no all'accentramento dei
poteri dei presidi.
Li ho incontrati ieri, al corteo contro la legge 107, tristi,
una addirittura in lacrime, la polizia gli aveva impedito di
arrivare a Montecitorio. Gridavano “assemblea assemblea”.
Volevano parlare.
Prendiamo esempio da loro, anche se abbiamo finito la scuola
da un pezzo. Rifiutiamo il diktat del “non essere ideologici”,
rivendichiamo democrazia reale ovunque. Scriviamo, parliamo,
insegnamo le lingue che sappiamo ai migranti, o agli aspiranti
tali, mischiamoci, condividiamo tutto. Rifiutiamo il merito,
la competizione e l'esclusione che ne deriva.
E, soprattutto, oggi più che mai, non cediamo, non crediamo
alla politica della paura.
Giulia Beatrice Filpi
Roma
In ricordo di Guido Bertacco
Ho rinviato a lungo prima di scrivere questo ricordo del compagno
Guido Bertacco scomparso già da alcuni mesi (marzo 2015).
Aspettavo forse che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento
AnarchicoVicentino) prendesse l'iniziativa? Difficile, dato
che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno
per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli
anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario
Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli... E vorrei qui ricordare
anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente fino
alla fine alle iniziative contro il Dal Molin.
Qualcuno che aveva conosciuto le dure galere di stato per militanza
ha poi cercato altrove un posto dove ricominciare a vivere;
altri ancora sono semplicemente invecchiati...
Guido (assieme a Claudio Muraro e Rino Refosco, se non ricordo
male) aveva partecipato all'esperienza milanese della Casa dello
Studente e del Lavoratore. Un breve riepilogo: nell'aprile del
1969 gli studenti occupavano l'Università Statale di
Milano in via Festa del Perdono. Quasi contemporaneamente veniva
occupato un vecchio albergo a Piazza Fontana. Qui venne applicata
una rigorosa autogestione e l'ex albergo ora denominato “Casa
dello Studente e del Lavoratore” subirà presto
sia gli attacchi dei fascisti (con il lancio di alcune molotov)
che una indegna campagna di stampa criminalizzante. Lo sgombero
per mano della polizia scatterà all'alba, come da manuale,
per concludersi con numerosi arresti. In un libro fotografico
di Uliano Lucas c'è l'immagine del processo ad alcuni
anarchici in cui si riconoscono un paio dei sopracitati vicentini,
tra cui Claudio Muraro e un giovane che assomiglia a Guido Bertacco,
in qualità di pubblico rumoreggiante, a pugno chiuso,
per il momento non ancora imputati. Secondo una leggenda locale,
Guido sarebbe partito da Vicenza ancora marxista-leninista per
ritornarvi anarchico. A Vicenza comunque i tre fondarono immediatamente
il MAV e aprirono in Contrà Porti una sede, destinata
ad essere perquisita spesso, soprattutto dopo gli eventi del
12 dicembre. I visitatori venivano accolti da uno striscione
un pochettino situazionista “Date a Cesare quel che è
di Cesare: 23 pugnalate!”. Del resto era questo il clima
dell'epoca.
Di tutto l'impegno di una quindicina di compagni (più
o meno sempre gli stessi con qualche abbandono e qualche rientro
in corso d'opera) tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta
resta poco. Forse i reperti più consistenti (entrambi
gelosamente conservati dal sottoscritto) sono una bandiera rossa
con A cerchiata nera (non proprio ortodossa, ma ha sventolato
ai funerali del “Borela”, ardito del popolo di Schio)
e una raccolta di volantini di cui credo non esistano altre
copie. Sono quelli distribuiti nel corso di un paio d'anni (1971-1972),
regolarmente, almeno uno ogni 15 giorni, davanti al locale manicomio
(così era chiamato, senza eufemismi) in epoca pre-Basaglia;
quasi una lotta d'avanguardia per chi aveva letto, se non “La
maggioranza deviante” dei due Basaglia, Franco e Franca,
almeno “Morire di classe”, bel libro fotografico
sulla terribile condizione manicomiale. Denunciavamo le violenze,
i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti
di soggetti scomodi (”disadattati” secondo l'ideologia
dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati.
Dall'interno c'era chi ci sosteneva, informava, guidava: il
compianto medico Sergio Caneva, fedele alla sua giovinezza partigiana,
destinato a morire proprio mentre teneva una conferenza sulla
Resistenza.
Il lavoro del MAV era stato apprezzato dai compagni del Germinal
di Carrara (da non confondere con l'omonimo gruppo anarchico
-e giornale- di Trieste con cui comunque si era in contatto)
dove avevamo mandato copia dei volantini e degli articoli comparsi
sulla stampa locale. Alfonso Failla, per anni direttore di Umanità
Nova e Umberto Marzocchi (volontario in Spagna nella Colonna
Italiana affiliata alla CNT-FAI con Camillo Berneri; toccò
a lui nel maggio 1937 riconoscerne il corpo dopo che era stato
assassinato dagli stalinisti) ci invitarono per prendere contatti
ed eventualmente allargare il discorso contro le istituzioni
totali.
Partimmo in quattro nel novembre del 1972. Oltre a me e Guido
(l'unico con la patente e l'auto, gli altri tre eravamo tutti
motociclisti) facevano parte della delegazione Stefano Crestanello
e Mario Seganfredo (detto “Mario Cavejo” per evidenti
motivi di chioma) che quattro anni dopo perì in un incidente
stradale. Dopo aver deciso di cogliere l'occasione per visitare
anche altri gruppi lungo la strada, ci stipammo nell'auto di
Guido. Prima tappa Reggio Emilia (o era Parma?) dove, nella
biblioteca del locale gruppo anarchico, ci accolse un incredibile
compagno ottantenne. Aveva fatto tutto: l'ardito del popolo,
la Spagna, la Resistenza, l'USI...
Conservo il ricordo di un intenso abbraccio tra lui e Guido,
quasi un passaggio di testimone. Alla notte, dopo aver fatto
la conta, Guido e Mario dormirono in macchina (dove c'era posto
per due), io e Stefano all'addiaccio nel sacco a pelo. In seguito
ci demmo il cambio.
Il giorno dopo, sosta in un bar sulla sommità di un passo
appenninico dove percepii una sensazione da “confine del
mondo”. Ricordo delle rocce rossastre, color ruggine (erano
forse le Metallifere del mistico ribelle Lazzaretti?) e Mario
suonò un pezzo rock (suscitando qualche sguardo perplesso
negli avventori, peraltro cordiali) sul vecchio pianoforte che
completava l'arredo. Poi Carrara: due giorni a parlare, discutere,
nella mitica sede del Germinal con Failla e Marzocchi,
combattenti inesausti.
Alla parete la risoluzione di Kronstadt (quella del 1921) e
un'immagine non so se di Rosa Luxemburg o Ida Mett.
Dopo una discussione, amichevole ma tesa, su Che Guevara (che
io comunque difendevo a spada tratta, con spirito ecumenico),
Marzocchi mi regalò un libro su Malatesta. A Genova pernottammo
da un amico di Guido, un musicista. Dopo Milano, Mario scese
nel cuore della notte proseguendo per Bologna, dove aveva una
morosa, in autostop. La nostra scorribanda si concluse a Peschiera.
Giungemmo in tempo per partecipare alla manifestazione davanti
al carcere militare che in quel periodo ospitava soprattutto
obiettori totali, in maggioranza Testimoni di Geova e anarchici
(tra cui un nostro compagno vicentino, Alberto P.). Ci fu anche
una carica dei carabinieri. Da Carrara portammo a Vicenza un
pacco di manifesti (poi denunciati e sequestrati) per Franco
Serantini, il compagno assassinato a Pisa qualche mese prima
(maggio 1972). Scoprii al ritorno che lo Stato si era premunito
di avvisare la mia famiglia del fatto che mi trovavo a Carrara
in un covo di sovversivi (il Germinal) e non, come avevo elegantemente
detto, a Padova per ragioni di studio (all'epoca alternavo periodi
di facchinaggio con la militanza e improbabili percorsi universitari).
Gentile da parte sua, lo Stato intendo.
Che altro dire di Guido? Forse di quella volta che lo incontrai
in corso Palladio con un paio di bastoni diretto al liceo dove
il giorno prima i fascisti avevano sprangato alcuni compagni
(in particolare, il futuro storico Emilio Franzina e Alberto
Gallo, figlio del noto avvocato, figura di spicco della Resistenza
vicentina). Mi invitò a partecipare alla sua “spedizione
punitiva” e sinceramente non me la sentii di lasciarlo
andare da solo “incontro al nemico”, ma in cuor
mio sperai ardentemente che i fasci si fossero presi un giorno
di ferie (anche perché qualche giorno prima era toccato
anche a me di partecipare ad uno scontro dove me la ero cavata
con qualche legnata, in parte restituita).
Se penso a Guido lo rivedo in piedi, in tuta da imbianchino,
barba e capelli lunghi, aspettare la figlioletta all'uscita
dalla scuola elementare di via Riello. Immancabilmente, ogni
giorno. Proletario, ribelle e rivoluzionario, senza mai perdere
la tenerezza.
Ci mancherà.
Gianni Sartori
Nanto (Vi)
L'anarchia per me: il più
autentico umanesimo
Caro Paolo Finzi e cara redazione di A,
mi chiamo Enrico Bonadei e sono vostro abbonato da circa un
anno. Da tempo voglio scrivervi questa lettera, ma sono talmente
tante le cose che ho da dirvi che non so mai da dove cominciare.
Comincio magari col presentarmi...
Ho 34 anni, vivo a Parigi da una decina d'anni (con qualche
pausa e numerose andate e ritorno tra qui e Bergamo, la città
dove sono nato e cresciuto). Ho conseguito una laurea e un dottorato
in Letteratura francese tra la Sorbona e l'Università
Statale di Milano. Ho pubblicato due raccolte di racconti e
per un po' mi sono considerato scrittore. Da quasi cinque anni
lavoro nella cooperativa sotto casa, un negozio di alimentazione
biologica nel quale sono capitato per caso, in cerca della minima
stabilità ed independenza economica, dopo aver lasciato
l'ambiente accademico milanese sbattendo tutte le porte che
potevo.
Da qualche anno, tre o quattro, ho cominciato ad interessarmi
al pensiero anarchico, che stranamente non mi era mai capitato
di esplorare nel corso dei miei studi, nel divagare dei miei
interessi e delle mie passioni. Ricordo con emozione il primo
incontro col più bello dei pensieri – l'Anarchia
–, nelle pagine di un libro di Hans Magnus Enzensberger,
La breve estate dell'anarchia. La sensazione che ho provato
allora ed è andata precisandosi nelle ingorde letture
che sono seguite posso provare a descriverla solo per immagini:
è stato il tassello mancante di un puzzle di idee fino
allora vive e appassionate, ma inarticolate tra loro, disperse,
frammentarie; è stato l'incontro di una corrente d'aria
pura e potente, venuta a gonfiare le vele di un'imbarcazione
che cominciava a sentirsi inutile e perduta; è stato
il calore di un abbraccio d'amicizia e fiducia grande come l'umanità;
la determinazione ad affermare e affermarsi nell'ambito di un
pensiero del tutto libero, poliedrico, multiforme, irriducibile
ad una definizione unica e precisa, eppure inconfondibile come
la compagnia dei migliori amici.
Ricordo l'emozione di ricevere A a casa mia (prima la compravo
alla libreria Publico), la passione e la curiosità con
cui la divoravo sillaba dopo sillaba, senza trasciarne una fino
in fondo alla lista dei Fondi neri.
Ma quello che mi motiva oggi a scrivervi, sono purtroppo gli
eventi di venerdì scorso qui a Parigi, la serie di attentati
di cui politici e media non smettono di parlare, accumulando
propositi fasulli, manipolatori, ancora più terroristici
delle sparatorie e degli attentati suicidi, frasi come “ci
attaccano perché rappresentiamo la libertà e la
democrazia”, “ci aspettano tempi duri: dobbiamo
imparare a difenderci”, per non parlare della decisione
del governo francese di intensificare i bombardamenti sulla
Siria, la parola “rappresaglia” adoperata dal primo
ministro Manuel Valls per descriverli.
Vi scrivo per ringraziarvi di tenere viva un'idea – l'Anarchia
– che considero un'isola di lucidità e intransigenza
morale, il più onesto approdo e la più interessante
fucina di innovazione nell'ambito della migliore tradizione
umanistica, che attraversa i secoli e sono convinto resisterà
anche ai tempi sconvolti che ci apprestiamo a vivere.
Vi ringrazio per la chiarezza di visione che la vostra attività
mi ispira, permettendomi di conservare serenità, lucidità
e fermezza, anche nell'atto di rifiutare le sospette manifestazioni
di cordoglio nazionale, come il minuto di silenzio indetto per
ieri a mezzogiorno (lunedì 16 novembre). Mi sono sentito
saldamente chiaro e consapevole nello spiegare ai colleghi e
ai clienti del negozio in cui lavoro che non me la sentivo di
commemorare alcune morti, per quanto atroci, vicine e recenti,
dimenticando tutte le altre, distanti, trascurate, sminuite
o occultate dagli strumenti della disinformazione, prime tra
tutte le vittime dei “nostri” bombardamenti di rappresaglia
in Siria. E ho avuto la felice impressione che le mie parole
non cadessero nel vuoto, pur tra quelli che al minuto di silenzio
partecipavano.
E quanto mi ha fatto bene, in tanti altri frangenti ora purtroppo
adombrati dall'attualità, il fatto di potermi sentire
anarchico, e a volte anche di dirlo a chiare lettere!, nei contesti
più disparati e inattesi, spesso incontrando più
sguardi curiosi, interessati, amichevoli, di quanto mi sarei
aspettato.
Per cui vi ringrazio e vi faccio tutti i miei complimenti. Vi
spedisco per posta uno miei libricini di racconti, nella speranza
che vi piaccia. [...]
Non vedo l'ora di leggere il vostro prossimo numero...
Enrico Bonadei
Parigi (Francia)
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Rolando Paolicchi (Pisa),
10,00; Guido Salamone (Roma) 10,00; Antonino Pennisi
(Acireale – Ct) 20,00; Diego Graziola (Morgex
– Ao) 10,00; a/m Amedeo Bertolo (Milano) lascito
di Gianni Bertolo, 1.000,00; Aurora e Paolo (Milano)
ricordando Giovanni Gessa, 500,00; Stefano Baraldi
(Caluso – To) per versione pdf, 0,50; Rolando
Frediani (Livorno) 10,00; Franca Bombieri (New York
– USA) 55,00; Patrizia Grassiccia (Como) 10,00;
Gennaro Pilla (Castenaso – Bo) 30,00; Agostino
Perrini (Brescia) 10,00; Nicola Piemontese (Monte
Sant'Angelo – Fg) 20,00; Piero Cagnotti (Dogliani
– Cn) 10,00; Roberto D'Agostino (Torino) 10,00;
G. Soriano (Firenze) 50,00; Libreria San Benedetto
(Genova-Pegli) 5,70; Gino Perrone (Brindisi Casale)
ricordando Paolo Friz, 10,00; Associazione culturale
Alessandriacolori (Alessandria) 10,00; Anna Passerini
(Ponte Valtellina – So) 10,00; Massimo Teti
(Roma) 40,00; Santi Rosa (Novara) 5,00; Simone Gatti
(Borgo Val di Taro – Pr) 10,00; Rolando Paolicchi
(Pisa) 10,00; Angelo Roveda (Milano) 20,00; Francesco
Argenziano (Imola – Bo); 10,00; Antonio Ciano
(Gaeta) 20,00; Francesco Cherubini (Firenze) 20,00;
Bianca Favaro (Venezia) 20,00; Giovanna Gervasio Carbonaro
(Bagno a Ripoli – Fi) 50,00; Fulvio Casara (Venasca
– Cn) 10,00; Pietro Busalacchi (Napoli) 10,00;
Alessandro Scimone (Messina) 4,00; Andrea Stella (Bologna)
10,00; Antonello Cossi (Sondalo – So) 10,00.;
Centro sociale “Libera” (Modena) in occasione
dell'iniziativa del 19.12.2015 in ricordo di Giuseppe
Pinelli, 200,00; Giampaolo Pastore (Milano) 20,00;
Renzo Sabatini (Roma) 300,00; Claudio Neri (Roma)
20,00; Alessandro Sancamillo (Latina) 10,00; Giorgio
Bigongiari (Lucca) 20,00; Claudio Albertani (Città
del Messico – Messico) 100,00; Agnesina Pozzi
(Lagonegro – Pz) 20,00; Luigi De Maio (Malnate
– Varese) per PDF, 5,00; Mario Alberto Botta
(Aymavilles – Ao) 15,00; Pietro Busalacchi (Napoli)
10,00; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa (Tv)
200,00. Totale € 2.960,20.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Andrea
Ridolfi (Castiglione di Cervia – Ra); Luciana
Castorani (Malagnino – Gr) 500,00; Oscar Greco
(Rende – Cs); Marco Galliari (Milano); Loriano
Zorzella (Verona); Fabrizio Tognetti (Larderello –
Pi); Massimo Merlo (Lodi); Marcella De Negri (Milano);
Alfredo Gagliardi (Ferrara) 200,00; Cariddi Di Domenico
(Livorno) ricordando Alfonso Failla e Umberto Marzocchi;
Valeria Nonni (Ravenna); Nicola Farina (Lugo –
Ra) 150,00; Manuele Rampazzo (Padova); Giorgio Sacchetti
(Arezzo); Tiziano Viganò (Casatenovo - Lc);
Loredana Zorzan (Porto Garibaldi - Fe); Gianlorenzo
Tondelli (Castelnuovo ne' Monti - Re) 90,000: Pietro
Vezzini (Modena); Fabio Palombo (Chieti) 300,00; Luigi
Natali (Donnas – Ao); Stefano Quinto (Maserada
sul Piave – Tv); Gianpiero Bottinelli (Massagno
– Svizzera); Giancarlo Gioia (Castellammare
– Ap); Angelo Tirrito (Palermo); Giancarlo Baldassi
(Sedegliano – Ud); Luca Denti (Oslo –
Norvegia); Antonio Orlando (Cittanova – Rc);
Vittorio Golinelli (Bussero); Gian Paolo Zonzini (Borgo
Maggiore – Repubblica di San Marino); Antonio
Pedone (Perugia) ricordando Aurelio Chessa e Pio Turroni;
Vittorio Golinelli (Bussero); Gianni Pasqualotto (Crespano
del Grappa – Tv); Tomaso Panattoni (Milano).
Totale € 4.040,00.
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