Milano/
Nutrire i popoli preservando il pianeta
”La sovranità alimentare è il diritto dei
popoli a produrre con metodi ecologicamente sostenibili il cibo
nutriente e culturalmente appropriato di cui hanno bisogno,
e quindi il loro diritto a determinare i propri sistemi agricoli
e alimentari”.
(Dalla Dichiarazione finale del Forum per la sovranità
alimentare, Nyéléni, Mali, 27 febbraio 2007, www.nyeleni.org)
“L'agroecologia è politica. Essa ci impone di sfidare
e trasformare le strutture del potere nelle nostre società.
Noi vogliamo e dobbiamo porre il controllo dei semi, della biodiversità,
della terra, dell'acqua, della conoscenza, della cultura e dei
beni comuni nelle mani dei popoli che nutrono il pianeta”.
(Dalla Dichiarazione del Forum internazionale per l'agroecologia,
Nyéléni, Mali, 27 Febbraio 2015, www.foodsovereignty.org)
Ora che la grande macchina illusionistica e propagandistica
di Expo2015 ha finalmente chiuso i battenti, credo sia necessario
raccogliere e rilanciare la sfida culturale rappresentata dai
temi che lo hanno - più o meno pretestuosamente - caratterizzato,
e cioè agricoltura e alimentazione. Temi cruciali per
il futuro del pianeta, su cui è importante proporre una
visione alternativa a quella dei governi e delle multinazionali.
Il fallimento dell'agricoltura industriale
Oggi è infatti davanti agli occhi di tutti il fallimento
delle politiche agricole e commerciali promosse negli ultimi
decenni dagli organismi internazionali (Fondo Monetario Internazionale,
Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio) e sponsorizzate
dai “padroni del cibo”, ovvero dalle grandi multinazionali
della produzione, trasformazione e distribuzione alimentare.
La diffusione su vasta scala dell'agricoltura industriale -
basata sulla monocultura, gli organismi geneticamente modificati,
l'uso massiccio di carburanti fossili e pesticidi - e la liberalizzazione
del mercato dei prodotti agricoli, non solo non hanno risolto
il problema della fame e della denutrizione, che affligge oggi
circa 850 milioni di abitanti del pianeta, ma hanno anzi contribuito
ad aggravarlo. Queste politiche hanno infatti comportato, da
un lato, l'allontanamento di decine di migliaia di piccoli agricoltori
e allevatori dalle loro terre (land grabbing) e, dall'altro,
la distruzione dei mercati agricoli locali, inondati dalle eccedenze
agricole dei paesi ricchi (dumping).
Il
risultato di questi devastanti processi di sradicamento ed espropriazione
è stato quello di aumentare il numero di persone che,
cacciate dalla loro terra, affollano gli slums delle
megalopoli o migrano, in cerca di fortuna, verso le regioni
ricche del Nord del pianeta.
Senza contare i danni incalcolabili che l'agricoltura industriale
ha prodotto e continua a produrre in termini di inquinamento
di aria, acqua, terra e di distruzione della biodiversità.
La sovranità alimentare
Oggi è dunque più che mai necessario denunciare
i guasti provocati dalla agricoltura industriale e gli ingiusti
meccanismi del mercato agroalimentare mondiale, per costruire
dal basso e promuovere le alternative possibili. In particolare
occorre far conoscere e diffondere le idee e le buone pratiche
riconducibili al paradigma della sovranità alimentare,
ovvero del diritto dei popoli e delle comunità a produrre
autonomamente, in modo ecologicamente sostenibile, il cibo salubre
e culturalmente appropriato di cui hanno bisogno.
Inizialmente elaborato da La Via Campesina (www.viacampesina.org)
- rete internazionale che raggruppa circa 200 milioni di agricoltori,
contadini senza terra, donne rurali e comunità indigene
appartenenti a 167 organizzazioni locali di 88 paesi di Africa,
America, Asia ed Europa - il paradigma della sovranità
alimentare è oggi diventato il terreno di incontro tra
questi movimenti e la parte più radicale e consapevole
delle associazioni ambientaliste, delle organizzazioni non governative
che si occupano di cooperazione internazionale, del movimento
del commercio equo e dei gruppi d'acquisto solidale.
Fare proprio il programma politico della sovranità alimentare
significa:
- affermare che il cibo non è una merce ma un diritto;
- sostenere le lotte per l'accesso delle comunità locali
alla terra, all'acqua, alle sementi;
- contrastare il consumo del suolo fertile per scopi non agricoli
(commerciali, residenziali, industriali o infrastrutturali);
- favorire i sistemi di coltivazione tradizionali, naturali,
biologici (agroecologia);
- assicurare agli agricoltori una giusta retribuzione per
i loro prodotti e il loro lavoro;
- riconoscere e promuovere il ruolo delle donne nella produzione
di cibo.
Si tratta insomma di far conoscere e sostenere il modello
dell'agricoltura famigliare, contadina, di comunità,
cooperativa, prioritariamente orientata alla produzione di cibo
per l'autoconsumo e la vendita diretta nei mercati locali, che
ha dimostrato di essere efficace non solo nel garantire una
vita dignitosa agli agricoltori e alle loro famiglie, ma anche
nel tutelare l'ambiente e la biodiversità.
Questo modello - alternativo a quello dell'agricoltura industriale
- merita di essere sostenuto non solo nel Sud del mondo, ma
anche nei cosiddetti “paesi sviluppati”.
Anche in Italia esiste infatti un'agricoltura di piccola scala,
a dimensione famigliare, comunitaria o cooperativa, condotta
con metodi naturali o biologici, che rischia di scomparire sotto
il peso di leggi e regolamenti pensati per l'agricoltura imprenditoriale
e industriale. Eppure l'agricoltura contadina, oltre a produrre
occupazione e reddito, contribuisce a mantenere popolate le
campagne e la montagna, a conservare la fertilità della
terra e la diversità del paesaggio, a mantenere vivi
i saperi e i prodotti locali.
Molti di questi “contadini per scelta” si sono inoltre
caratterizzati negli ultimi anni come partners dei gruppi d'acquisto
solidale e protagonisti dei mercati locali, rurali, a filiera
corta e a km zero che animano i nostri paesi e le nostre città,
dando vita a una nuova relazione tra produttori e consumatori
fondata sulla conoscenza reciproca, la condivisione dei problemi,
il mutualismo. Essi svolgono dunque una funzione sociale ed
ecologica, oltre che economica, che merita di essere riconosciuta
e valorizzata (www.agricolturacontadina.org).
Coltivare la speranza
Le lotte dei movimenti contadini per la sovranità alimentare
e l'agroecologia riguardano dunque tutti noi. Proponendosi di
porre il controllo della terra, dell'acqua, delle sementi, della
biodiversità, dei saperi e dei beni comuni nelle mani
di coloro che nutrono il pianeta, strappandolo alle grinfie
dei governi e delle multinazionali, queste lotte rappresentano
una sfida radicale alle attuali strutture del potere economico
e politico, sia a livello locale che a livello globale.
In particolare esse sfidano un modello di produzione che - nel
Nord come nel Sud del pianeta - tende a sostituire i contadini
con braccianti stagionali costretti a lavorare in condizioni
di vera e propria schiavitù, e un modello alimentare
che riserva ai ricchi il cibo sano e nutriente per lasciare
ai poveri la fame o, al massimo, il cosiddetto “cibo spazzatura”.
Dall'esito di queste lotte non dipende solo il futuro della
nostra alimentazione ma anche - e in misura rilevante - la possibilità
di costruire un mondo migliore, basato sulla giustizia sociale
e l'armonia con il pianeta. Per questo è importante che
- superato un certo pregiudizio “progressista” ancora
oggi diffuso nei confronti del mondo contadino - intorno ad
esse si sviluppi una vasta rete di solidarietà.
Ivan Bettini
ivan.bettini@rcm.inet.it
Coordinamento economia solidale della Martesana (Milano)
Il Coordinamento economia solidale della Martesana è
una rete di gruppi di acquisto solidale, cooperative, associazioni
e aziende che operano nel territorio compreso tra la città
di Milano e il fiume Adda, lungo il corso del Naviglio Martesana.
Il nostro obiettivo è quello di arrivare gradualmente
alla costruzione di un distretto di economia solidale, cioè
di una rete stabile e duratura di soggetti che si aiutano a
vicenda per soddisfare i propri bisogni di acquisto, vendita,
scambio e dono di beni, servizi e informazioni.
I criteri che guidano la nostra azione sono la giustizia
sociale e il rispetto delle persone, la solidarietà,
la tutela dell'ambiente, il sostegno all'economia locale e il
rapporto attivo con il territorio.
Il nostro metodo di lavoro è basato sui principi della
partecipazione e dell'autorganizzazione.
Bibliografia minima
Altieri Miguel, Agroecologia: prospettive scientifiche
per una nuova agricoltura, Padova, Muzzio 1991
Canale Giuseppe, Ceriani Massimo, Contadini per scelta.
Esperienze e racconti di nuova agricoltura, Milano, Jaca
book 2013
Centro Nuovo Modello di Sviluppo, I padroni del nostro
cibo, Vecchiano (PI), 2015 scaricabile dal sito www.cnms.it
Davis Mike, Il pianeta degli slum, Milano, Feltrinelli
2006
Liberti Stefano, Land grabbing: come il mercato delle terre
crea il nuovo colonialismo, Roma, Minimum fax 2011
Patel Raj, I padroni del cibo, Milano, Feltrinelli
2008
Perez-Vitoria Silvia, Il ritorno dei contadini, Milano,
Jaca book 2007
Perez-Vitoria Silvia, La risposta dei contadini, Milano,
Jaca book, 2011
Potito Michela e Borghesi Roberta, Genuino clandestino:
viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi
opere, Firenze, Terra Nuova 2015
Lugano/
Sulle note di De André
“Faber per sempre” il 26 settembre a Lugano. Bastano
queste poche parole per catturare l'attenzione. Chi sono? La
band che ripropone i brani di Fabrizio De André è
patrocinata dalla Fondazione De André, gode dunque della
“benedizione” di Dori Ghezzi, una bella garanzia;
Pier Michelatti, storico bassista del cantautore genovese, è
il “fondatore” della band. Quasi quasi ci vado.
Leggo una sua intervista su un quotidiano locale pochi giorni
prima del concerto: mi intriga, parla del suo piacere di suonare
ancora questi brani indimenticabili, di trasmetterli nel tempo.
E poi il concerto è a scopo benefico. Qualche perplessità
ce l'ho ancora, un minimo di preoccupazione: temo che mi intristisca,
o peggio che mi infastidisca sentire i brani cantati da un'altra
voce, e poi forse il carattere inevitabilmente nostalgico peserà
un po' sull'atmosfera della serata. Ebbene?
Ho davvero fatto bene ad andarci perché il 26 settembre
è stata una serata meravigliosa.
L'inizio è decisamente sorprendente: appare a schermo
Wim Wenders, con un bell'inglese chiaro e comprensibilissimo,
dato da un sano accento tedesco, e racconta sorpreso e commosso
di come ha conosciuto la musica di De André. Una scoperta,
una folgorazione, un amore al primo ascolto, l'intenzione di
fare un film sul cantautore genovese, mai incontrato di persona.
Una bella introduzione, inusuale, che imprime alla serata il
carattere più puro e anche “nobile” del ricordo,
senza rimpianti ma ricco di gratitudine e sincero apprezzamento
per quanto Faber ci ha lasciato.
Già dalle prime note mi sento inondata dalla serenità,
dal piacere di riascoltare, dalla sensazione gradevolissima
delle sonorità autentiche, fedeli, da una voce meravigliosa,
quella di Ivan Appino, che si inserisce armoniosamente nella
strumentazione e nella memoria acustica che tutti abbiamo impressa
in modo indelebile in qualche angolo del cervello e del cuore.
Ed è forse proprio questa armonia la cosa più
sconvolgente e anche inebriante della serata. Il bello è
che poi, superato il primo scoglio, ti fidi, dai piena fiducia
ai musicisti sul palco, peraltro eccellenti sia come gruppo
sia presi singolarmente come strumentisti. E la fiducia si sa
è un circolo virtuoso, genera un'eco, una risonanza,
apre porte, rende accoglienti, predispone all'ascolto e alla
partecipazione emotiva, all'empatia. Di più, alla simpatia.
E non intesa soltanto come disposizione d'animo favorevole,
ma persino come fenomeno acustico per cui un corpo sollecitato
dalle vibrazioni di un corpo vicino, vibra a sua volta, in perfetta
armonia. Questa fiducia si mangia le inevitabili pochissime
imperfezioni e ti predispone a godere appieno della qualità
delle opere di De André e dell'interpretazione carezzevole
e affettuosa, e nel contempo bella tonica, della band.
Affettuosa. Una cosa che ho apprezzato intimamente è
che nessuno sul palco gioca al protagonista, tutti interpreti,
meravigliosi interpreti.
|
Pier Michelatti, basso, direzione musicale e arrangiamenti |
Una sorta di filosofia di fondo, molto onesta, che è
testimone inequivocabile dell'affetto e della sensibilità
con cui il gruppo si propone. Lo scopo, la missione che i musicisti
di “Faber per sempre” si sono dati - che sul palco
è dichiarata e non viene mai disillusa - è far
rivivere l'emozione di un concerto live del cantautore genovese.
Nessuna produzione discografica dunque, “se volete ascoltarlo
a casa, ascoltatevi l'originale” suggerisce Pier Michelatti.
E le sue parole, i brevi racconti, qualche simpatico aneddoto
che fa da contrappunto ai brani musicali, sono quelli di un
amico, che lo ricorda con piacere, che suona con immenso piacere,
anche lui per rivivere ancora meravigliose e appassionate sensazioni.
“Fosse per noi staremmo qui tutta la notte” dice
dopo l'ennesimo bis. È la storia di un'amicizia: leggo
sul sito (www.faberpersempre.com)
del biglietto scritto da Fabrizio e ritrovato in un'agenda dopo
la sua morte: “Caro Pier, non sai il senso di sicurezza
che provo nell'ascoltarti alle mie spalle mentre canto. È
come sentirsi protetti [...]”. Poche parole che raccontano
di un rapporto intenso e intimo.
Ogni concerto è dunque un tramandare emozioni, poesia,
cultura; una cultura di autentico ascolto e accoglienza di ogni
alterità, di ogni vita ai margini. Anche se le conosciamo
tutti e tutte le canzoni di Faber (o quasi), riascoltarle live,
cantate e suonate così, fedelmente e con amore, è
un modo per riscoprirle, cogliere la precisione delle parole
scelte ad una ad una, la loro delicatezza. Lasciarsi sedurre,
ancora e ancora. Faber per sempre.
Paola Pronini Medici
Londra/
Le sfide del movimento anarchico contemporaneo
“L'idea dell'Anarchist Bookfair [di Londra] in realtà
proviene dal SWP (o International Socialists, come si chiamavano
allora). Erano soliti tenere una Socialist Bookfair al Camden
Centre. Moltissimi anarchici ci andavano, ma era un evento davvero
noioso, costoso e con un sacco di editori di largo consumo.
Allora noi anarchici decidemmo di organizzare la nostra versione”.1
Insomma, dobbiamo ringraziare il pessimo lavoro dei trozkisti
inglesi se dal 1984 a Londra esiste quella che in italiano è
forse più conosciuta come “Vetrina dell'editoria
anarchica e libertaria”. Un appuntamento annuale che attira
anarchici, simpatizzanti e curiosi da tutto il Regno Unito (ma
non solo) per incontri, dibattiti, proiezioni, e ovviamente
anche per acquistare libri e materiale d'ispirazione libertaria
(dalle magliette con bandiera Makhnovista alle borse di tela
contro la caccia).
Anche a seguito dell'altissima affluenza, quest'anno l'Anarchist
Bookfair ha cambiato sede. Si è spostata nella centralissima
e da poco ristrutturata sede della University of the Arts London,
vicino alla stazione di King's Cross. Un imponente granaio ottocentesco
in cui il caratteristico austero mattone rosso della facciata
lascia posto, appena si entra, alle forme moderne di vetro e
acciaio, e a tanta luce che inonda gli ampi spazi interni. Passato
e presente uniti con armonia, come dovrebbe essere l'anarchismo
di oggi.
L'edizione del 24 ottobre 2015 è stata la mia terza Anarchist
Bookfair, ma la prima a cui sono stato invitato come relatore.
Come per le edizioni precedenti, sono arrivato verso le dieci
per la solita full immersion. I temi degli incontri spaziavano
dal primitivismo alla rivoluzione in Rojava, dall'ecologia sociale
ad arte&anarchismo, dagli zapatisti a Colin Ward, dalle
donne nella lotta armata all'organizzazione sul posto di lavoro.
Oltre cinquanta appuntamenti, di una o due ore, in nove aule
diverse. E il dilemma, come ogni anno, era sempre lo stesso:
quale incontro scegliere quando ce ne sono nove in contemporanea?
Alla fine hanno prevalso “Rete dei centri sociali”,
organizzato dai compagni del centro sociale Kebele di Bristol,
e la serie di incontri sull'educazione libertaria. Il primo
si è rivelato la classica discussione “interattiva”
che tanto piace agli inglesi. Del tipo: “ok, adesso ci
dividiamo in sotto-gruppi e ogni gruppetto si riunisce in un
angolo della stanza per discutere un tema e scrivere su un cartellone
le proprie idee. E poi ne parliamo tutti insieme”. Eravamo
in tutto una dozzina, principalmente persone già coinvolte
in centri sociali o che vorrebbero aprirne uno, e si è
discusso in maniera generica di centri sociali: a cosa servono,
quali problemi devono affrontare, che ruolo possono avere in
futuro? Solo alla fine i bristolliani hanno distribuito il programma
del prossimo raduno dei centri sociali britannici, che si terrà
presso Kebele il 28 e 29 novembre 2015, e che punta a rilanciare
la “rete dei centri sociali”. Insomma, si è
trattato di una sorta di incontro preparatorio in vista del
raduno. Raduno che fa ben sperare, perché è solo
coordinandosi e facendo rete che si può provare a resistere
alla crescente ondata repressiva che caratterizza la Gran Bretagna
degli ultimi anni.
Autoritarismo educativo e scuole libertarie
Un po' deluso dal primo meeting ho consultato il programma
per decidere dove andare dopo. Un compagno italiano appena conosciuto
ha cercato di convincermi a partecipare alla presentazione di
un libro dall'intrigante titolo: “Never work”. Ma,
essendo io un ex insegnante che ha abbandonato la scuola inglese
a causa della burocrazia e dell'autoritarismo che la affliggono,
mi sono lanciato in tre ore di dibattiti sull'educazione libertaria.
Significativa è stata l'affluenza a questi incontri.
C'erano talmente tante persone che, per tutelare la salute e
sicurezza del pubblico, ogni incontro è stato ulteriormente
suddiviso e ospitato in tre aule diverse. Ciascuno su un sotto-tema
dell'educazione libertaria. Questo conferma il grande interesse
nel mondo anarchico, ma non solo, intorno al tema dell'educazione.
La prima serie di dibattiti aveva come oggetto “L'educazione
e lo stato”. Mentre in contemporanea si discuteva del
ruolo dell'università, io ho assistito a “Educazione,
resistenza e sistema penale”. Lì si è parlato
di Y-stop, un progetto che punta ad informare i ragazzi in età
scolare dei propri diritti quando si è fermati dalla
polizia. Poi la regista olandese Julia ha presentato il suo
documentario che parte da una vicenda personale (quando ha scoperto
di essere stata rapinata dal figlio dei suoi vicini) per introdurre
l'argomento della giustizia riparatoria, che punta alla riabilitazione
del responsabile attraverso la riconciliazione con la comunità.
E infine Carl Cattermole, ex detenuto ed autore di una guida
gratuita di sopravvivenza alla prigione, ha discusso dell'importanza
dei programmi di alfabetizzazione nelle carceri come strumento
per contrastare il sistema. Tre interessantissime testimonianze
sul ruolo dell'educazione alternativa come strumento per resistere
alla repressione statale.
I tre dibattiti successivi erano accomunati dal filo conduttore
“Educazione e libertà”. Judith Suissa ha
spiegato cos'è l'educazione anarchica mentre Ros Kane
e il Risinghill Research Group hanno riflettuto su esempi passati
di scuole radicali. Io invece sono rimasto ad ascoltare Ian
Cunningham, preside del Self-managed Learning College di Brighton,
e tre alunni della famosa Summerhill School. Più che
un vero e proprio incontro strutturato questo è stato
un bombardamento di domande per Ian e i ragazzi da parte di
decine di insegnanti, studenti universitari e genitori accorsi
per capire come funziona concretamente una scuola libertaria.
Molti erano stupiti all'idea di ragazzi e ragazze che decidono
se e quali corsi seguire, che stabiliscono un programma di studi
con l'insegnante, che frequentano lezioni individuali o in piccoli
gruppi. E che, alla fine della scuola, spesso si iscrivono al
Sixth Form (gli ultimi due anni di scuola, non obbligatori)
o conseguono il diploma da privatisti. E a giudicare da come
i tre sedicenni di Summerhill si esprimevano e argomentavano,
non ho difficoltà a crederci. Ma l'assenza di una graranzia
del diploma dissuade molti genitori dall'iscrivere i propri
figli a scuole libertarie o democratiche. In aggiunta, queste
scuole sono private e quindi a pagamento. Dunque non per tutti.
L'ultimo degli incontri sull'educazione libertaria ha visto
la partecipazione di tre ex alunne della Mossbourne academy,
il progetto pilota voluto dall'ex primo ministro laburista Tony
Blair per la creazione delle accademie. Ovvero scuole finanziate
dallo stato ma con ampie libertà di gestione finanziaria,
amministrativa e del curriculum. Sì, questo significa
anche che ogni accademia può stabilire in autonomia le
condizioni lavorative e retributive dei propri insegnanti. Non
c'è da sorprendersi, dunque, se dal 2010 anche il governo
conservatore ha attivamente incoraggiato la conversione di migliaia
di scuole in accademie in tutta la Gran Bretagna.
Ciò che è emerso dal racconto delle tre neo-diplomate
sembrava l'ambientazione di un romanzo distopico, con corrodoi
a senso unico e insegnanti che ispezionano la lunghezza delle
gonne delle alunne. Tutte cose che ormai sono normali in moltissime
scuole del regno, e che ho visto con i miei occhi durante la
mia esperienza come insegnante. Addirittura, durante un colloquio
presso una scuola di Londra, un preside una volta mi ha esplicitamente
chiesto se fossi pronto a seguire la politica scolastica che
consisteva nell'urlare contro i ragazzi e farli marciare. Avrei
pensato ad uno scherzo se non avessi visto gli insegnanti della
scuola farlo poco prima. Ma Mossbourne e altre accademie hanno
permesso di testare quello che oggi è un ritorno su larga
scala alla scuola fortemente autoritaria di stampo pre-sessantottino.
Ciononostante, le tre ragazze hanno spiegato come la creazione
di un collettivo studentesco femminista le avesse aiutate a
restare compatte e organizzare forme di resistenza alle decisioni
delle gerarchie scolastiche.
|
Londra (Gran Bretagna), 24 ottobre 2015 - La 34esima edizione
della vetrina dell'editoria anarchica e libertaria |
Centri sociali libertari: una ricerca
Infine, dopo una pausa per un boccone e riprendere fiato, è
arrivata l'ultima fascia oraria degli interventi, tra cui il
mio. Nell'aula c'erano una trentina di persone. Visto che avevo
preparato un PowerPoint per rendere la presentazione meno soporifera,
gli organizzatori si sono scusati col pubblico perché
avevano dovuto trasformare il circolo egualitario di sedie in
terribili file antidemocratiche per permettere a tutti di guardare
il mega-schermo. Ero stato invitato dal New Anarchist Research
Group per presentare parte della mia ricerca collegata al mio
progetto di dottorato: un'analisi comparata delle comunità
libertarie britanniche e italiane. Il titolo del mio intervento
era: “Centri sociali libertari: catalizzatori di attivismo
comunitario o strumento di controllo sociale?”. E per
ragioni di tempo mi sono concentrato solo su casi-studio baresi.
Questa domanda è sorta dopo aver intervistato decine
di compagne e compagni coinvolti in esperienze di tipo libertario
dal 1968 ad oggi. Infatti alcuni, come il 61enne anarcosindacalista
Gino, ritenevano i centri sociali “una discoteca esentasse
[...] per far perdere tempo alla gente”, in cui gli attivisti
si autoghettizzano rendendo più facile il controllo sociale
da parte delle autorità. Altri invece, come il 42enne
ex punk e anarco-comunista AL, li consideravano “un modello
per una società alternativa”.
Così, ho presentato quattro esperienze che abbracciano
il lasso di tempo che va dagli anni Settanta ad oggi: dal Comitato
di Quartiere San Pasquale (1973-78), che anticipa le tematiche
dei centri sociali moderni tanto da spingere il vecchio militante
anarchico Nicola a chiamarlo “una sorta di centro sociale”,
fino all'attuale Ex-Caserma Liberata (dal 2014). Ho quindi paragonato
i quattro casi-studio soffermandomi sulla composizione dei collettivi,
sui locali occupati e le aree in cui sorgevano, sui tipi di
attività svolte, e sulle relazioni che questi hanno sviluppato
specialmente col vicinato. Ad esempio, nel caso del CSOA Fucine
Meridionali (1994-95), la rottura interna al collettivo tra
“sottoproletariato” ed “elementi politicizzati”
ha permesso a crimine organizzato e forze dell'ordine di isolare
e infine annientare un'esperienza che tuttora molti attivisti
rimpiangono. Allo stesso modo, la scelta di un luogo e del tipo
di attività può condannare o premiare un centro
sociale.
Infatti, il comitato di quartiere San Pasquale (CdQ) era sorto
nell'omonimo quartiere proletario ed aveva modellato le proprie
attività in base alle necessità espresse dalla
popolazione locale, cosa che aveva permesso alle anarchiche
e agli anarchici del CdQ di costruire relazioni durature con
i residenti. E persino di insegnare agli abitanti di San Pasquale
princìpi anarchici come l'azione diretta quando occuparono
una villa abbandonata per trasformarla in asilo nido per i bimbi
del quartiere.
Invece l'inesperienza dei punx baresi aveva portato all'apertura
del CSOA Giungla (1983-84) nella zona industriale dove, come
ricorda Nico, “non eravamo abbastanza lungimiranti da
realizzare che era un'area troppo strategica per la malavita”.
Difatti la presenza nel meridione degli anni Ottanta di centinaia
di giovani con creste, catene e musica punk attirava i controlli
delle solerti forze dell'ordine, cosa che i malavitosi non gradivano.
E infatti furono loro a “sfrattare” la Giungla minacciandone
gli attivisti. Insomma, i centri sociali possono sia stimolare
l'attivismo di una collettività che rivelarsi uno strumento
di controllo sociale. Dipende spesso dalle scelte che gli attivisti
fanno. Alla fine, con un pubblico misto di inglesi e italiani,
abbiamo continuato a parlare di vari aspetti emersi durante
la mia presentazione, fino a quando son venuti a cacciarci dall'aula
perché tardi.
Creare spazi inclusivi
Anche se certamente meno sentito dell'educazione libertaria,
sembra che un crescente numero di persone stia rivalutando le
esperienze comunitarie di tipo libertario, sia urbane che rurali.
I centri sociali, i comitati di quartiere, le comuni rurali
(di cui parlo nella mia tesi) sembrano rispondere all'appello
di Andrea Papi su A-Rivista 400 che invitava, per sottrarci
al sistema virtuale e “liquido” che ci avvolge,
a “crea[re] spazi e luoghi dove approntare e sperimentare
modalità di relazione inclusive non soggette alle spirali
finanziarie, dove ciò che conta e dà senso sono
la condivisione, la solidarietà, la reciprocità,
la mutualità”.2
Ma la giornata non era ancora finita. All'uscita, quando ormai
pregustavo una bella pinta nel pub più vicino, ho visto
decine di persone con vestiti neri e volto coperto correre dalla
stazione di King's Cross verso l'università, dove mi
trovavo io. Dietro di loro, una schiera di giubbotti giallo
fluorescente: la polizia. Dopo qualche secondo di stupore, avevo
appreso che si trattava di parte della manifestazione di solidarietà
con i migranti che la polizia aveva respinto fin lì in
seguito al loro tentativo di occupare i binari da cui partono
i treni per la Francia. Treni che percorrono il tunnel sotto
la Manica, dove diversi migranti sono morti cercando di raggiungere
la Gran Bretagna. Ormai isolati e bloccati sotto la pioggia
battente, il gruppo di manifestanti è rimasto per qualche
minuto a trascinare e rovesciare cassonetti sotto gli occhi
indifferenti delle forze dell'ordine, e poi s'è disperso.
A quel punto, raggiunto da compagne e compagni dell'Anarchist
Federation che si erano trattenuti alle bancarelle dei libri,
ho potuto concludere la giornata con la più classica
delle tradizioni inglesi: il giro dei pub.
Tuttavia, ripensando alla giornata di dibattiti, mi chiedevo:
ma in una città multietnica come Londra, dov'erano le
persone di origine caraibica, africana, indo-pakistana, est
europea? Come troppo spesso succede, le manifestazioni a carattere
anarchico in questo paese sono frequentate quasi esclusivamente
da bianchi di madrelingua inglese tra i venti e i quarant'anni,
e spesso appartenenti alla classe media. Come possiamo pensare
di creare una società alternativa basata su spazi e luoghi
fondati sulla solidarietà se non riusciamo a coinvolgere
tutte le etnie, i generi, le età e le classi sociali?
Luca Lapolla
Note
- Traduzione di un'estratto della sezione 'History' sul sito
dell'Anarchist Bookfair di Londra: anarchistbookfair.org.uk.
- Andrea Papi, A Rivista
Anarchica 400, 2015, p. 14.
Guido Barroero/
Senza perdere la tenerezza
Guido non c'è più.
Nel 2001, dopo i fatti del G8 di Genova, venni convocato dai
ROS per un interrogatorio come persona informata dei fatti.
Tutto l'interrogatorio, condotto dal maresciallo Calandri alla
presenza di un misterioso personaggio che non si qualificò,
verteva su Guido Barroero. Volevano sapere dove era durante
gli scontri, se era il capo degli anarchici di Genova, se era
un sindacalista, ecc. ecc. Guido in quelle giornate era al corteo
di Sampierdarena, quello organizzato dai sindacati di base.
Un corteo pacifico dove non si verificarono incidenti di sorta.
Eppure i ROS erano alla caccia dei pericolosi anarchici che,
secondo loro, avevano diretto gli scontri e indagavano su di
lui. Alla fine se la presero con i COBAS e con il loro presidio
in piazza Paolo da Novi, tanto per non farsi mancare niente
si inventarono che erano stati loro a organizzare gli scontri.
La cosa si risolse in un nulla di fatto perché tutte
le finte prove messe in atto si rivelarono per quello che erano.
Un semplice tentativo di incriminare qualcuno a caso tanto per
far vedere che lavoravano alacremente per dare la caccia ai
famigerati Black bloc.
Con Guido dividevamo un appartamento nei vicoli del centro storico,
in via San Bernardo. Ci siamo fatti un sacco di risate al pensiero
che lui fosse il capo dei cattivi e io un testimone informato
di questo fatto inesistente. Guido, in quel periodo, era impegnato
a redigere la rivista Collegamenti Wobbly e il bollettino Altra
Storia. Raccoglieva materiali sulla Resistenza e sulle formazioni
partigiane anarchiche a Genova dal 1943 alla Liberazione. Si
occupava delle schede per il Dizionario degli Anarchici Italiani
pubblicato nel 2003 dalla BFS. In più girava a distribuire
“UN” e la rivista “A” in librerie ed
edicole.
La maggiore preoccupazione, viste le nostre misere entrate,
era riuscire a coniugare il pranzo con la cena, pagare l'affitto
e le bollette, organizzare presentazioni di libri e dibattiti.
Riuscivamo anche a divertirci un po' organizzando cenette e
scampagnate. Amava molto arrampicarsi sui monti e, appena poteva,
inforcava lo zaino e se ne andava a fare dei giri sui bricchi.
Così si rigenerava per essere pronto a immergersi di
nuovo nello studio e nella ricerca all'Archivio di Stato, all'Istituto
storico della Resistenza, all'Archivo di Pegli e alla sede anarchica
di piazza Embriaci. Quando scopriva delle cose inedite era felice
come un bambino. Verificava scrupolosamente le fonti e poi scriveva
e commentava (mi faceva fare il correttore di bozze) ed era
costantemente in bilico fra il rigore e l'autoironia.
Amava tantissimo fare battute sferzanti su tutto e in particolare
su se stesso.
Adesso non c'è più e a me manca tantissimo.
Riccardo Navone
Imola/
Io topo, io merda, io antifascista
Il 25 novembre scorso Daniele Barbieri – che, oltre
ad essere direttore responsabile del mensile Pollicino Gnus,
è anche, tra le sue varie attività, collaboratore
di “A” – ha ricevuto minacce di stampo fascista.
Riportiamo l'articolo apparso sul suo blog qualche giorno dopo
l'accaduto.
Il fatto. Mattina del 25 novembre. Mia moglie trova nella
cassetta delle lettere quella che in gergo si definisce «lettera
minatoria». Un breve testo. Mi avvisa. Io penso «can
che che abbaia non morde». Comunque con Tiziana discutiamo
se fare una denuncia. Io sono per il no. Nostro figlio consiglia:
«babbo, tu non ti spaventi ma può darsi che altre
persone, in una situazione analoga, invece si preoccupino. Se
ne parli, se fai la denuncia magari viene fuori dell'altro».
Sagge parole. Appena posso vado in questura e là viene
redatto un «verbale di ricezione di denuncia-querela resa
oralmente». Inevitabile domanda: «lei ha sospetti
sugli autori?». Inevitabile risposta: «è
come se la lettera fosse firmata» e spiego perché
«ma ovviamente non ho prove, sono illazioni, deduzioni».
Un altro fattarello. Mi viene poi in mente un episodio
minimo che avevo già dimenticato. Qualcuno mi ha detto
«te ne intendi di topi, eh?» per poi dileguarsi...
prima che io facessi in tempo a veder bene, a identificarlo.
Connettendo questa vaga frasetta alla lettera «minatoria»
penso che forse esiste un nesso, visto che ho accompagnato –
qui in “bottega” – la notizia di una raccolta
firme contro le organizzazioni neofasciste proprio con il disegno
di un topo.
Lo ammetto. Confesso. Sono un topo. E sono una merda
(«dal letame nascono i fior»?). Non soltanto. Sono
ebreo. Sono palestinese. Sono meticcio. Sono nero. Sono giallo.
Sono un pellerossa. Sono figlio di Nn, un bastardo. Sono gay.
Anzi in realtà sono una donna. E comunque sono trans.
Ovviamente sono un anarco-comunista. Sono terrone, matto, povero,
immigrato, handicappato, zingaro, hippie, femminista, malato,
vecchio... E sono un alieno. Neanche a dirlo me la faccio con
i pakistani, anzi io sono un pakistano. Ma soprattutto sono
un topo. Come in «Maus» di Art Spiegelman del quale
consiglio la lettura a chi non lo conosce.
E adesso? Continuerò ovviamente come prima. Sarò
al banchetto dove si raccolgono le firme contro la concessione
di spazi a Forza Nuova e simili. Perché di poche cose
sono sicuro ma una è questa: vecchi e nuovi nazifascisti
sono nemici di ogni possibile umanità. Mi oppongo e mi
opporrò a loro. Per quel che posso e in ogni modo.
Daniele Barbieri
87 ore/
Il film-realtà sulla morte di Mastrogiovanni
Mentre si susseguono le udienze del processo d'appello per
la morte di Francesco Mastrogiovanni (nel mese di novembre se
ne sono tenute due) è stato proiettato, per la prima
volta a Roma, il 6 novembre 2015, al Teatro Palladium, il “film
realtà” di Costanza Quatriglio dal titolo 87
ore (2015, 75 min., prodotto da Doc Lab, in collaborazione
con Rai Tre, con il sostegno del ministero per i beni e le attività
culturali e il patrocinio di Amnesty International). Gran parte
del film è costituito dalle immagini del video prodotto
dal sistema di videosorveglianza interno al reparto di psichiatria
dell'Ospedale di Vallo della Lucania (Sa).
Medici e infermieri i veri attori
Gli attori, più o meno consapevoli, sono i medici e gli
infermieri che si succedettero al letto di contenzione di un
gigante buono. Attori non molto umani, poco professionali, negligenti,
imprudenti che conferiscono al “video dell'orrore”,
al di là del suo valore probatorio, il racconto degli
ultimi giorni di vita dell'insegnante libertario e ne fanno
un documento unico nella storia della contenzione. Nel film
le immagini di Mastrogiovanni sono come la vena nera nel marmo
di Carrara, compaiono e scompaiono come sotto lo scalpello tra
le onde del mare, nel quale si era tuffato cantando “Addio
Lugano bella”, e i riflessi della luna, tra le foglie
e il cammino delle formiche.
La decisione di rendere pubbliche le drammatiche immagini della
lunga contenzione meccanica subita da Mastrogiovanni fu presa
dai familiari, così come furono i familiari di Stefano
Cucchi a volere la pubblicazione delle foto del corpo massacrato
del loro congiunto. L'intento non era allora quello di divulgare
una foto-notizia, insufficiente a spiegare da sola cosa avevano
fatto a Stefano Cucchi, così come oggi sappiamo essere
insufficiente il film della bravissima Costanza Quatriglio,
per definire tutte le responsabilità che hanno provocato
il decesso dell'insegnante cilentano. Il film, frutto di un
lavoro accurato, lungo e complesso, condiviso con Luigi Manconi
e Valentina Calderone, dell'associazione A buon diritto, restituisce
agli spettatori l'intero dramma vissuto da Franco, e costituisce
un'arringa indiretta, una vibrante protesta della verità
e dell'umanità contro la barbarie.
Psichiatria e diritti umani
Tra le espressioni di grande sensibilità è, per
me, indimenticabile la dichiarazione
rilasciatami dalla Dott.ssa Agnesina Pozzi (primo medico
e consulente gratuito della famiglia Mastrogiovanni) in una
intervista di qualche anno fa (“A” Rivista Anarchica,
anno 41, n. 364, estate 2011): “l'assoluta mancanza di
privacy, di rispetto, di colloqui col paziente tesi anche alla
ri-valutazione della necessità della contenzione. Colpisce
il paziente che avvicina a sé una bottiglia d'acqua (Mancoletti
Giuseppe n.d.a.) con un piede, l'asciugamano gettato su Franco,
il sangue per terra, l'assoluta mancanza di alimentazione, l'immobilità
della morte. È tutto vergognoso e terribile in quel video”.
Rileggendo quell'intervista della Pozzi si percepisce tutto
l'interesse della professionista per la risoluzione dell'antico
conflitto tra psichiatria e diritti umani, interesse diffusosi
negli ultimi cinque anni nello spazio pubblico, nella ricerca
storica e scientifica. Le riflessioni e i dibattiti promossi
dal “Comitato per Mastrogiovanni” in tutta Italia
hanno contribuito a nutrire anche la giustizia, spostando sul
piano reale, concreto e temporale il dibattito finalizzato non
solo a giudicare individui concreti per crimini concreti, ma
anche noi stessi e la nostra azione politica e civile tesa ad
introdurre nel codice penale il reato di tortura e mettere sotto
accusa la contenzione quale pratica medioevale.
Il caso Massimiliano Malzone
Dopo aver visto il film della Quatriglio, le cui musiche sono
di Marco Messina, Sacha Ricci, 99 Posse, molti penseranno a
quanti pazienti sono scomparsi negli ospedali, civili e meno
civili del nostro Paese, dei quali nessuno ne ha saputo nulla
perché non in tutti i reparti funzionano le telecamere
di videosorveglianza o le apparecchiature telemetriche.
Tra questi sfortunati pazienti, ricordiamo il recente caso di
Massimiliano Malzone, anch'egli cilentano, di Agnone Cilento
(SA), di anni 39, ricoverato il 28 maggio 2015 in regime di
TSO presso la struttura di Sant'Arsenio di Polla e deceduto,
l'8 giugno c.a., per arresto cardiaco. Tante sono le analogie
tra questo caso e quello di Mastrogiovanni e tante anche le
“stranezze”, come le definiscono i familiari. Di
certo sappiamo che due dei medici che operano a Sant'Arsenio
e che avevano in cura Malzone si chiamano Michele Della Pepa
e Raffaele Basso e sono stati condannati, in prima istanza,
nel processo per la morte di Mastrogiovanni, rispettivamente
a due e quattro anni.
L'altra analogia, come racconta la sorella della vittima Adele
Malzone, al Giornale del Cilento (3 settembre 2015), è
che anche in questo caso, come accadde alla nipote di Mastrogiovanni
Grazia Serra ed al suo fidanzato, non è stato permesso
ai familiari di visitare il loro congiunto ricoverato.
Nella stessa intervista la sig.ra Adele racconta che il Dott.
Basso, nel colloquio avuto con lei, ha affermato che al fratello
“gli era stata somministrata una terapia da cavallo, un
qualcosa che veniva normalmente distribuita in tre mesi”.
Difatti, il Dott. Adamo Maiese, lo stesso anatomopatologo che
eseguì l'autopsia sul corpo appartenuto a Franco Mastrogiovanni
ha affermato, nella perizia consegnata il mese scorso alla Procura
della Repubblica di Lagonegro, che: “il decesso non è
da porre in correlazione causale con il trattamento sanitario”,
ma che ci sarebbe una correlazione tra il decesso e i neurolettici
assunti da Massimiliano Malzone. Dai microfoni di Radio Radicale,
emittente che segue da cinque anni tutte le udienze del processo
Mastrogiovanni, sono in tanti a chiedere l'introduzione del
reato di tortura nel codice penale e lo svolgimento di una ricerca,
seria e accurata, che appuri quanti TSO vengono emanati in Italia,
le loro modalità di esecuzione e il decorso post-ricovero
per capire in quanti riescono a ritornare a casa con le proprie
gambe.
Angelo Pagliaro
angelopagliaro@hotmail.com
A proposito della “Buona Scuola”/
L'opinione di CUB e USI-AIT
Dopo i primi mesi di attuazione, pubblichiamo la posizione
sul decreto di riforma della scuola di due organizzazioni del
sindacalismo libertario.
1. CUB Scuola Università
Ricerca
Una valutazione di quanto è avvenuto nella scuola nei
primi mesi di quest'anno scolastico non può prescindere
da come si è chiuso quello precedente.
I punti fermi da cui prendere le mosse possono essere così
ricapitolati:
- La cosiddetta buona scuola e, più propriamente, la
legge 107, è passata nonostante una massiccia mobilitazione
in senso contrario della grande maggioranza dei lavoratori della
scuola, l'opposizione di tutti i sindacati, le grandi manifestazioni
che hanno visto assieme studenti e lavoratori della scuola.
- Nel sentire comune, e in particolare in quello dei lavoratori
della scuola, il governo ha vinto e c'è poco da fare.
Naturalmente, dal punto di vista razionale, si può facilmente
dimostrare che la mobilitazione del passato anno scolastico
non è poi stata questa lotta straordinaria e che la partita
è assolutamente aperta ma sappiamo sin troppo bene che
i luoghi comuni tutto hanno tranne che una rigorosa fondazione
empirica e ciò nonostante funzionano perfettamente nel
senso che orientano l'azione individuale e collettiva.
- Il cuore della legge 107 è lo straordinario accrescimento
dei potere dei dirigenti scolastici attraverso la possibilità
di erogare una significativa quota di salario a propria scelta,
un potere discrezionale nella selezione del personale neo assunto,
la possibilità di scegliere i nuovi insegnanti per la
propria scuola, l'introduzione, nonostante le promesse in senso
contrario, in particolare del ministro Marianna Madia, del Jobs
act nel pubblico impiego e quindi della possibilità di
licenziare i neo assunti anche se su questo particolare punto
il governo sembra intenzionato a fare un passo indietro.
- Una massiccia immissione in ruolo di personale precario secondo
modalità in parte nuove in senso peggiorativo, immissione
che è stata presentata come ricaduta positiva della legge
107, quando è evidente che si tratta essenzialmente di
un modo per chiudere un contenzioso legale che si trascina da
anni e che vede di norma soccombente l'amministrazione con gravissimi
costi.
Le valutazioni precedenti permettono di comprendere, almeno
a mio parere, le ragioni della sostanziale passività
dei lavoratori della scuola nei primi quattro mesi dell'anno
scolastico.
I precari, segmento della categoria normalmente più vivace
della media, erano in attesa di immissione in ruolo che, con
tutte le critiche che possiamo e dobbiamo fare al modo in cui
è stata realizzata, non è certo questione di poco
conto visto che comporta miglioramenti innegabili dal punto
di vista normativo e retributivo e, soprattutto, una situazione
di maggior sicurezza rispetto ad anni di instabilità.
Le principali critiche all'operato del governo per quanto concerne
le immissioni in ruolo, si sono rivolte alla scelta di imporre
ai precari interessati all'assunzione, di dare la propria disponibilità
su tutte le province con l'effetto di provocare un congruo numero
di trasferimenti forzati. Il governo però ha disinnescato
la protesta degli insegnanti sottoposti a provvedimento coatto,
permettendo, a chi aveva una supplenza annuale, di rinviarlo,
appunto, di un anno.
L'assieme di operazioni volte a garantire ai dirigenti scolastici
i nuovi poteri previsti dalla legge 107 si è appena messo
in moto e quindi non c'è un impatto immediato del preside
nuovo modello. In concreto i Collegi Docenti sono chiamati a
scegliere i membri per la componente, appunto, docenti dei Comitati
di Valutazione, organismi che comprenderanno docenti, genitori,
funzionari dell'amministrazione, nelle scuole superiori studenti
e, va da sé, il Dirigente Scolastico.
I Comitati di Valutazione valuteranno, d'altronde si chiamano
così perché valutano, i docenti neoassunti alla
fine dell'anno di prova e, per sovrammercato, definiranno i
criteri sulla cui base i dirigenti scolastici attribuiranno
una quota di salario come premio ai docenti meritevoli.
Due considerazioni sono evidenti:
- i “criteri” saranno interpretati dai dirigenti
come vorranno;
- soprattutto, a fronte di risorse miserevoli per il contratto
di categoria, i premi saranno la quota di gran lunga più
importante dei possibili incrementi della retribuzione.
È sin scontato che un dirigente che seleziona i docenti
che chiedono di trasferirsi da una scuola all'altra, visto che
il trasferimento avverrà su non ben definiti ambiti territoriali
all'interno del quale ognuno tratterà con i dirigenti
delle scuole che gli interessano, che dirige un Comitato di
Valutazione nel quale la componente degli insegnanti è
minoranza, che decide chi premiare e chi no, assumerà
una funzione e un potere affatto diversi dall'attuale.
Contro questa deriva, l'opposizione è difficile perché
si gioca scuola per scuola. La posizione radicale, quella sostenuta
dalla CUB Scuola Università Ricerca per fare un esempio,
e cioè il rifiuto di nominare i docenti nel comitato
di valutazione o, in subordine, il vincolarli alla richiesta
di redistribuire il premio fra tutti i docenti, è, a
mio avviso, politicamente giusta ma si scontra con il “realismo”
subalterno di ampi settori della categoria degli insegnanti
che, visto che la legge 107 è passata ritengono che se
ne debba favorire l'applicazione meno traumatica possibile.
Soprattutto, e questa è la questione centrale, il cartello
dei sindacati istituzionali, CGIL CISL Gilda SNALS UIL, che
vede uniti sindacati confederali e sindacati autonomi, che a
maggio/giugno ha “coperto” la mobilitazione per
non perderne il controllo, ha virato verso una posizione “ragionevole”
proponendo di consegnare la gestione del salario al merito alla
contrattazione fra dirigente e rappresentanza sindacale di istituto.
Nei fatti, il tentativo è quello di reintrodurre la concertazione,
che il governo ha messo in crisi a livello nazionale, nelle
singole scuole e quindi di recuperare uno spazio di manovra
per il sindacalismo, appunto, concertativo.
Situazione di stallo dunque, situazione nella quale i soggetti
in campo stanno valutando il loro riposizionamento.
A mio avviso i possibili punti di crisi sono due:
- una mobilitazione unitaria docenti-studenti sulla base di
una critica forte, esplicita, radicale della scuola delle dirigenza;
- un'iniziativa più sindacale della categoria dei lavoratori
della scuola sulla base della rivendicazione di forti aumenti
salariali e cioè dello spostamento di tutte le risorse
che è possibile spostare sul salario base, quello sottratto
alla valutazione discrezionale del dirigente e, di conseguenza,
sull'eliminazione o, quantomeno, sulla riduzione al minimo possibile,
dei premi al merito e del salario accessorio.
Su questa partita si giocherà la prossima fase, come
si suol dire, il futuro riposa sulle ginocchia degli dei.
Cosimo Scarinzi
Coordinatore Nazionale CUB Scuola Università Ricerca
2.
USI-AIT Settore Educazione
Decisione, fermezza, velocità. Sono state queste alcune
delle strategie messe in atto dal governo per approvare e rendere
legge al più presto la riforma chiamata “Buona
Scuola”. Tuttavia, in un regime dove le parole cambiano
rapidamente di significato, è opportuno decodificare
qualche termine.
Autoritarismo, ottusità, approssimazione, ecco in realtà
ciò che ha caratterizzato l'iter della legge 107/2015
definita “buona scuola”e ciò che a tutt'oggi
la circonda: demansionamento dei docenti, deportazione dei precari,
minacce, punizioni per gli studenti che hanno boicottato le
prove invalsi, susseguirsi di note e aggiustamenti del ministero
in corso d'opera, palese fallimento del progetto governativo
già dai primi passi. In sostanza un progetto educativo
inesistente, a scomputo di un piano di ingegneria sociale da
costruire. La Riforma scolastica Renzi/Giannini fa della valutazione
la sua colonna portante. Ebbene la continua valutazione a cui
si vorrebbe educare gli studenti e assoggettare i lavoratori,
altro non è che uno strumento di controllo, di ricatto,
che viene messo in piedi tramite istituti specifici, affinché
sia eliminato preventivamente ogni conflitto, ogni dissenso.
Chi governa ha bisogno di “impiegati” silenti e
studenti obbedienti.
La riforma scolastica del governo Renzi non è esclusivamente
una formula autoritaria che ricade su studenti e docenti, bensì
una disegno più complesso che mira a porre le basi per
un modello di società specifico. Un progetto che si incarna
perfettamente nelle maglie del “Jobs Act” e che
vuole portare all'accettazione incondizionata di nuove e strumentali
concezioni del “lavoro”. Nel DDL “Buona Scuola”
compaiono, infatti, progetti di alternanza scuola/lavoro; esaltazione
del merito e della competitività. Dotarsi di reti, strutture
ed istituzioni per valutare rimette lo Stato al centro di alcuni
processi sociali; garantisce la gestione di fondi e la possibilità
di assegnare posti di lavoro; rigenera, inoltre, un meccanismo,
quello statale appunto, che si è svuotato di altri significati
che non siano meramente tecnici o repressivi.
Rifiutarsi di valutare e di essere valutati significa sabotare
alla base le funzioni sociali di esclusiva trasmissione di dati
o di ordini cui si è relegati. Significa riaffermare
l'essenza delle identità che si sentono proprie e non
quelle di cui veniamo vestiti.
Proviamo ad immaginare una scuola senza valutazione, ad esempio.
Ciò non eliminerebbe l'apprendimento, la crescita e l'emancipazione
individuale, anzi restituirebbe spessore e qualità alla
sperimentazione e al miglioramento cosciente di se stessi, elementi
che dovrebbero essere alla base di processi educativi liberi
e consapevoli. Invece, la valutazione è la parola d'ordine
di questa riforma; è la parola d'ordine di un nuovo assetto
sociale. Attaccare direttamente i suoi criteri, autorganizzarsi
per sabotarne i meccanismi dovrebbe essere l'orizzonte delle
nuove forme di lotta contro il capitale e in favore di una scuola
“pubblica” e non statale. Si è dimostrato
attraverso il boicottaggio delle invalsi che la prosecuzione
della lotta contro la “buona scuola” è possibile
in modo autorganizzato, cosciente, collettivo e determinato.
Individuare strategie di continuità su questo percorso,
anche a lungo termine, potrebbe costituire uno strumento organizzativo
efficace non solo contro il nuovo modello di scuola che si va
delineando, ma anche contro il conseguente modello di società
che ne scaturirebbe.
Ciò non significherebbe non svolgere il proprio lavoro
di insegnante, in quanto l'elaborato verrebbe ugualmente corretto,
condiviso e spiegato nelle sue eventuali imperfezioni. Si obietterebbe
soltanto a quei criteri di assoggettamento su cui tutta la riforma
si basa. Da questo punto di vista la prima lezione ce l'hanno
data gli studenti, sta ora a chi è tenuto ad accompagnarli
nella crescita cogliere l'importanza e l'originalità
del loro messaggio.
Ad oggi, però, la lotta contro la “buona scuola”
sta attraversando un momento delicato non solo perché
la 107 è stata approvata la scorsa estate ma, soprattutto,
a causa del fatto che numerosi comitati nati dal basso, di studenti
e lavoratori, per gli strani meccanismi di disciplinamento cui
si è sottoposti fin dall'infanzia che fanno credere che
l'unione con tutti e tutte faccia la forza, si stanno apertamente
legando a chi usa la lotta solo in maniera strumentale onde
poter attrarre a sé un maggior numero di voti, sia di
chi ha per mestiere quello di pompiere sociale.
L'Unione Sindacale Italiana sezione educazione è convinta
che affidare la lotta a forze partitiche e a forze sindacali
padronali, sia un grande errore. Si comprende la delusione che
ha comportato l'approvazione della legge, si comprende lo sfinimento
per lotte lunghe ed apparentemente prive di risultati concreti,
tuttavia pensiamo che la sola strada da perseguire, quella realmente
incisiva, sia l'autorganizzazione, sia il rifiuto della delega,
sia cioè la ricerca di nuove forme di lotta che hanno
in sé una carica innovativa non solo sul piano della
rivendicazione sindacale, ma rappresentano un passo in avanti
verso l'emancipazione e liberazione dalla prigione sociale in
cui questo come tutti i governi, vogliono rinchiuderci.
Le compagne e i compagni
di U.S.I.-A.I.T. Settore Educazione
Puglia/
Mobilitazione per due medici “censurati”
Censura scritta per Francesca Mangiatordi e contestazione
di addebiti a Francesco Papappicco per aver divulgato notizie
non autorizzate alla stampa circa i soccorsi della strage
di mafia del 5 marzo 2015 ad Altamura. Siamo in provincia di
Bari, sei feriti gravi il risultato dello scoppio di un potente
ordigno esplosivo alle 00.10 piazzato davanti ad una sala giochi.
Francesco Papappicco, medico del 118 di stanza a Gravina in
Puglia interviene sul paziente più grave, il ventiseienne
Domi Martimucci, giovane promessa del calcio nazionale. Domi
riporta ferite gravissime alla testa e dopo perigliosi percorsi
clinici muore in agosto. Francesco tenta di trasportarlo al
Policlinico di Bari dopo aver chiesto la disponibilità
di un elicottero ma quella bomba ha già innescato altri
meccanismi delicati della Sanità pubblica barese. L'elicottero
non arriverà mai e Francesco è costretto a trasportare
il ragazzo in un ospedale di provincia non attrezzato per neurotraumi.
Francesca lavora nel pronto soccorso di quell'ospedale sulla
Murgia e si sta già occupando dei primi feriti giunti
al nosocomio. Squadre del 118 e operatori sanitari ospedalieri
si dannano l'anima per salvare quelle vite umane. Le professionalità
ci sono ma i mezzi a disposizione risultano proprio in quei
momenti decisamente carenti. Francesco e Francesca sono anche
due sindacalisti e da mesi hanno segnalato carenze ai loro dirigenti
e proposto miglioramenti del sistema di emergenza nei rispettivi
comparti di lavoro. Quella maledetta notte guarda caso tutto
viene a galla e si manifesta nella sua drammaticità.
Le segnalazioni rimaste senza risposta da parte di qualche boiardo
si ripercuotono sulla pelle di quei feriti e dei sanitari in
servizio. Dopo cinque mesi i due medici scomodi ricevono tre
procedimenti disciplinari. Quello di Francesca esita nella sanzione
della censura scritta. Per Francesco, cui non riescono a trovare
un appiglio per poterlo sanzionare, si è ancora in attesa
di sentenza dopo quattro mesi dalla notifica del primo procedimento.
I due medici decidono così di non sottostare al bavaglio
e, catene al cinto, il 3 agosto si legano ai cancelli della
loro ASL. Inizia una lunga protesta a colpi di batti e ribatti
su giornali di controinformazione e udienze con i vertici aziendali.
Volano stracci e la vicenda viene raccontata su un hashtag FB
chiamato #noiduecimettiamolafaccia che riesce a vincere le resistenze
oscurantiste della stampa di regime e ad arrivare al cuore della
gente.
|
Altamura (Bari), 8 novembre 2015 - Momento di agorà
durante la manifestazione popolare di protesta |
Due settimane di sciopero della fame a novembre costringono
la ASL a ritirare il secondo procedimento avviato contro Francesco
che viene “assolto” dal Direttore Generale in persona
e inducono il Governatore della Regione Michele Emiliano ad
“attenzionare” il caso rispondendo con un silenzio
imbarazzato quanto assordante.
Qualcuno tenta di infangare i due medici-libertari quasi tacciandoli
di erostratismo mentre colleghi e firme illustri del giornalismo
scotomizzano il caso. Il velo oscurantista viene squarciato
da Antonio Loconte direttore del “Quotidiano Italiano-Bari”
online e da altri giornalisti di testate locali. Loconte racconta
passo dopo passo ogni episodio della scabrosa vicenda che ha
messo in difficoltà i vertici amministrativi e politici
locali. La rete social e il “Quotodiano Italiano”
online di Loconte riescono a sfondare il muro di omertà
delle istituzioni e raggiungono il cuore della gente che prende
consapevolezza degli attacchi persecutori nei confronti dei
due medici validi e stimati.
Loconte, sagace giornalista d'inchiesta è già
noto per aver ficcato il naso negli scandali della sanità
barese tanto da esser diventato bersaglio di ignoti che gli
hanno recapitato minacce di morte in merito a dossier sul 118.
Prende a cuore la vicenda dei due medici e ne sviscera complotti
e retroscena ai loro danni. Emerge così la costruzione
certosina di un castello accusatorio kafkiano che si smonta
da solo. Il caso “medici incatenati” arriva tramite
la rete in tutta Italia e a questo punto non riguarda più
due persone ma riesce a trasformare in argomento di lotta l'angoscia
e gli interrogativi di quella parte della popolazione che si
sente irrisa e quasi messa sotto accusa per essersi schierata
dalla parte degli “indisciplinati”.
Una marea montante di consensi fa da contraltare a pseudo-analisi
e attacchi personali a tratti feroci. Giustapposizione di due
modi di vedere la vita - asservita o critica e ribelle.
L'8 novembre l'apoteosi per le strade di Altamura: una sollevazione
popolare spontanea senza precedenti per l'arditezza dei toni
e la partecipazione di giovani, bambini e famiglie. Il tema
della mala gestione delle risorse in sanità e dei procedimenti
disciplinari passa quasi in secondo piano rispetto agli slogan
di protesta che campeggiano sugli striscioni che fanno da prologo
e non già da epilogo alla manifestazione.
Catene e sciopero della fame considerati quasi un'oscenità
dalla casta dei medici e dalle istituzioni da una parte, diventano
sorprendentemente un'impresa ardita per la gente dall'altra
che mette da parte un certo gusto dell'impotenza cui il palazzo
l'ha assuefatta per iniziare a ribellarsi.
Francesco Papappicco
Argenta/
Una scuola media (e una città) per Giuseppe Pinelli
Si può parlare di Giuseppe Pinelli in una scuola media?
Non sono troppo piccoli i ragazzi? No, non sono troppo piccoli.
In prima media studiano Omero, in seconda media Dante: c'è
qualcosa di più difficile di Omero e Dante? No. Quindi
possiamo parlare (e diffusamente) anche di Giuseppe Pinelli.
La scuola media di Argenta (Ferrara) non si è limitata
ad affrontare l'argomento Pinelli in classe con i ragazzi –
colmando una piccola lacuna perché nei libri di testo
delle medie Pinelli non sempre c'è.
La scuola ha invitato Claudia Pinelli, la figlia: inoltre questo
incontro è stato inserito in una rassegna sulla storia
contemporanea.
In questo modo abbiamo proposto alla città e agli studenti
diversi incontri su alcuni momenti importanti degli ultimi decenni:
dopo il primo appuntamento con Claudia Pinelli abbiamo parlato
di stragismo con Francesco Barilli e Matteo Fenoglio (che hanno
dedicato a piazza Fontana e piazza della Loggia due graphic
novel); quindi abbiamo discusso del 1977 bolognese con Franca
Menneas (autrice di uno studio sulla morte di Pierfrancesco
Lorusso); del g8 di Genova con Haidi Giuliani; di Federico Aldrovandi
con Patrizia Moretti.
Tre
incontri la sera, due incontri la mattina (con le classi della
scuola).
Per ognuno di questi argomenti stiamo allestendo all'interno
della scuola degli spazi espositivi con materiali di diverso
tipo (le foto per il G8, pannelli sulle diverse vicende processuali
– da piazza Fontana a Federico Aldrovandi, schede storiche,
i disegni di Matteo Fenoglio sullo stragismo, i disegni degli
studenti che si ispirano alle tavole di Fenoglio ecc.).
Per il momento lo spazio più curato è “l'area
Pinelli”: 4 pannelli riassuntivi relativi al contesto
storico; la riproduzione dell'opera di Enrico Baj; i disegni
di Franco Fortini del funerale di Pinelli; la scheda riassuntiva
dell'iter processuale di piazza Fontana. Ma metteremo ancora
altri documenti.
Noi ci siamo divertiti parecchio: non solo con i ragazzi (che
hanno svolto un laboratorio nel corso di arte sui disegni di
Fenoglio). È stato un vero e proprio corso di aggiornamento
e ha avuto un impatto molto forte. I due incontri alla mattina
- pensati principalmente per i ragazzi - sono stati quello su
Bologna e quello sul G8, con Haidi. Haidi ha parlato per due
ore (due ore) con i ragazzi: ha risposto alle domande (alcune
anche molto ingenue – ma lei era lì per questo)
e ha toccato molti argomenti – il concetto di legalità,
l'uso della violenza, la Diaz, Bolzaneto e naturalmente ha parlato
anche di Carlo. Al di là dei nostri percorsi biografici
(alcuni di noi erano a Genova) tutti gli insegnanti coinvolti
nella mattinata sono rimasti colpiti dalla tranquilla determinazione
di Haidi.
L'incontro con Claudia invece l'abbiamo tenuto alla sera: in
platea c'era molta gente e anche un gruppetto di ragazzi. Claudia
è stata molto brava, come sempre. In giugno l'avevamo
già sentita a Massenzatico, alla festa della rivista:
nei due incontri c'era una platea diversa ma ciononostante anche
ad Argenta è stata dura, tagliente e diretta. E non ha
risparmiato le critiche. Ci è piaciuta molto.
Per Giuseppe Pinelli la scuola si è mossa anche in un'altra
direzione: il 16 dicembre nella sala del consiglio comunale
di Argenta, alla presenza dei rappresentanti di 3 comuni (Argenta,
Portomaggiore, Ostellato) ha organizzato una commemorazione,
nell'anniversario della morte.
L'assessore alla cultura Giulia Cillani e la preside della scuola
hanno presentato l'iniziativa, poi chi scrive ha raccontato
in modo molto informale quello che è stato organizzato
dalla scuola: nel discorso commemorativo abbiamo fatto semplicemente
il punto sulle attività svolte nei mesi precedenti. Ma
quel che conta, secondo noi, al di là della retorica
(speriamo contenuta) è la valenza simbolica del luogo
in cui eravamo (il consiglio comunale) e la presenza delle istituzioni
con i rappresentanti di tre Comuni (Antonio Fiorentini, sindaco
di Argenta; Elena Rossi, assessore alla cultura di Ostellato;
Nicola Minarelli, sindaco di Portomaggiore).
Alla commemorazione erano presenti anche Claudio Mazzolani dell'Archivio
storico Fai (Imola) e Domenico Gavella di Ravenna. A Domenico
inoltre si deve un intervento (durante il dibattito) veramente
notevole.
In questi mesi abbiamo portato la discussione anche “fuori”
la scuola:
presso la biblioteca Bertoldi abbiamo allestito la mostra di
30 tavole di Matteo Fenoglio (sullo stragismo);
presso il Centro culturale Mercato abbiamo preparato una mostra
di foto di Uliano Lucas e una esposizione di riviste e libri
legati al periodo storico (tra le altre cose il numero di «Lotta
continua» del 20 dicembre 1969, i vari libri di Stajano,
Cederna, i libri sulle stragi, alcuni dischi in vinile, i libri
sul g8 ecc.). Avremmo voluto anche organizzare la proiezione
del documentario Sfiorando il muro di Silvia Giralucci
ma per il momento questa iniziativa è stata sospesa.
Vedremo in seguito.
Ma la vera commemorazione di Pinelli da parte della scuola forse
è un'altra: la sezione di storia contemporanea della
biblioteca della scuola media di Argenta verrà intitolata
a lui.
I libri che abbiamo raccolto (una mole interessante, e per il
numero e per la qualità) non li depositiamo fisicamente
nella biblioteca della scuola. Metteremo il catalogo in rete:
chi è interessato a qualche testo lo richiede, noi lo
portiamo a scuola e lo diamo in prestito. Si tratta di una biblioteca
virtuale ma attiva. I testi li abbiamo e sono di valore.
In conclusione abbiamo “occupato” diversi spazi
della città: dalla biblioteca al Centro culturale Mercato,
dalle aule dei liceo (dove ci hanno ospitato in tre classi per
la presentazione dell'attività), alla stessa sala del
Consiglio Comunale. Per non parlare delle classi della scuola
media – dove abbiamo svolto diversi momenti di riflessione.
Per questo non ci pare eccessivo dire che non solo la scuola
di Argenta ma anche la città di Argenta si è mossa
concretamente in memoria di Pinelli. Una scuola e una città
per Pinelli, potremmo dire dunque - aspettando il momento in
cui gli verrà dedicata finalmente una strada o una piazza.
Pierpaolo Scaramuzza
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