Cop 21
Il clima al centro (delle chiacchiere)
scritti di Alberto Di Monte, Adriano Paolella/Zelinda Carloni e Dimitri Roussopoulos installazioni e foto di Isaac Cordal
La Conferenza internazionale sul clima, tenutasi a Parigi a cavallo tra novembre e dicembre, ha messo in luce le responsabilità dei governi e delle multinazionali per la grave situazione ambientale e sociale.
È un intero modello economico, politico e sociale che ha fallito. Quindi....
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Abrantes (Portogallo), 2014 - Isaac Cordal, 180 Creative Camp |
Tante
truffe, una conferenza
di Alberto Di Monte
La conferenza parigina sul clima si è
conclusa, dopo tredici giorni, con la firma di una carta di
intenti.
Ma in che modo si è proposta di arrestare il cambiamento
climatico e con quali strumenti?
Un'analisi della conferenza Cop21, al di là del suo successo
mediatico.
Il risultato istituzionale era prevedibile e al tempo stesso non scontato: contenimento del surriscaldamento climatico entro i due gradi, tetto scalare ai gas serra nel secolo che viene, conferenze di controllo quinquennali, stanziamento di 100 miliardi all'anno ai paesi “in via di sviluppo” per l'efficientamento energetico e l'attuazione di politiche sostenibili. Oltre 190 i paesi che hanno prima firmato la carta d'intenti e subito dichiarato il successo del loro operato a reti unificate, non ultimo una completa assenza di strumenti per agganciare al nostro inquinato suolo le parole spese nell'arco di tredici giorni di Conferenza. Facciamo un passo indietro...
Ipotesi di lavoro
Cominciamo con un esercizio: ammettiamo, a titolo d'esempio, che il Protocollo di Kyoto e le sue successive implementazioni, abbiano funzionato. A dispetto del titolo, proviamo a guardare al ciclo di Conferenze sui cambiamenti climatici non con gli occhi speranzosi di un'umanità spaventata dall'instabilità del clima, ma con quelli funzionali di un'economia asfittica, in cerca di giustificazioni per promuovere un massiccio intervento pecuniario, culturale e normativo con la copertura politica della febbre del pianeta. I mercati di emissioni, e la loro recente derivazione finanziaria, il trasferimento di tecnologie dai paesi del nord ai paesi del sud, la promozione di un indice di produzione e assorbimento equivalente di CO2, non hanno risolto e non risolveranno l'aumento di temperatura del pianeta. L'unica flessione verificabile delle emissioni si ebbe nel (solo) anno 2011, quando il drago cinese subì con più forza l'impatto della crisi economica. Le politiche messe in campo in ventitré anni di COP, servivano semplicemente ad altro: creare nuovi sbocchi di mercato e dare così fiato, oltre che legittimità ad un'iniezione, ulteriore, di finanza e tecnocrazia, nel panorama delle cure per la Terra. Sotto questa lente d'osservazione, la grande attenzione mediatica di cui ha goduto la Conferenza parigina acquisisce un significato ulteriore: la ricerca di un accordo vincolante per i paesi in via di sviluppo rappresenta solo la prima parte della sfida presente, lo step ulteriore è la legittimazione (con l'orizzonte della sostenibilità) dell'ennesima iniezione di finanziamenti pubblici e investimenti privati per il rilancio di progetti di green-economy.
La terra
Sappiamo dell'esistenza del fenomeno volgarmente noto come “effetto serra” da oltre un secolo, abbiamo capito col passare dei decenni che la causa determinante era l'innalzamento percentuale della CO2 in atmosfera, sappiamo oggi che questo innalzamento è originato dalle attività umane. Agricoltura, industria, trasporti... non sono che le prime voci del bilancio energivoro delle nostre attività, un bilancio che sta intaccando la composizione fisica e chimica degli ecosistemi che insistono sui territori con una rapidità ieri sconosciuta. Di fronte all'evidenza qualcuno insiste: e se non fosse l'uomo il problema? Voi rispondetegli “nulla cambierebbe”. Poniamo, per semplice esercizio mentale, che il contributo di oltre 7 miliardi di esseri umani sia irrilevante e che i gas climalteranti siano l'effetto secondario delle flatulenze di un enorme mostro marino nascosto nel fondo della Fossa delle Marianne; il problema non si sposterebbe di un millimetro. Per quel che ne sappiamo oggi, tra i viventi più impreparati ad affrontare il cambiamenti ci sono gli umani, se vogliamo sopravvivere su questa terra, tocca prendere delle misure per invertire la rotta oggi. Di ritorno dal mondo delle favole, è il momento di scegliere tra la gamma di soluzione offerte della stessa economia materiale e finanziaria che ha avvelenato la terra e un'inversione di tendenza utile a ricomporre l'equilibrio del nostro stare al mondo dentro comunità simbiotiche con i territori che ci ospitano.
La guerra
Tra le 21.16 e le 21.55 dello scorso 13 novembre, una serie di esplosioni e sparatorie hanno sconvolto diversi quartieri della capitale francese. A dieci mesi dall'attentato a Charlie Hebdo, una Parigi sempre più spaventata dall'aggressività di Daesh, risponde convocando uno stato d'emergenza straordinario di tre mesi. “Sovrano è chi decide dello stato d'eccezione” si sarebbe detto un tempo. Oggi, nell'era della crisi degli stati-nazione, della globalizzazione della paura, dei muri edificati sulle macerie di quelli abbattuti, la sentenza è più attuale che mai. Il fanatismo religioso porta la strage nel cuore d'Europa, la commozione nazionale legittima il discorso bidimensionale del “noi” e del “loro”, costringendo ciascuno a prendere posizione, a scegliere un nemico e un alleato. La COP è stata confermata, fortificata da una valenza simbolica ieri assente, ogni manifestazione è immediatamente proibita (317 gli arresti nella sola giornata del 29 novembre) mentre venti di guerra soffiano impietosi.
Dentro la reazione solo apparentemente inevitabile alla politica del terrore, cresce la politica del nemico interno: il viaggiatore, il migrante, il manifestante non sono che le prime impersonificazioni di un “sospetto” assolutamente collettivo e, in potenza, universale. Siamo tutti vittime, potenzialmente tutti carnefici, almeno agli occhi dello stato che estende l'emergenza pianificata dai dodici giorni del limite di legge all'intera stagione.
I corpi
Dopo anni di oblio, nella sovraesposizione massmediatica di quelle ore, la corporeità resta la grande assente. Ai discorsi, ai palchi, alle promesse d'impegno, non corrispondono nel format prescelto le piazze e i loro temi, non corrisponde l'esodo dei profughi climatici né alcun riferimento alle conseguenze presenti e tangibili dello scioglimento dei ghiacciai, delle siccità che innescano povertà e rivolte, dei fenomeni climatici estremi e delle loro conseguenze. Il corpo non è in piazza e non è quindi parte in causa nel discorso televisivo dei capi di stato. A sei anni dal tradimento della COP15 di Copenhagen, a un anno dalla più snobbata delle Conferenze a Lima, duecentomila persone erano previste a Parigi per le due manifestazioni in occasione dell'apertura e chiusura del meeting. Il corteo non autorizzato del 29 novembre s'è concluso con 317 arresti, quello del dodici dicembre si è tenuto nonostante l'assoluto divieto di scendere in piazza. Perché anche di questo c'è bisogno, di scavare più a fondo del discorso della speranza (e di quello a lui speculare della paura) e di riportare in piazza il corpo, nonostante il discorso della speranza e della paura.
La Conferenza e chi ne sta fuori
Obiettivo dichiarato delle tredici giornate di lavori era la firma di un accordo capace di sostituire il Protocollo di Kyoto (in scadenza nel 2020). Il documento, frutto delle intenzioni già espresse dai delegati degli oltre duecento stati partecipanti nelle diverse tappe della fase negoziale, dovrebbe prevedibilmente essere ispirato a due criteri: 1) per la prima volta siano indicati limiti vincolanti di emissioni anche per i paesi in via di sviluppo, 2) contenere il riscaldamento globale entro i due gradi centigradi.
Tra il 16 e il 18 novembre le dichiarazioni di Hollande hanno chiarito che le restrizioni alle libertà dei cittadini francesi e dei climattivisti pervenuti per la COP saranno sacrificate sull'altare di un evento a misura di lobby e ministeri, non di movimenti e associazioni. I gruppi di pressione sono così posti sotto scacco, mentre sponsor come Renault-Nissan o Total avocano a sé la carta del dibattito sulla sostenibilità attraverso gli eventi collaterali alla COP... e la copertura del 20% dei costi della macchina organizzativa, secondo le stime elaborate dall'ONG Transnational Institute.
Proprio le ONG esterne al forum istituzionale si sono date appuntamento per le giornate di mobilitazione al “104”, uno spazio offerto dal comune per momenti di confronto, workshop, formazione. Tra le sigle aderenti Climate Justice Action, Climate Justice Network e altre 130 sigle riunite nel cartello “Coalition Climat”. Al di fuori degli spazi di agibilità concessi dall'amministrazione locale, la parola è ai collettivi ed alle assemblee che fanno riferimento ai siti web anticop21.org e paris-luttes.info, attiviste ed attivisti che non ripongono alcuna fiducia nell'esito della Conferenza ma che collegano l'emergenza climatica allo stato di emergenza in sperimentazione nel paese. Il 12 dicembre, nonostante i divieti imposti sino all'ultimo minuto dallo stato d'urgenza, ventimila persone si convocano sull'Avenue de la Grande Arméè per un presidio che presto sfocia in un corteo spontaneo in direzione della Torre Eiffel dove alle 14 è prevista l'unica mobilitazione concessa per la giornata di chiusura della COP. Tra sit-in, improvvisati comizi e artigianali coreografie, il muro del silenzio e con esso la cappa di lutto della capitale francese, sono spezzati dalla forza di migliaia di climattivisti. Alle 17 un corteo spontaneo di denuncia dei 26 obblighi di dimora comminati dieci giorni prima, parte da Belleville (salvo essere poi imbrigliato da un paranoico dispositivo di polizia) il tutto si svolge comunque senza incidenti, anche grazie alla grinta trasmessa dalla samba-band.
Contraddizioni
Le contraddizioni in seno alla governance energetica
saldamente ancorata ai combustibili fossili affiorano ai margini
del meeting, eppure sia gli investimenti dei paesi più
inquinanti sul globo, sia la cappa di silenzio sullo stato di
emergenza paiono non preoccupare i commentatori più distratti.
Le bozze dei primi di dicembre del documento parigino già
confermavano la nociva attualità di concetti quali “mitigazione”
e “compensazione” e il dimagrimento delle politiche
di contrasto diretto del mutamento in atto. Intanto il limite
delle 480 parti per milione di CO2 nell'aria cresce ad ogni
respiro, indifferente al confronto geopolitico in atto: il successo
mediatico è probabile, quello climatico e democratico
ben più distante.
Alberto Di Monte
Alberto Di Monte è attivista della rete NoExpo e
del Laboratorio Off Topic
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Berlino
(Germania), 2011 - Isaac Cordal, Follow the leaders |
Mutamenti
e mutanti
di Adriano Paolella e Zelinda Carloni
Se agiremo in modo “intelligente”
sarà possibile contenere gli effetti del cambiamento
climatico e, tra qualche decennio, stabilizzare la situazione.
Forse, successivamente, anche invertirne la tendenza. Ma, per
i prossimi anni, diamo per scontato un peggioramento complessivo
della vita per miliardi di persone.
Il concretizzarsi di questa situazione emergenziale è
la prova che gli attuali modelli economici, politici e sociali
hanno fallito.
È già avvenuto
Parlando di cambiamenti climatici è utile premettere
che si sta parlando di un tema i cui effetti sono già
in atto da tempo. Non si può parlare oggi degli effetti
dei comportamenti umani sul clima come se ne parlava negli anni
settanta, in cui si prospettava lo scioglimento dei ghiacci
perenni, inondazioni, cicloni, precipitazioni “anomale”,
aumento della temperatura globale. Tutto ciò è
ormai una tangibile realtà, e quelle che erano previsioni
sono ora solo constatazioni: le anomalie sono diventate regola.
Ma premessa fondamentale è che questa condizione andrà
peggiorando per le prossime decine di anni, e ormai indipendentemente
dalle attività umane. Se faremo delle cose “intelligenti”
è possibile contenere gli effetti e, tra qualche decennio,
stabilizzare la situazione e forse, successivamente, invertirne
la tendenza.
Ma diamo per scontato nei prossimi anni un peggioramento complessivo
della vita per miliardi di persone nel pianeta.
La situazione in alcuni casi è irreversibile o reversibile
in centinaia di anni, ma si deve altresì prendere atto
che, se non interveniamo, tutto ciò può peggiorare.
I governi hanno fallito
I governi hanno fallito perché non sono riusciti ad evitare,
qualora avessero davvero voluto farlo, il concretizzarsi di
condizioni ampiamente anticipate. E ne sono così consapevoli
che in gran parte dei documenti ufficiali concordati a Parigi
si parla di adattamenti e di mitigazioni. Quindi, in parallelo
all'obiettivo della riduzione delle emissioni e al conseguente
contenimento delle temperature, l'attenzione si concentra sulle
modalità di riduzione degli effetti negativi agendo preventivamente
sulla difesa da essi.
Ma alcuni di questi effetti, legati alla modificazione delle
temperature e all'andamento delle precipitazioni, trasformeranno
i caratteri di intere regioni del pianeta e per i quali sembra
difficile che si trovino soluzioni mitigative o di adattamento
per tutti i territori (costi di intervento) e per tutti i fenomeni
(ampliamento dei deserti, innalzamento del livello del mare)
come molte situazioni già mostrano.
Fino ad oggi i governi dei paesi non sono riusciti ad avviare
percorsi di inversione dei fenomeni e il concretizzarsi dell'attuale
situazione è il più grande fallimento del modello
economico, politico e sociale vigente, la manifestazione concreta
della sua totale incapacità di curare gli interessi comuni.
Perché?
I governi hanno avuto un'occasione d'oro.
Il tempo utile dell'intervento era circa quaranta anni fa, dopo
la “crisi del Golfo” e il conseguente innalzamento
del costo dei combustibili fossili. Allora vi erano già
le condizioni per superare la schiavitù dal fossile e
la crisi fu un enorme contributo alla riflessione relativa a
come questa dipendenza potesse essere pericolosa. Già
vi erano segnali significativi sulle condizioni di alterazione
dell'atmosfera ed era il momento adatto. Se si fosse intervenuti
allora, oggi avremmo una situazione molto diversa.
I governi hanno ascoltato le sirene dei commercianti.
Successivamente, quando tutti gli scienziati mondiali indicavano
l'enorme rischio che si stava concretizzando, i governi hanno
tergiversato, utilizzando anche le limitate voci dei negazionisti
finanziati dai grandi commercianti di combustibili fossili,
prima negando l'esistenza del problema, poi sostenendo che non
fosse determinato dall'azione umana, infine riducendone le dimensioni
fino a farle sembrare trascurabili.
I governi hanno incominciato a parlare incerti.
Quando il problema dei mutamenti climatici è stato riconosciuto
come tale, le azioni dei governi sono state incerte e frammentarie.
Per convincere gli Stati Uniti, all'epoca il più grande
consumatore di combustibili fossili, ci è voluto un ventennio,
molto di più che per convincere alcuni “paesi in
via di sviluppo”. Ma anche paesi per i quali i combustibili
fossili rappresentavano solo fonte di debiti in quanto importatori
(vedi l'Italia) non hanno mostrato alcuna capacità di
sottrarsi da percorsi usuali conformati su interessi precisi,
quelli dei petrolieri, ritenuti erroneamente insostituibili.
I governi hanno continuato a giocare con il mercato.
Infine, le ipotesi operative praticate da gran parte dei paesi
negli ultimi anni hanno seguito le medesime logiche del mercato
ipnotizzati dall'idea che si possano trovare soluzioni esclusivamente
all'interno dei criteri da esso adottati (convenienza economica
e profitti). Ad esempio, si è cercato ostinatamente di
attivare il mercato delle “non emissioni”: un impegno
enorme per valutare e commercializzare il “non emesso”
che non è stato nella maniera più assoluta di
alcun vantaggio per le condizioni dell'ambiente (che sono continuate
a peggiorare).
Ce la faranno ora?
I risultati di Parigi sono apprezzabili (in ritardo, limitati,
ma apprezzabili, in quanto danno, se non altro, un segnale di
impegno), ma vi sono dei nodi che non sono stati superati e
che potrebbero limitare fortemente l'esito dell'azione ipotizzata.
Il nodo dell'efficienza.
A Parigi hanno svolto un ruolo (come si legge in altri contributi
presenti in questo dossier) non marginale anche le grandi aziende
private. L'ipotesi che viene perseguita è che, prendendo
atto che coloro i quali controllano gran parte della produzione
e della commercializzazione delle merci sono pochi soggetti,
se ciascuno di essi si impegna a migliorare la propria efficienza
sulle emissioni, anche di una percentuale minima, questa sarà
rileggibile a livello planetario.
Questa è una ipotesi verisimile perché effettivamente
il mercato è oggi governato da un numero ridotto di soggetti.
Il nodo è che il miglioramento che viene richiesto, e
da molte aziende già praticato, è quello sull'efficienza
del processo produttivo e del prodotto; ovvero, produrre con
meno emissioni merci che nel loro funzionamento “emettono”
di meno. Questa condizione è necessaria ma non è
sufficiente per risolvere il problema, in quanto all'aumento
dell'efficienza può corrispondere un aumento dei prodotti
e della produzione che riassorbirebbe (cosa che è successa
negli ultimi venti anni) ogni miglioramento per unità
di prodotto.
Non tutto è controllato.
Alla questione precedente si aggiunga che le aziende, per gran
parte dei casi, sono attente alla qualità del loro processo
produttivo e del loro prodotto ma spesso utilizzano risorse
che sono state prelevate e trattate senza alcuna attenzione
sociale e ambientale e tutte hanno difficoltà a definire
strategie per il fine vita delle merci. Inoltre, come mostrato
da gran parte dei prodotti cinesi, le aziende occidentali hanno
negli ultimi decenni utilizzato componenti o commercializzato
prodotti che sono stati fabbricati in altre parti del mondo
e che mai hanno garantito qualità e attenzione all'ambiente
(oltre ad esser essi stessi di qualità modesta o infima).
Il nodo dell'eliminazione degli sprechi.
Mai è stato affrontato il tema della quantità
dei consumi e dell'enorme spreco di risorse, materiali, merci
che il sistema consumistico comporta. Lo spreco è parte
integrante del modello (si veda l'obsolescenza programmata)
e non vi è ripensamento su questo tema. Eppure eliminando
anche solo il 20% della produzione delle merci, ovverosia quella
parte che in maniera del tutto sottostimata è inutilizzata,
si ridurrebbero del 10% le emissioni planetarie e quindi di
fatto si risolverebbe il problema delle emissioni.
Ma parlare di riduzione è insostenibile per questo modello
e quindi si cerca una quadratura molto più difficile
di quella facilmente praticabile (definire il “tempo minimo
ambientale di durata” delle merci).
Ce la faremo?
In questo momento nel mondo ci sono centinaia di milioni di
persone che si comportano in maniera diversa da quella imposta
dalla società dei consumi.
Queste persone fanno di tutto per ridurre il proprio “peso”
ambientale nel pianeta cercando di discernere le azioni che
portano un effettivo benessere da quelle che sono solo indotte
da un mercato aggressivo.
Se a queste si uniscono coloro i quali, anche inconsapevolmente,
praticano modelli di vita soddisfacenti non succubi della società
dei consumi, si arriva a miliardi di persone.
Se si riesce a spostare il problema dei cambiamenti climatici
dai tavoli tecnici all'interno del tessuto culturale, politico,
sociale della collettività è possibile che si
possa finalmente invertire la tendenza e iniziare a recuperare
i danni.
Adriano Paolella
Zelinda Carloni
Adriano Paolella e Zelinda Carloni sono due “storici”
collaboratori di “A”, autori - tra l'altro - della
serie di dossier “Contro
la globalizzazione”
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Malmö (Svezia), 2014 - Isaac Cordal, ArtScape |
A
proposito di Cop21
Durante
la Conferenza sull'ambiente e lo sviluppo delle Nazioni
Unite (UNECED) tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, a cui
hanno preso parte 195 paesi, sono state stipulate tre
convenzioni quadro:
- la Convenzione sulla diversità biologica (CBD);
- la Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la
desertificazione (UNCCD);
- la Convenzione sul cambiamento climatico (UNFCC).
Per ognuna di queste convenzioni sono state previste delle
Conferenze delle parti ovvero incontri a periodicità
fissa tra gli stati aderenti, durante le quali è
possibile discutere, negoziare e approvare protocolli
per migliorare l'efficacia delle Convenzioni.
La 21° Conferenza delle parti (Cop 21) tenutasi a
La Bourget, vicino a Parigi, tra il 30 novembre e il 13
dicembre scorso è relativa alla Convenzione sul
cambiamento climatico (UNFCC), considerato il più
importante trattato internazionale sul clima; il suo obiettivo
principale sarebbe quello di “stabilizzare le emissioni
di gas serra nell'atmosfera” in modo da evitare
“pericolose interferenze antropiche con il sistema
climatico”.
A partire dalla prima Conferenza delle parti, tenutasi
a Berlino nel 1995, sono emerse preoccupazioni sulla reale
efficacia della Convenzione (UNFCC), anche a causa della
sua natura non vincolante per i paesi firmatari. Per questo
motivo, le successive Conferenze delle parti si sono dichiarate
orientate alla stipulazione di regolamenti che fossero
vincolanti per i paesi sottoscrittori.
Nel 1997 durante la Cop 3 tenuta a Kyoto (Giappone) è
stato redatto un protocollo che avrebbe vincolato i paesi
firmatari. Il protocollo, dettagliato nel 2001 durante
la Cop 7 di Marrakesh (Marocco) ed emendato a Doha (Qatar)
durante la Cop 18, prevedeva la riduzione delle emissioni
di gas serra per i soli paesi industrializzati attraverso
meccanismi di compravendita delle emissioni di gas serra.
Il protocollo di Kyoto (la cui data di scadenza è
fissata per il 2020) ha creato un sistema denominato “cap
& trade” (entrato in vigore con la direttiva
europea 2003/87/CE) che riguarda i grandi impianti industriali,
i settori di produzione di energia elettrica e termica
e le compagnie aeree; il sistema ha fissato un limite
massimo di emissioni consentite a tutti i soggetti vincolati,
ma permette anche ai partecipanti di acquistare e vendere
diritti di emissione.
L'obiettivo posto dalla Cop 21, tenutosi alla fine del
2015, doveva essere quello di stilare un documento che
impegnasse tutti gli stati, non solo quelli industrializzati,
e che sostituisse il protocollo di Kyoto a partire dal
2020; il fine era di stipulare un piano per scongiurare
l'aumento della temperatura terrestre oltre i 2°C.
Durante gli incontri dello scorso anno a Lima (Cop 20),
a tutti i paesi partecipanti è stato chiesto di
preparare un proprio piano di riduzione delle emissioni
di gas serra; l'insieme delle proposte è poi confluito
nell'accordo stilato durante la Cop 21 di La Bourget (Parigi).
Secondo alcuni osservatori, l'accordo non impedirà
alla temperatura terrestre di aumentare oltre i 2°C
nei prossimi anni.
Fonti: unfccc.int,
cop21paris.org,
cbd.int,
onuitalia.it,
enea.it,
climateactiontracker.org |
Cambiare il sistema, non il clima
di Dimitri Roussopoulos
La Conferenza internazionale sul clima, tenutasi
a Parigi tra fine novembre e inizio dicembre, ha messo in luce,
tra l'altro, ambiguità, ritardi e limiti delle politiche
dei governi e delle multinazionali. Ad alcuni eventi legati
a Cop 21 ha partecipato anche un anarchico greco, attivo da
decenni a Montreal (Canada), anima della casa editrice Black
Rose Books. Ecco il suo resoconto.
Dopo la conclusione delle cerimonie, il giorno dopo la scadenza
per l'accordo internazionale tra i delegati di 195 paesi, le
strade di Parigi si sono riempite di manifestazioni non autorizzate.
Non è stato un accordo storico, anche se per la prima
volta, da quando negli anni Sessanta gli scienziati hanno iniziato
a metterci in guardia sui pericoli atmosferici e le loro conseguenze,
i burocrati statali hanno ammesso apertamente che gli studi
erano fondati, così come l'urgenza. Niente più
negazioni.
Il 13 dicembre Parigi era ancora in uno stato di polizia, con
militari armati in giro per tutta la città. Nonostante
questo, due dimostrazioni di massa hanno avuto luogo, durante
le quali lo slogan “Cambiare il sistema, non il clima”
veniva pronunciato ancora e ancora.
Cosa significa per il futuro del pianeta il nuovo accordo lungo
35 pagine? Gli scienziati che hanno monitorato da vicino le
discussioni tenutesi a Parigi hanno affermato che non è
stato l'accordo di cui l'umanità sentiva davvero il bisogno.
Da solo, non rimedierà alla drammatica situazione. Sorpresa!
La calotta polare è ancora in pericolo, il livello degli
oceani, pieni di rifiuti galleggianti, continua ad aumentare,
decine di migliaia di persone muoiono a causa di ondate di caldo
o alluvioni, il sistema agricolo che alimenta 7 miliardi di
persone è a rischio, mentre le multinazionali che dominano
la produzione di cibo continuano a spingere per intraprendere
la strada delle monoculture sommerse di fertilizzanti chimici.
Anche se era presente un senso di urgenza, come dimostrato nella
zona blu dei negoziati a La Bourget, così com'è
il trattato internazionale non entrerà in vigore fino
al 2020.
Cinquant'anni fa il primo avvertimento inerente al riscaldamento
climatico arrivò sulle scrivanie dei capi di stato e
fu presto dimenticato. L'attuale sistema economico-politico
mondiale è semplicemente troppo lento nell'affrontare
la realtà. Verranno fatti alcuni progressi dopo COP 21,
ma è troppo poco troppo tardi; è terribilmente
necessario un altro piano d'azione.
La COP 21 ha apertamente ammesso che le maggiori multinazionali
devono guidare lo sforzo collettivo. Lo stato chiede al sistema
capitalistico mondiale una soluzione e una direzione, pensate
un po'! Nella zona verde a La Bourget alcune multinazionali
hanno messo in scena le loro supposte virtù, atteggiandosi
da pionieri di tecnologie alternative, insieme a fondazioni
e organizzazioni non-governative impegnate in vari programmi
“per fare del bene”. Possiamo realisticamente aspettarci
che questo gruppo di soci ci guidi lungo una strada coscientemente
ambientalista?
Un target molto alto
Le emissioni di gas serra – in primis quelle di biossido
di carbonio derivanti dalla combustione di combustibili fossili
e dalla distruzione delle foreste – sono aumentate per
decenni, interrotte solo lievemente dalle crisi economiche.
Si sono stabilizzate quest'anno ed è previsto che calino
dello 0,8% a causa dell'ammorbidimento nell'economia cinese.
Nonostante ciò, il 2015 è stato l'anno più
caldo mai registrato nella storia, battendo il record raggiunto
solo l'anno prima. Tutti i dieci anni più caldi registrati
a partire dal 1880 si sono avuti dal 1998. Nessuna persona sotto
i trent'anni ha mai sperimentato un mese con temperature al
di sotto delle medie del 20esimo secolo.
Le due settimane di conferenza delle nazioni unite che si sono
svolte a Parigi, si sono focalizzate sui vari pericoli naturali
associati al cambiamento climatico: clima estremo, forti siccità,
il riscaldamento dei mari, la distruzione delle foreste pluviali,
la compromissione della produzione di cibo. Ma il riscaldamento
globale ha già avuto un altro effetto: gli spostamenti
su larga scala delle popolazioni, un argomento infausto e politicamente
sensibile che si è ritrovato sottotraccia in tutti i
dibattiti di Parigi e negli eventi ad essi collegati. La siccità
durata dal 2006 al 2011 in quasi tutta la Siria è stata
citata come una delle cause della perdurante guerra civile che
ha alimentato le migrazioni di massa in Turchia, in Libano,
in Giordania e poi in Occidente.
L'accordo di Parigi fissa un target molto alto dichiarando che
l'aumento della temperatura mondiale deve essere mantenuto “molto
al di sotto” dei 2°C, e che i paesi dovrebbero provare
a spingersi oltre, limitando il riscaldamento a 1,5°C (l'Arabia
Saudita si è rifiutata di riconoscere questo obiettivo).
Gli scienziati hanno affermato che per limitare il riscaldamento
globale, raggiungendo il limite più alto (2°C), le
emissioni industriali di gas serra dovranno cessare all'incirca
per il 2050; per raggiungere il limite più basso (1,5°C),
dovranno farlo entro il 2030.
Ma è previsto che i siti di produzione di energia a carbone
che si stanno costruendo oggi funzioneranno dopo il 2050 e le
compagnie petrolifere stanno spendendo miliardi di dollari l'anno
per trovare nuove riserve che non potranno essere utilizzate
se si vogliono raggiungere gli obiettivi. Una campagna seria
in favore del raggiungimento dell'obiettivo più ambizioso
porterebbe, entro due decenni, gli stati nazionali a mettere
fine alle macchine a benzina, ai siti di produzione di energia
a gas o carbone nella loro forma odierna, agli aerei e alle
navi alimentate a combustibili fossili. I paesi hanno delineato
piani che non si avvicinano minimamente a questi obiettivi,
e dato l'odierno livello tecnologico, è difficile capire
come potranno raggiungerli.
La COP 21 ha delineato un cambio di attenzione nei confronti
del mercato capitalistico, indicandolo come partner dello stato;
sono diversi i fattori che ci mostrano questo cambiamento. Gli
osservatori della società civile hanno denunciato con
parole e documentazioni il palese matrimonio tra stato e capitale,
con pubblicazioni come “Lobby Planet Paris – una
guida su COP 21 – informazioni sui principali criminali
climatici. Mappe dei punti chiave delle lobby. Sguardo agli
sponsor di COP 21”, “COP 21 – Le compagnie
multinazionali possono salvare il clima? Studio dei principali
sponsor di COP 21”, “Fare il colpaccio – chi
paga il costo reale del petrolio, del carbone e del gas?”.
In un articolo apparso in Le Monde Diplomatique (dicembre 2015),
l'autore Charles Bonneil afferma: “Nonostante le numerose
guerre distruttive, il capitale è aumentato 134 volte
tra il 1700 e il 2008 e forse questa corsa all'accumulazione
ha innescato la trasformazione della Terra. Secondo le recenti
pubblicazioni del sociologo Jason W. Moore e dello storico Andreas
Malm, “Capitalocene” è un'etichetta più
calzante per l'Antropocene. Negli ultimi due secoli, il modello
di sviluppo industriale basato sui combustibili fossili ha cambiato
geologicamente il nostro pianeta e ha sviluppato diseguaglianze.
Il 20% più povero ha acquisito il 4,7% del reddito globale
nel 1820, ma solo il 2,2% nel 1992. I sostenitori del “capitalismo
verde”, portatori dei vecchi discorsi “win-win”
(in cui tutti guadagnano e nessuno perde, ndt) sul mercato,
la crescita economica, l'equità sociale e il clima, sostengono
che non ci siano relazioni con la storia della degradazione
globale dell'ambiente durante l'Antropocene. Ma molti studi
recenti sulla storia e sulle scienze del sistema terrestre rivelano
che esiste un meccanismo comune che guida la dominazione sociale
ed economica globale, l'ingiustizia ambientale e la distruzione
ecologica.
Tutte le attività umane modificano l'ambiente, ma il
loro impatto è distribuito in modo non uniforme. Solo
90 aziende sono responsabili del 63% delle emissioni globali
di gas serra avvenute a partire dal 1850. Le nazioni che hanno
prodotto di più sono quelle “centrali”, che
hanno storicamente dominato l'economia mondiale”.
Le battaglie dei movimenti
Da aggiungere all'influenza e al potere di queste aziende c'è
anche la questione del “commercio equo” che, attraverso
tutta una serie di trattati, ha fatto in modo che le aziende
multinazionali avessero il potere legale di contestare davanti
a una corte ogni legge o politica pubblica adottata da una legislazione
all'interno dei territori nazionali che fosse colpevole, secondo
queste compagnie, di interferire con il “commercio equo”.
Così i governi nazionali, regionali, municipali si sono
trovati disarmati in molte aree delle politiche pubbliche riguardanti,
per esempio, la protezione dell'ambiente e le misure che potrebbero
essere adottate.
Il processo messo in moto dalle Nazioni Unite andrà avanti.
Le disposizioni del trattato di Parigi non saranno effettive
fino al 2020; anche se messe in pratica tramite consenso, nessuno
stato le ha firmate. I paesi verranno invitati a farlo durante
una cerimonia che si terrà a New York, al quartier generale
delle Nazioni Unite, il 22 aprile 2016 (Giornata della Terra);
il trattato sarà effettivo solo dopo che almeno 55 paesi
rappresentanti il 55% delle emissioni di gas serra l'avranno
firmato.
Per maggio, lo staff delle Nazioni Unite pubblicherà
le sue stime sull'impatto combinato degli impegni nazionali
(conosciuti ora come “contributi determinati a livello
nazionale”; la parola “previsti” è
saltata). Undici ore prima della conclusione dell'accordo di
sabato 13 dicembre, poche lettere minacciavano di mandare all'aria
anni di discussioni e negoziati e due settimane di diplomazia
– in particolare l'utilizzo delle parole inglesi “should”
e “shall”. Queste due parole possono sembrare assolutamente
simili, ma sul piano internazionale sono parole con un significato
a se stante per il valore diplomatico che assumono. Quando il
verbo “shall”, legalmente vincolante, è apparso
nella bozza finale, gli Stati Uniti si sono bloccati. Durante
tutto il dibattito, il verbo “should”, meno vincolante,
era stato deliberatamente inserito nel trattato internazionale,
per rendere chiaro che i paesi più ricchi, compresi gli
Stati Uniti, si sarebbero sentiti obbligati a trovare soldi
da destinare ai paesi più poveri perché si adattassero
ai cambiamenti climatici e operassero una transizione verso
sistemi sostenibili di produzione di energia. “Shall”
voleva dire qualcosa di totalmente diverso, hanno affermato
i delegati degli Stati Uniti. Il verbo è stato quindi
cambiato senza che ci fossero cerimonie per accontentare gli
statunitensi.
Una nuova era geologica
Dopo il primo round di discussioni, alcune stime sulle promesse
avanzate dagli stati suggerirono che, se portate a termine,
potrebbero portare ad un aumento compreso tra i 2,7 gradi Celsius
e i 3,5 gradi Celsius sui livelli pre-industriali – molto
lontani dalle nuove aspirazioni di un aumento di solo 1,5 gradi
Celsius.
Alla fine, persino gli ambientalisti liberali come Bill McKibbon
sono rimasti insoddisfatti. In una colonna del New York Times
(15 dicembre 2015) si è lamentato, dicendo: “Le
nazioni hanno volontariamente promesso di iniziare a ridurre
le loro emissioni. Ci sono piani modesti - come quello degli
Stati Uniti, per esempio - per tagliare, a partire dal 2025,
le emissioni di biossido di carbonio dal 12% al 19% rispetto
ai livelli del 1990. L'organizzazione non-governativa Climate
Action Tracker, scrupolosamente attenta nella valutazione degli
obiettivi, ha catalogato come “medio” il loro impegno,
lontano da come dovrebbe essere un giusto contributo''. Continua
McKibbon: “Così alla fine il mondo si trova con
qualcosa come un accordo sul clima, sebbene non vincolante.
Se tutte le parti mantenessero le promesse, il pianeta si troverebbe
a riscaldarsi di 3,5 gradi Celsius sul livello pre-industriale.
Ed è davvero troppo”.
Gli ecologisti sociali insistono nell'affermare che la crisi
ecologica e ambientale non sia una crisi che deriva dalla Natura,
ma una crisi sociale che scaturisce dalla natura della nostra
società. Il terzo report dell'IPCC (Gruppo intergovernativo
sul cambiamento climatico a cui hanno lavorato 3000 scienziati
provenienti da tutto il mondo) ha infine dichiarato ciò
che politici e burocrati hanno ripetutamente provato a sopprimere
nei report precedenti, cioè che gli esseri umani e la
società sono la causa principale. Siamo entrati in una
nuova fase della civilizzazione industriale. Secondo alcuni
scienziati, l'intensità di questa forza geologica è
così grande che potrebbe determinare il futuro della
Terra.
La nostra impronta ambientale è così grande che
stiamo già subendone gli impatti: un aumento delle temperature,
la sesta estinzione, l'acidificazione degli oceani, per nominarne
solo alcuni. Stiamo entrando nell'Antropocene, “la nuova
era dell'uomo”. Lontano dall'essere inevitabili, questi
effetti sono stati determinati dalle scelte politiche, economiche
e ideologiche fatte da una minima porzione dell'umanità.
“Non siamo più nell'Olocene, ma nell'Antropocene!”
ha affermato il premio nobel per la chimica Paul Crutzen durante
un incontro con altri scienziati. “Quindici anni dopo,
un sempre più accresciuto numero di scienziati crede
che abbiamo cambiato epoca geologica”. La storia della
Terra è divisa in epoche geologiche di migliaia di milioni
di anni, ognuna marcata da eventi biologici, climatici o sismici,
come si evince dalle linee di sedimentazione della terra. Attualmente
viviamo nell'Olocene, che ha avuto inizio 11500 anni fa con
l'emergere dell'agricoltura e degli insediamenti sedentari.
La razza umana è diventata una forza geologica che ha
influenzato la fauna, la flora e il clima nello stesso modo
in cui la terra modella i continenti. “Le attività
umane sono diventate così pervasive e profonde che sono
entrate in competizione con le grandi forze della Natura, spingendo
la Terra in uno spazio incognito” spiega Paul Crutzen.
Il suo avvento ha un impatto così estensivo che marca
la fine dell'Olocene e l'inizio dell'Antropocene – che
deriva dal greco Anthropos (uomo) e kainos (recente, nuovo).
Siamo circondati da aree industrializzate, autostrade, città,
sviluppi suburbani abitativi, così come pascoli e foreste
impiantate. Mentre nel 1750 queste aree naturali artificializzate
rappresentavano solo il 5% della superficie terrestre, riguardano
ora un terzo. Anche altre modificazioni naturali meno evidenti
sono al lavoro. Il 90% della fotosintesi che avviene oggi sulla
Terra è portata a termine dall'ecosistema che è
stato alterato dagli esseri umani. Per 150 anni, nuovi agenti
chimici e sostanze come la plastica e interferenti endocrini
sono stati rilasciati nell'atmosfera, lasciando il loro segno
nei sedimenti e nei fossili.
Il movimento si sta radicalizzando
Nella zona blu a La Bourget c'erano i delegati degli stati,
i burocrati che li assistevano e i lobbisti delle aziende multinazionali.
Chiunque può trovare le impronte digitali lasciate dalle
compagnie petrolifere sull'accordo finale. C'era anche la zona
verde dove erano presenti le organizzazioni non-governative,
incluse le fondazioni e alcuni governi cittadini, oltre alle
aziende che promuovevano le loro soluzioni tecnologiche.
Oltre a questi due gruppi, ne erano presenti altri tre. Ci sono
stati oltre mille incontri tra sindaci e vice-sindaci durante
le due settimane, che hanno trattato un ampio raggio di idee
e proposte di azioni, coprendo lo spettro ideologico dal centro
fino a sinistra. Questa corrente era tenuta insieme dalla United
Cities and Local Authorities (UCLG), con base a Barcellona,
dove il nuovo sindaco attivista del movimento radicale, Ada
Colar, ha giocato un ruolo significativo insieme al suo collega,
il sindaco di Madrid. Durante gli incontri ai quali ho partecipato,
diversi sindaci hanno denunciato non solo il neoliberismo, ma
hanno articolato cambi di sistema degni di nota. Discorsi come
quelli erano inimmaginabili nelle zone blu o verdi. La commissione
UCLG sull'inclusione sociale, i diritti umani e la democrazia
partecipativa, in collaborazione con l'Habitat International,
ha messo in luce la Piattaforma Globale sui diritti della città,
le cui idee si sono rinnovate tramite una forte energia radicale.
Gli altri due gruppi fornivano spazio per l'incontro tra attivisti
e manifestanti. Un incontro pubblico con oltre 3000 persone
ha ospitato un discorso di Naomi Klein che ha criticato il capitalismo
e ha indicato una via d'azione basata su più proteste
per le strade e anche occupazioni. Alla fine nella città
di Montreuil vicino a Parigi, un quinto gruppo ha dato vita
ad un grande incontro tra le organizzazioni della società
civile e i movimenti, indicando alternative allo stato e al
capitalismo. Queste proposte spaziavano da sfide alla crescita
economica, basata sul mercato capitalistico, alla necessità
di mettere fine alla crescita fine a se stessa. Alcuni movimenti
ponevano l'accento su alternative economiche, cooperativistiche
e ecologiche basate sulla solidarietà o sul mutuo aiuto,
prospettando un'economia contraria al profitto, basata sui bisogni
umani. Molti hanno cercato di ribaltare l'ideologia dominante
del produttivismo. Il contributo di Le Monde Libertaire, il
giornale della federazione anarchica francese, è stato
notevole.
Ciò che fa sovrapporre o convergere questi cinque gruppi
è solo una congettura al momento. Ma una cosa è
certa, il movimento contro il cambiamento climatico si sta radicalizzando;
lo sta facendo in modo lento, ma sta accadendo. Per la seconda
metà di maggio sono state programmate delle occupazioni
di massa. Occupazioni, tramite disobbedienza civile, di miniere,
impianti a combustibili fossili, linee ferroviarie che trasportano
prodotti derivanti dal petrolio e così via. La condanna
morale invita al boicottaggio e ad incoraggiare il movimento
internazionale al disinvestimento economico. L'attuale sistema
politico-economico sarà messo sotto pressione dal 99%.
Ma se la storia dei movimenti di protesta del passato è
indicativa, arriverà un momento in cui il movimento di
oggi dovrà piantare radici più in profondità
nei quartieri e nelle città, attirando migliaia di cittadini
preoccupati in più. Nel frattempo, le élite di
potere continueranno a decantare le loro buone intenzioni, firmando
questo accordo e quell'altro, tutte azioni che potranno distrarre
alcuni momentaneamente. Comunque le ricerche scientifiche sul
cambiamento climatico e le loro previsioni non potranno essere
ignorate. Prima o poi il movimento che chiede un cambiamento
di sistema dovrà legarsi a prospettive radicali di cambiamento
strutturale delle istituzioni politico-economico, procedendo
alla democratizzazione della democrazia.
Data l'evidente resistenza ai cambiamenti degli stati nazionali,
delle aziende multinazionali e delle 400 aziende che guidano
l'economia mondiale, quali sono le leve da utilizzare per trasformare
questa situazione? In un contesto globale dove il paradigma
dominante può essere sempre più sintetizzato con
l'equazione “felicità = consumo”, dobbiamo
conferire potere ai cittadini, impegnandoli e dando loro gli
strumenti per accedere ad alternative e aprire orizzonti per
una miglior qualità di vita.
Murray Bookchin e l'ecologia sociale
Al di là delle false soluzioni basate sulla premessa
che la tecnologia, il mercato capitalistico e il suo meccanismo
finanziario proteggeranno in qualche modo il pianeta dal cambiamento
climatico, esistono alternative reali. Diverse amministrazioni
locali stanno già sperimentando nuovi sistemi di produzione
e consumo e stanno promuovendo alternative sostenibili. In un
numero di settori inclusa l'agricoltura, l'energia, i rifiuti,
i trasporti, le costruzioni, cittadini di tutto il mondo elaborano
e alimentano iniziative che giocano un ruolo nella riduzione
delle emissioni e nell'incremento della qualità della
vita delle persone.
Le azioni che stanno avendo luogo adesso sono prove viventi
che in tutto il mondo, a livello locale, regionale o globale,
donne e uomini si stanno mobilitando, guidati dal desiderio
e dal bisogno di costruire società che siano più
rispettose dei limiti del pianeta. Il successo di queste iniziative
aiuta a cambiare l'equilibrio di potere. Quando questa spinta
incontrerà la resistenza inevitabile di stato e capitale,
si intensificherà la sua portata rivoluzionaria.
Il cambiamento delle relazioni nella nostra società è
basilare per la costruzione di un movimento; si tratta dell'equità
tra uomini e donne e tra giovani e anziani. Delle varie forme
di ecologia politica, solo l'ecologia sociale come affermata
da persone come Murray Bookchin e sviluppata da altri a partire
dalla sua morte fino al 2006, può aiutare a disegnare
un piano d'azione che delinei le trasformazioni fondamentali
necessarie. Le migrazioni di massa che stanno avendo luogo oggi,
in concomitanza con la conseguente deforme urbanizzazione, possono
solo evolvere in segno radicale verso la trasformazione in città
ecologiche e democratiche, usando la lente dell'ecologia sociale
che ci porta oltre l'ambientalismo. Ed è importante aggiungere
che le soluzioni proposte dalla vecchia sinistra socialista,
come la proprietà statale di questa o quella parte dell'economia,
ci porterebbero di nuovo al punto che, con molto lavoro e fatica,
siamo riusciti a superare.
Dimitri Roussopoulos
Dimitri Roussopoulos è l'anima della casa editrice
canadese Black Rose Books e fondatore del Transnational Institute
of Social Ecology (Atene)
traduzione di Carlotta Pedrazzini
|
Bruxelles
(Belgio) - Isaac Cordal, In between |
A vantaggio di chi?
di Adriano Paolella e Zelinda Carloni
Da decenni i governi si dicono impegnati sul fronte dei cambiamenti
climatici, eppure nessuna soluzione valida è mai stata
adottata. A frenarli sarebbero i possibili interessi economici
legati alle conseguenze dei mutamenti ambientali.
Al di là di timorosi proclami, nessuno stato ha attivato
significative azioni sulle cause del riscaldamento globale.
La scelta nei confronti del problema del cambiamento climatico,
sostenuta al di là delle parole dai loro atteggiamenti,
è di ignorare i segnali di profonda alterazione e confermare
gli obiettivi, i criteri e le modalità del modello praticato.
Tale scelta scaturisce dalla totale incapacità da parte
dei governi di modificare i comportamenti del settore produttivo
ed energetico, in quanto ciò lederebbe gli interessi
che sostengono i governi e dunque da esso difesi.
Nonostante questa considerazione, l'atteggiamento suicida messo
in atto da questo sistema globale ed imposto ai 4/5 del mondo
induce a delle perplessità; non sembra infatti verosimile,
al di là del potere esercitato dalle lobby dei produttori,
che interi stati non riescano a comprendere quale sia l'enorme
rischio che l'umanità, e dunque anche gli interessi privati
che rappresentano, stanno affrontando.
Sembra quasi che la posizione degli stati sovrani abbia verificato
la possibilità di aumentare i propri vantaggi economici
e militari attraverso il mantenimento e l'incremento delle differenze
ed un migliore posizionamento dei propri poteri, piuttosto che
affrontare la possibilità di risolvere il problema.
Questo modello di mercato può, incredibilmente, trarre
vantaggi dal disastro ecologico del mutamento climatico e tali
vantaggi, già valutati, potrebbero essere la ragione
della blanda risposta degli stati.
Ad esempio, all'aumento della pressione sulle risorse idriche
ha corrisposto il crescente controllo delle stesse da parte
di governi e privati. Tale problema riguarderà maggiormente
le aree di nuova siccità e quindi l'Europa meridionale,
l'Africa e zone tropicali aumentando la loro dipendenza da soggetti
esterni e indebolendole politicamente, senza invece interessare
vaste aree dei paesi già ricchi che non avranno problemi
di risorse idriche.
Con il fine della sudditanza
Per quanto attiene l'agricoltura e il deterioramento dei
suoli, la risposta è stata l'aumento della produzione
artificiale. I produttori agricoli aumentano la richiesta di
semi che possano fronteggiare situazioni di alterazioni (semi
transgenici ibridi), i quali però debbono essere comprati
direttamente dalle multinazionali produttrici. In tale maniera
si incrementa l'asservimento delle popolazioni agricole dei
paesi poveri agli interessi dell'industria dei paesi ricchi.
Inoltre il deterioramento dei suoli renderà necessario
il cambiamento delle modalità di produzione con l'uso
maggiore di additivi chimici in zone artificializzate ad elevata
produttività. Ciò è un bene per i produttori
di impianti; si potranno vendere più serre, più
impianti di irrigazione e di riscaldamento delle stesse e ciò
concentrerà di più la produzione nei paesi che
riusciranno ad effettuare tali investimenti, e quindi nei paesi
ricchi, aumentando la sudditanza dei paesi già poveri.
Ad altri temi, come quello della modificazione delle foreste,
si risponde con l'attesa: esse non rappresentano grande interesse
per il mercato del grande profitto; il taglio delle foreste
è un bell'interesse ma quello già sta procedendo
attivamente.
Altri temi si presentano già vantaggiosi per alcuni.
Ad esempio la modificazione della produttività agricola
che migliorerà al nord (Stati Uniti del nord, Canada,
Europa del Nord, Russia) e peggiorerà al sud comporta
solo dei benefici per il modello globale. Parte delle aree ricche
potrà divenire più ricca, mentre la parte povera
del mondo sarà più povera; in questa parte si
ridurrà la produttività, si ridurrà quindi
l'autonomia alimentare e, a seguito di questa, quella sociale
e politica, crescendo così la dipendenza dal modello
globale
Ad altri problemi connessi si risponde con soluzioni tecniche
attraverso il mercato dei prodotti.
L'aumento degli eventi meteo-climatici estremi: essi
coinvolgono principalmente popolazioni povere che non hanno
alcun interesse per il modello; quando invece si manifestano
in aree con popolazioni ricche si sta già ricorrendo
all'uso di sistemi d'allarme e tecniche per ridurre il rischio
per le persone e le cose.
L'aumento del livello del mare: se esso sarà localizzato
dove vi sono interessi fondiari, produttivi, immobiliari si
interverrà artificializzando le coste (dighe, argini,
difese spondali, ecc.); se sarà localizzato in aree dove
l'interesse è minimo (paesi poveri, ambiti naturali,
ecc.) non si interverrà.
Anche per quanto riguarda il fastidio provocato dal già
riscontrato aumento delle temperature, nei paesi ricchi
si procederà all'uso sempre più esteso di impianti
di climatizzazione degli ambienti chiusi, ambienti che hanno
già avuto un incremento nel numero, nella estensione,
nella tipologia (mercati, sport, attività ricreative,
serre, ecc.). Per il resto del mondo si perderanno enormi superfici
abitabili (esodi e sofferenze).
Questo scenario che già si sta attuando, seppure senza
alcuna dichiarazione programmatica, potrebbe essere il ragionamento
che sostiene la politica del lasciare tutto com'è, messo
in atto dagli stati potenti. Esso procura (sta procurando) il
riscaldamento del pianeta, salva gli interessi di alcuni e massacra
l'ecosistema planetario e i popoli che lo abitano.
Adriano Paolella
Zelinda Carloni
Questo articolo è contenuto nel dossier “Riscaldamento
globale e controllo sociale” pubblicato su “A”
279 (marzo 2002). L'intero dossier fa parte di una serie
dedicata al tema della globalizzazione.
Queste
immagini
Isaac
Cordal (1974, Pontevedra – Spagna) è uno
scultore, fotografo e musicista spagnolo. Le sue opere
(presenti in queste pagine) consistono in installazioni,
in contesti urbani, di piccole statue miniaturizzate.
I suoi lavori invitano a riflettere sui problemi e le
contraddizioni della società odierna; la sua serie
di opere Waiting for Climate Change vuole porre
l'accento sui cambiamenti climatici. La scelta di rappresentare,
in questa serie di opere, uomini d'affari in giacca e
cravatta in balia degli agenti atmosferici, vuole sottolineare
il disinteresse e la mancata presa di posizione nei confronti
dei cambiamenti climatici in atto. |
Ecologia
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