Resistenza quotidiana
ai margini delle città
Dove
si concentra, oggi, la resistenza al potere? In un mondo dove
la struttura gerarchica si è molecolarizzata e diffusa
a ogni livello - dove l'ingerenza dell'autorità e della
criminalità organizzata non sono più separabili
chirurgicamente, ma attraversano il corpo sociale come un veleno
- la risposta è sorprendentemente antica: voltare lo
sguardo verso le periferie. Ed è proprio questo, fin
dal titolo, l'intento di Gaetano Alessi e Massimo Manzoli: Periferie:
Terre Forti (autoproduzione, pp. 120, scaricabile gratuitamente
dal sito www.periferieterreforti.com).
Quattro storie di resistenza quotidiana in luoghi distanti dai
centri, intesi sia in senso urbano che sociologico, o culturale:
ciò che resta ai margini, spesso frainteso e ignorato,
e dove invece fioriscono esperienze di libertà e dignità
straordinarie. Luoghi dotati appunto di una forza inattesa.
Come spiega nella sua prefazione don Andrea Bigalli, “Il
valore umano di ciò che è escluso, rifiutato,
dichiarato inutile o sbagliato introduce la possibilità
di una antropologia di altro segno, efficace nell'educare e
far evolvere. Ai margini si vive liberi dai pregiudizi o quanto
meno si può avere questa opportunità. Di certo
qui si trova il senso di una frattura con il pensiero dominante,
che insegna con insistenza il disprezzo dell'altro”.
È importante sottolineare che Alessi e Manzoli hanno
raccolto queste storie mettendosi fisicamente in viaggio, senza
pregiudizi e con la voglia di toccare con mano delle realtà
che di frequente vengono distorte dal racconto “ufficiale”
che ne viene dato.
Il primo e più eclatante esempio è naturalmente
la lotta in val di Susa. Impariamo come il tentativo di espropriare
la valle ai cittadini ha una lunga e triste tradizione: dall'occupazione
tedesca (che imparò in fretta a conoscere la resistenza
partigiana, segnalando quei luoghi con un eloquente “Achtung!
Bandengebiet”) alle infiltrazioni mafiose negli anni Settanta,
per finire naturalmente con lo squarcio aperto dalla TAV.
Vediamo la lucidità di Nicoletta Dosio, che lega la lotta
all'alta velocità al bisogno di cercare delle forme di
commercio locali e sostenibili, senza muovere i prodotti per
migliaia di chilometri dal loro luogo d'origine. Rivediamo,
raccontati in prima persona dai protagonisti, i momenti salienti
della storia: le prime manifestazioni a inizio anni Novanta,
lo sgombero e la ripresa di Venaus nel 2005, la formazione e
l'abbattimento della libera Repubblica della Maddalena nel 2011,
e più di tutto il modo in cui il movimento ha saputo
divenire collante di una comunità senza leader, profondamente
libertaria, e insieme veicolo e spunto per nuove lotte in tutto
il Paese.
Quello che ci restituiscono Alessi e Manzoli non è dunque
un mito, ma “la storia di uomini e donne”: e dunque
tanto più prezioso. I miti si possono usurpare o piegare
o usare come randelli ideologici. La vita delle persone che
quotidianamente si impegna per opporsi a un'opera assurda, invece,
no.
Non dissimile nello spirito è la resistenza offerta dal
centro sociale Iqbal Maish a una forma diversa di ingiustizia
sociale: l'essere confinati in un quartiere-ghetto come Librino,
ai margini di Catania. “Cos'è Librino? Una fabbrica
di voti, quello è”. Una località che in
origine doveva essere un'appendice moderna della città
a cura di grandi architetti, e che invece si è trasformata
in una riserva lontana dalle cronache quotidiane, “80000
fantasmi di cui ci si ricorda solo nelle tornate elettorali”.
Nessuna struttura sociale o culturale. Nessuna scuola, pochissimi
negozi, un'assenza pressoché totale di luoghi di condivisione:
un quartiere-dormitorio come tanti, troppi altri. E così
dal 1995 l'Iqbal Masih ha voluto reagire operando dal basso
e in forma autogestita per garantire agli abitanti del quartiere
ciò che non hanno: doposcuola, corsi e laboratori, animazioni
di strada, una palestra sociale. Tutto ciò che può
servire a creare un'alternativa – anche nell'immaginario
– per un non-luogo dove i 60-70% delle persone è
coinvolto nell'attività di spaccio, e il sistema malavitoso
è una realtà preponderante, in cui tutti rischiano
di essere assorbiti.
Dalla Sicilia si passa in Toscana: un altro quartiere difficile,
Le Piagge a Firenze – e un altro modo di generare prassi
e culture alternative, la Comunità di base Le Piagge
di don Alessandro Santoro. Ai margini di una delle città
più belle e famose del mondo, Le Piagge vive una realtà
fatta di disoccupazione e marginalità, con problemi di
interazione fra gli abitanti storici, i nuovi arrivati e le
comunità rom. La risposta della comunità è
concreta: “strumenti leggeri che permettono di realizzare
e mettere in atto idee e progetti nati qui. Ogni esperienza
che nasce ha origine da un bisogno del territorio e da un tentativo
dei residenti di rispondere a quel bisogno. Sorge con il sogno,
forse utopico, di voler costruire una comunità”.
La premessa – la scritta “Zona Altamente Partigiana”
che campeggia all'ingresso – dice già molto. Don
Alessandro Santoro si è avvicinato al quartiere lentamente,
imparando prima a conoscerlo e poi dedicandosi anima e corpo
per “costruire luoghi di Ri-Esistenza, intesa come un
modo diverso di stare al mondo”, “senza trasformismi
di maniera o di comodo”. Unendo una visione radicale del
messaggio evangelico a un'attività costante sul territorio,
in primo luogo agendo per il recupero scolastico e promuovendo
la vendita di artigianato locale e autoprodotto, fino ad arrivare
al progetto di microcredito attivo dal 2000, il “Fondo
Etico e Sociale delle Piagge”, per rispondere collettivamente
ai problemi economici degli abitanti del quartiere.
Il breve viaggio di Alessi e Manzoli si conclude con una forma
di resistenza individuale, e in un certo senso tanto più
eroica, perché condannata a una solitudine terribile:
quella dell'imprenditore e collaboratore di giustizia Gaetano
Saffiotti. Saffiotti è cresciuto nel sistema della 'ndrangheta
– costretto a seguire le regole spietate per cui ogni
acquisto o affare deve passare per forza dal mafioso del territorio,
vivendo costantemente sotto il terrore del ricatto e delle minacce
di morte. Finché non decide di dire basta, assumendosi
per intero la responsabilità e la necessità della
scelta. Le conseguenze sono prevedibili: dopo la sua prima denuncia
nel 2002 ha fatto 929 gare pubbliche, senza vincerne una. Prima
ne vinceva una su tre o su cinque al massimo. “Tutto questo
per aver difeso lo Stato denunciando i clan: ad oggi le aziende
dei clan lavorano ed io no”, spiega. Un c'è
parmu di nettu: non c'è niente di pulito da nessuna
parte, e “il problema di questo Paese è che chi
fa le cose giuste viene considerato un eroe e deve vivere sotto
scorta”. Dove la reclusione morale e personale è
tanto più dolorosa rispetto a quella fisica a cui è
costretto per non essere ucciso.
Quattro storie fra le molte – troppo spesso passate sotto
silenzio o male raccontate – che ancora oggi attraversano
l'Italia: quattro sfide alla visione uniforme e pacata della
società; quattro modi diversi ma egualmente illuminanti
per comprendere come la resistenza al potere sia possibile ed
efficace – ma necessiti di coraggio e abnegazione.
Giorgio Fontana
USA
1899/ Cinque impiccati.
Erano immigrati siciliani
Destini
che si incrociano nella barbarie capitalista mondiale: luglio
1899 a Tallulah, paesino sperduto della Louisiana, cinque poveri
disgraziati, immigrati siciliani di Cefalù, tre fratelli,
i Defatta, e due loro cugini vengono linciati e impiccati. Stiamo
parlando di Storia vera e terribile tra Sicilia e America
di Enrico Deaglio (Sellerio, Palermo, 2015, pp. 214, €
14,00).
Destini che si incrociano: i neri appena “liberati”
dalla schiavitù e i Dagos, termine usato per indicare
i siciliani, considerati mezzi negri, mezzi bianchi, una sub
razza umana. Quello che sembrava un episodio isolato era invece
solo la punta di un iceberg.
Pochi anni prima a New Orleans, undici siciliani venivano impiccati
dalla folla e i loro corpi esposti al pubblico, come “strani
frutti”. Strange Fruit, cantava Billie Holiday, con la
sua voce meravigliosa, rischiando spesso di diventare uno strano
frutto “strano frutto pende dai pioppi, una scena bucolica
del sud galantuomo, gli occhi strabuzzati e le bocche storte”
(disponibili su YouTube: Billie Holiday “Strange Fruit”
e Nina Simone “Strange Fruit”).
Negli stati dell'ex Unione si stima che dal 1887 al 1907 oltre
5000 (le stime sono per difetto) siano stati i linciaggi: il
novanta per cento erano neri. Nessuno è mai stato condannato:
il linciaggio era cosa normale, anzi era favorito; era uno spettacolo
a cui non si poteva mancare, dove si portavano i bambini a mangiare
lo zucchero filato. Era anche un “aiuto” all'applicazione
della “giustizia”, uno snellimento delle procedure.
In quegli anni sono centinaia di migliaia i lavoratori che scappano
dall'inferno siciliano, dopo aver sognato la giustizia sociale
promessa da Garibaldi a nome del nuovo Regno d'Italia, la fine
della schiavitù dagli agrari, l'esproprio delle terre,
l'uguaglianza. Ma il nuovo ordine non era quello, “tutto
doveva cambiare perché tutto rimanesse uguale”,
e a contadini e braccianti furono dati piombo e cannonate. Rivolte
e altri sogni si susseguirono fino all'espatrio forzato verso
l'America, “provincia dolce, mondo di pace.”
Negli stessi anni la guerra di Secessione “libera i neri
dalla schiavitù”; ma il sogno di liberazione di
una moltitudine di donne e uomini costretti a subire l'infamia
della schiavitù, come spesso succede, rimane un sogno.
“Tutto cambia per rimanere sempre uguale”. I latifondi
rimangono in mano agli stessi proprietari, però i “negri”
non sono più disposti a fare gli Zii Tom. A quel punto
si potevano chiamare a lavorare altri “negri”, ed
i Dagos erano l'ideale: uomini un po' scuri di pelle, muscolosi,
dediti alla fatica fisica e remissivi se bastonati o assassini
e criminali per natura se lasciati liberi. Così gli emigranti
giungevano dalla Sicilia per sbarcare in un inferno ancora peggiore
di quello che avevano lasciato.
Negli Stati Uniti, in quegli anni, si cercò anche di
dare una figura giuridica ai Dagos: non neri, non bianchi, forse
negroidi, vennero stimati buone bestie da soma per il lavoro
nei campi.
In ciò ebbero come complici le idee pseudo-scientifiche
della comunità guidata da Lombroso, (socialista e criminologo
positivista, antesignano del leghismo più becero) che
giustificava la teoria razzista che vedeva i meridionali (siciliani,
braccianti, contadini e anarchici) portatori di una criminalità
innata, una specie di sotto razza umana e perciò non
degni di libertà, quindi linciabili.
“Sull'orizzonte cupo e desolato,
già spunta l'alba minacciosamente
del dì fatato”.
29 Luglio 1900, un anno dopo i fatti narrati, Gaetano Bresci,
anarchico e operaio tessile, torna dall'America, da Paterson,
per vendicare le oltre 200 vittime dei moti di Milano del 1898.
La folla inerme era stata presa a cannonate dal macellaio-generale
Bava Beccaris, decorato poi, insieme all'altro suo simile, Generale
Morra di Lavriano, che aveva represso nel sangue i rivoltosi
organizzati nei Fasci Siciliani.
Tre colpi vanno a segno al cuore del re, Umberto 1° di Savoia,
a Monza, vendicando in un atto ideale tutte le vittime dei soprusi,
“uccidendo un Principio”.
Il presidente americano Mc Kinley che si strinse in profondo
cordoglio per la morte di “Re Mitraglia” il 14 settembre
1901 viene colpito a morte da Leon Czolgoz, anarchico polacco
anche lui proveniente da Paterson.
“Ancora vivi, sono sicuro che i Defatta avrebbero detto:
Buono ficiro Bresci e Leon.”
Antonio D'Errico
Una giovinezza
tedesca
“I
genitori hanno perso credibilità a causa della loro identificazione
con il nazionalsocialismo, la chiesa cattolica l'ha persa proteggendosi
dietro la figura del nazismo. Si menziona raramente, ma l'autorità
dei padroni è stata messa in dubbio durante gli ultimi
100 anni viste le terribili condizioni che hanno permesso all'industria
di svilupparsi. Chi rappresenta l'autorità non è
più convincente...”
1966, una giovane e promettente giornalista tedesca partecipa
a un dibattito televisivo: il suo nome è Ulrike Marie
Meinhof.
Une jeunesse allemande (2015, regia di Jean-Gabriel Périot,
documentario, 90 minuti) l'ho visto a Berlino, ma la giovane
cricca del Milano Film festival l'ha meritoriamente selezionato
per il proprio concorso. E così, anche un po' di pubblico
italiano ha potuto vedere questo film dalle difficoltà
di produzione e realizzazione straordinarie: costruito puramente
con immagini e audio d'archivio, discorsivo e fluido come il
miglior cinema di finzione e comunque capace di racchiudere
ed esprimere una ricerca decennale in novantatré minuti.
Non è da tutti.
Jean-Gabriel Périot è l'artefice di questo raro
esempio di “cinema d'archiviautore”. La giovinezza
del titolo è più unica che rara: vita, morte e
(s)miracoli della RAF, Rote Armee Fraktion, in origine conosciuta
con la comoda etichetta giornalistica di banda Baader-Meinhof.
Périot si concentra sulle intelligenze asciutte e acute
della sinistra tedesca più radicale, che dall'editoriale
d'invettiva o dal film di denuncia passa alle bombe artigianali
e alla clandestinità.
Il cardine dell'indagine non ha nulla di didascalico. Nasce
da un dilemma personale, che forse molti – me compreso
– condividono. Che cosa succede quando ci si trova d'accordo...
in toto o semi o parzialmente... con il pensiero di un terrorista?
È facile condannare a spada tratta atti terroristici
e i loro autori quando l'ideologia che li partorisce è
antitetica alla nostra. Il problema sorge quando la condividiamo,
anche solo in parte.
Ho avuto l'opportunità di parlare con Périot.
Mi ha confermato proprio questo. “È sempre meno
complicato capire la violenza che si cela dietro un atto terroristico
politico a cui mi sento in un certo modo vicino, ma ciò
non è giusto... dovevo entrare in questo mondo e capire
e dissezionare questa mia quasi apologia della violenza. [...]
Mi sono concentrato sulla RAF per l'abbondanza di immagini.
Erano giornalisti, cineasti, semi-star come Baader e Hensslin,
che nel 69 si son visti dedicare un film stile Bonnie &
Clyde”.
Il montaggio oculato di Périot porta alla luce due generazioni
in guerra in una Germania confusa se non persa dopo lo tsunami
nazista. Il regista francese inizia sardonicamente: ricostruisce
il clima schizofrenico del tempo attraverso i rotocalchi e i
dibattiti televisivi; introduce poi le figure emblematiche di
una delle fazioni terroristiche più temute dell'era moderna
con fermi immagine à la bee-beep & willy-il-coyote.
Eccoli Ulrike Meinhof, Andreas Baader, Holger Meins, Gudrun
Hensslin, Horst Mahler.
Una volta calamitata la nostra attenzione, l'ironia iniziale
di Périot lascia il passo al dubbio: questi visi della
nuova Germania democratica, idealisti e attivisti, ci parlano?
“Se si ha il desiderio o la presunzione di educare un
popolo, bisogna creare le condizioni di una democrazia reale,
solo allora un'autentica autorità può essere accettata.
L'abuso dell'autorità sarà eliminato, il servilismo
e gli sfruttamenti non esisteranno più. Ciò non
è possibile senza un cambiamento concreto della società.”
(Ulrike Meinhof)
La vita dedicata all'ideologia, le proteste, lo stato intransigente:
i primi morti. E quindi la disperazione, l'inefficacia della
prassi politica tradizionale, la presa delle armi. È
il terrorismo, sia rosso che di stato. “Una delle preoccupazioni
più contemporanee che traspaiono dal film è l'arma
politica che ci è rivolta contro ogni volta che sentiamo
la parola terrorismo” commenta Périot. “Un
terrorista è, a priori, totalmente pazzo, malvagio ...
il termine terrorismo nasconde tutto: ci impedisce di pensare
e di capire di chi e di cosa stiamo parlando.”
Sullo schermo passa il faccione di Helmut Schmidt, in parlamento,
col pugno minaccioso e la voce che ruggisce contro la RAF. “Noi
non scenderemo a patti con questi terroristi!”... Quanti
politicanti di oggi di grande e piccola taglia seguono lo stesso
copione... Non c'è dialogo, non c'è soluzione
se non attraverso l'annientamento indiscriminato dell'avversario.
Un manto giallo, rosso, ma soprattutto nero copre le spalle
nude della liberté delacroixiana.
Périot fa un uso misurato – quanto mai efficace
– dei tentativi cine-dialogo di alcuni mostri sacri: dalle
interpretazioni del Godard maoista passando per l'astrattismo
visivo di Antonioni e la sofferenza viscerale di Fassbinder.
Uno dei momenti più potenti del film è proprio
il contributo del regista bavarese in Germania in autunno
(Deutschland im Herbst), film del 1978 di un collettivo
di cineasti sul terrorismo tedesco, che raggiunge il suo picco
con il caso Schleyer e il dirottamento dell'aereo Lufthansa
181. Fassbinder (e con lui Périot) fa il punto della
situazione: la RAF esige la liberazione dei propri leader; Meinhof,
Baader, Hensslin e altri sono rinchiusi nel carcere di massima
sicurezza di Stammheim (Stoccarda), in isolamento totale, spogli
anche dei flebili diritti di un comune detenuto. Schmidt non
cede. Il popolo tedesco esige sicurezza... Non piegarti,
Stato, Uccidili... Ed ecco il “climax Fassbinder”.
A cena da sua madre, urla e sbraita contro l'ipocrisia della
borghesia tedesca: non si può volere democrazia solo
quando conviene. Ideologicamente spalle al muro, la madre alla
fine lo deve ammettere: ci vorrebbe “un potere autoritario,
ma che sia buono, giusto e gradevole”. Ah-ah-ah...
Il merito di Périot è di aver annichilito il semplicismo
del bianco & nero: è un cazzotto di grigi quello
che colpisce la nuca dello spettatore, il democratico latente,
per convenienza, che è in ognuno di noi. Non si può
rispondere con prosopopea alle domande che il terrorismo fa
irrompere sulla scena quotidiana se prima il terrorismo non
lo si indaga nei suoi moventi profondi. Il parallelo col presente
viene così umilmente stabilito. Périot, d'altronde,
ha definito questo suo film come “un lavoro per capire”.
Capire la RAF, come anche capire le debolezza della democrazia
della Germania anni 70 o della democrazia del mondo occidentale
contemporaneo. Contro questa debolezza bisogna agire. L'assoluta
necessità di rinvigorire la democrazia ci impone di trovare
prima una risposta moderna a una domanda antica: quale democrazia?
Se si vuole democrazia vera e concreta, bisogna caricarsela
sulle spalle, tirarsi su le maniche, esserne in una parola responsabili.
Che governo del popolo è se il popolo è “democraticamente”
emarginato, circuito, irretito? Per concludere con le parole
di Périot, “siamo tutti responsabili per qualsiasi
tipo di violenza... siamo tutti parte del problema, come siamo
tutti parte della soluzione”.
Nicolò Comotti
Alcune considerazioni
Lo scritto di Comotti affronta una materia come quella della
“violenza rivoluzionaria” su cui “A”
esprime da decenni posizioni precise di rifiuto delle strategie
lottarmatiste e delle azioni di violenza indiscriminata. E la
affronta con un taglio che ci lascia a dir poco perplessi.
Per questo, nel pubblicare lo scritto di Comotti, abbiamo
chiesto al nostro collaboratore Andrea Papi una sua riflessione.
Come sempre, lo spazio di “A” è aperto al
dibattito. Su questo tema come su tutto il resto.
Leggendo il pezzo di Comotti sul film Une jeunesse allemande
di Jean-Gabriel Périot, sono rimasto incuriosito e mi
son fatto l'idea che si tratti di un film che senz'altro andrò
a vedere non appena ne avrò l'opportunità. Interessante
in particolare la tesi che sviluppa di dar voce alle ragioni
dei “terroristi” al di là di ogni stereotipo
ufficiale su di loro. Allo stesso tempo mi ha colpito il fatto
che chiami, appunto, “terroristi” i componenti della
RAF, esattamente con lo stesso linguaggio dello stato, mentre
per come è sviluppato il pezzo di Comotti mi ha lasciato
dell'amaro in bocca.
L'ho percepito, purtroppo, impregnato del solito problema, almeno
per me è tale. Un sentore giustificazionista dell'azione,
come l'ha definita lui, terrorista. Non è un'adesione
vera e propria, intendiamoci bene, mentre rischia di diventare,
consapevolmente o no ha poca importanza, un'esagerata giustificazione,
in un periodo terribile per queste cose, in cui sta diventando
luogo comune definire “terroristi” più o
meno tutti gli oppositori tacciati come radicali, dall'Isis
ai centri sociali.
Il problema in fondo non sono le ragioni che fanno scegliere
di diventarlo, come sembra suggerire il film almeno secondo
Comotti, ma se ha avuto ed ha senso farlo.
Prendendo spunto proprio dal soggetto che tratta, la RAF tedesca
meglio nota come Baader-Meinoff, mi sembra di poter dire che
non si è solo dimostrata perdente, ma, al di là
della loro volontà, nei fatti si è trasformata
in incoerenza completa rispetto al bisogno di liberazione che
avrebbe voluto far emergere. Senza soffermarsi sul fatto che
la loro scelta ideologica è di tipo para-leninista, quindi
proponente un tipo di dittatura che la storia del bolscevismo
ha ampiamente condannato, non sono riusciti a trascinare le
agognate “masse proletarie” nella loro azione presunta
rivoluzionaria e sono stati spinti al suicidio delle loro scelte.
Se magari sul piano della critica al sistema di cose presente
potremmo in gran parte trovarci sulla stessa lunghezza d'onda,
è invece sul piano dell'alternativa che proponevano oltre
alla qualità della scelta d'azione che c'è la
più completa divergenza. Se perciò possiamo provare
qualche simpatia per le ragioni che hanno spinto i componenti
dalla RAF a diventare ciò che sono stati, c'è
al contrario un netto rifiuto delle loro scelte di vita e d'azione.
Capisco che Comotti voleva solo parlare del film, che senz'altro
è portatore di qualche valore, e che giustamente non
voleva fargli nessun cappello. Ha fatto bene! Ma per noi questa
tematica è tuttora carne e sangue ancori vivi, per cui
è indispensabile chiarire questioni che, sempre per noi,
restano fondamentali e imprescindibili.
Andrea Papi
La replica
Cara redazione di “A”, caro Papi,
mi divincolo dalle perplessità - mantenendo spero una
certa grazia - e cerco di tirare un paio di cordicelle per fare
abbassare le sopracciglia di tutti.
Mi rammarica che la mia recensione sia stata interpretata come
una giustificazione/apologia della violenza. D'altro canto,
sinceramente, chiedo a Papi e ai lettori di indicarmi i punti
del mio testo in cui quest'elogio prenda forma... La mia recensione
mirava a riprendere la RAF e analizzarla con uno sguardo prettamente
storico, anzi, antropologico.
Detto questo, sono contento che almeno a Papi sia venuta voglia
di andare a vedere il film, perché questo era esattamente
lo scopo della mia - come di ogni - recensione.
Per quanto riguarda il vero dibattito...guardate Une Jeunesse
Allemande, poi ne riparliamo!
Un saluto a tutti.
Nicolò Comotti
Storie
che si ripetono
Recentemente
le edizioni “il Saggiatore” hanno ripubblicato un
libro uscito per la prima volta, in America, nel 1936: I
nomadi (Milano, 2015, pp. 113, € 14,00) di John Steinbeck,
giornalista e scrittore tra i più apprezzati del Novecento,
assai noto anche per la cinematografia che negli anni '40 fu
tratta da alcuni suoi romanzi, uno per tutti Furore.
Il libro in questione è una raccolta di sette articoli
che il “San Francisco News” pubblicò nell'ottobre
del 1936 con corredo fotografico di Dorothea Lange; un reportage
giornalistico-sociologico dedicato alle migrazioni interne verso
la California nel periodo della grande depressione. Dal 1935
al 1938 giunsero in California tra i 300mila e 500mila migranti
costretti a lasciare stati quali il Texas, l'Arkansas, il Missouri
e l'Oklahoma a causa di siccità, povertà e pignoramento
delle terre. Ondata migratoria interna che andò a soppiantare
quasi interamente quei lavoratori, immigrati non bianchi, occupati
nei campi californiani.
Gran parte di questa gente si trovò costretta a vivere
senza più niente, in agglomerati di baracche fatiscenti
ai limiti del degrado che lo scrittore visitò e descrisse
così come descrisse quella che pareva una buona alternativa
possibile, quegli accampamenti - solo quindici, a onor di cronaca
- che vennero istituiti dallo stato ma che non superarono mai
la fase iniziale di “progetti dimostrativi”. Insomma,
ci troviamo tra le mani un pezzetto di storia dell'America anni
'20 scritta con quel linguaggio evocativo e scorrevole che caratterizza
l'autore. Perché riproporne la lettura?
Per vedere - se ancora ne avessimo bisogno, ma forse sì
- ciò che si ripete: lo sfruttamento dell'uomo (inteso
qui non come termine generico ad indicare la specie umana, ma
proprio gli uomini di sesso maschile) su altri esseri umani,
quelli più deboli o in difficoltà, quelli appartenenti
a razze che - causa le condizioni socio-economiche del momento
in un particolare paese - ci si può permettere di considerare
inferiori (prima della seconda guerra mondiale anche i giapponesi
subivano quella sorte), alla stregua degli animali, ai quali
è sempre stata negata addirittura l'esistenza.
La storia si ripete, con varianti che la collocano a latitudini
differenti sulla superficie del pianeta e in diversi periodi
storici. Conosciamo meglio la nostra, nella quale possiamo andare
a ritroso con più agio e arrivare all'Impero romano,
per esempio, con tutta la sua grandiosa barbarie. La nostra
che si interseca con quella degli Stati Uniti d'America (più
di quattro milioni gli emigrati italiani tra la fine del 1800
e i primi vent'anni del 1900).
Chi scrive - come forse anche la maggior parte di chi legge
- casualmente è nata dalla parte “fortunata”
del pianeta, e la sua vita si è dipanata in anni in cui
le guerre sono state - non ripudiate - semplicemente spostate
da un'altra parte. Questo per dire che molti di noi sulla propria
pelle non hanno subito gravi sofferenze. Però hanno ascoltato,
hanno letto, hanno visto e continuano a vedere sempre di più
perpetuare la stessa offesa.
Sta di fatto che la soluzione al problema per tutta quella popolazione
americana di pelle bianca impoverita arrivò solo in piccolissima
parte da alcuni provvedimenti messi in atto dal governo e che
facevano parte dell'insieme conosciuto col termine New Deal,
che non favorì una piena ripresa economica (solo con
la seconda guerra mondiale si riuscirà ad assorbire altri
senza lavoro). Infatti - come si sa - fu proprio la guerra,
con conseguente possibilità di impieghi ben pagati nell'industria
bellica e affini, a risollevare le sorti della gente in quegli
anni.
Le guerre: strumento economico utile a far girare l'economia
di una parte del mondo a scapito di un'altra. Un'altra parte
di gente che, anche secondo la voce del bravo Steinbeck, può
subire trattamenti lavorativi, economici e sociali diversi rispetto
a quella “popolazione americana di antico lignaggio”
caduta in disgrazia e che meritava di risollevarsi. Perché
i nuovi arrivati a lavorare nei campi della California rifiuteranno
“di assumersi il ruolo di bassa manovalanza, con la brutalità
dei sorveglianti, lo squallore e la fame che questo comporta”.
Per gli altri – all'epoca giapponesi, messicani o filippini
– non era prevista nemmeno la stessa empatica preoccupazione
da parte del giornalista illuminato. Oggi le procedure sono
diverse ma la sostanza cambia poco e questo è lo scandalo,
l'impedimento che non permetterà mai di porre fine a
una condizione umana basata sullo sfruttamento, che vi siano
sempre quelli di serie A che possono sfruttare quelli considerati
di serie inferiore, sempre più giù e sempre peggio,
in una lotta assurda dove l'unica cosa che conta svanisce, quasi
non fosse mai esistita. La nostra uguaglianza, assoluta, tra
diversi.
Il senso che ha avuto per me questa lettura è stata un'aggiunta,
una conferma ulteriore al desiderio, che continuo a credere
non inutile, di insistere nel creare situazioni, sebbene minuscole,
di opposizione.
Termino riportando quel che oggi – prima di sedermi a
terminare questa recensione – ho letto su un quotidiano
(“Il manifesto”, 5 novembre 2015) e che trovo interessante
porre in chiusura, per tessere fili di collegamento.
“Ad aprile in Francia è nata una nuova «città».
La chiamano la «Jungle» (la giungla) di Calais.
Si trova a nord-est del Paese, non lontano da Inghilterra e
Belgio. Si sviluppa in un terreno paludoso grande un chilometro
per cinquecento metri vicino al mare. Alla sua fondazione accoglieva
2000 abitanti provenienti da molti Paesi d'Europa, Asia e Africa.
Questa colonia è diventata in pochi mesi il terzo agglomerato
più popolato del comune di Calais. Al 24 ottobre le autorità
francesi stimano che la Jungle ospiterebbe 8000 abitanti. [...]
La Jungle è il campo profughi voluto dal sindaco Natacha
Bouchart nella periferia di Calais lo scorso aprile. In questo
modo si è voluto concentrare tutti i migranti in fuga
da fame, guerre e disequilibri economici in un unico terreno
fino ad allora inutilizzato e abbastanza lontano dal centro
abitato e turistico. Inutilizzato per due motivi: è una
zona d'interesse ecologico e faunistico di tipo 1, cioè
sarebbe un'area protetta intoccabile; al tempo stesso la Jungle
si trova in una zona Seveso, cioè considerata a rischio
per la presenza di due industrie altamente tossiche e pericolose
quali la Interor e la Synthexim. Da aprile i migranti non hanno
il diritto di accamparsi altrove. [...] La città non
sembra più la stessa.
Oramai è quasi impossibile imbattersi in un migrante
e sono state cancellate tutte le tracce del loro passaggio.
[...] Per arrivare alla Jungle bisogna superare il porto, entrare
nella zona industriale e continuare finché sei camionette
delle Crs (corpo di polizia antisommossa francese) annunciano
l'ingresso ovest. Gli abitanti della Jungle si sono raggruppati
per Paese di provenienza o per etnia. Il «quartiere»
irakeno è abitato prevalentemente da curdi. Famiglie
intere composte da nonni, genitori e bimbi di pochi anni. I
più fortunati, coloro che hanno ancora un po' di soldi
e quanti si sono stabiliti da più di un mese vivono in
delle baracche fatti di legno, plastica e stoffa. Tutti gli
altri si devono accontentare di una tenda. [...] La Jungle è
attraversata da due strade principali nord-sud e ovest-est.
Attorno a queste vie principali gli afghani hanno aperto tanti
ristoranti e qualche negozio. [...] «Ma in tutto questo
che fa lo Stato?» [...] Il ministro dell'interno Cazeneuve
ha annunciato che sarà incrementata la presenza delle
forze dell'ordine. Inoltre verranno distribuite delle «tende
riscaldate» ed aumenteranno i posti letto per donne e
bambini al centro d'accoglienza diurno. [...] È sabato
sera, prima di andare in tenda seguiamo la luce di una lampada
all'interno della chiesa etiope. Un uomo è chino con
un pennello su una tela dove cominciano a delinearsi i tratti
di un angelo che infilza un demone con una lancia. «Sono
un artista. Sono un pittore eritreo. Sono io che decoro la chiesa».
Così si introduce Paulos. Come lui altre 8000 persone,
altre 8000 storie, dimenticate dietro i numeri e le generalità.
Mentre la popolazione della Jungle aumenta”.
Silvia Papi
Luigi Fabbri/
Quel diario (ritrovato) contro la guerra
Arrivate dal lontano Uruguay in Italia una ventina di anni
orsono, consegnate a Gianpiero Landi dalla figlia Luce, le pagine
di diario inedite scritte da Luigi Fabbri fra il 1° maggio
e il 20 settembre 1915, oggi accuratamente trascritte e impreziosite
dalla densa e avvincente prefazione di Roberto Giulianelli (di
cui vengono pubblicati qui di seguito ampi stralci), vedono
finalmente la luce, a cento anni di distanza, nella bella edizione
della Biblioteca Franco Serantini, (Luigi Fabbri, La
prima estate di guerra. Diario di un anarchico 1 maggio –
20 settembre 1915, a cura di Massimo Ortalli, Pisa, Biblioteca
Franco Serantini, 2015, € 12,00).
Luigi Fabbri (Fabriano 1877 – Montevideo 1935), oltre
ad essere stato il più fedele e importante collaboratore
di Errico Malatesta, da lui sempre considerato come un vero
e proprio padre spirituale, è stato anche uno dei militanti
più importanti e significativi del movimento anarchico
italiano e internazionale. Esponente di una concezione fortemente
organizzatrice, connotata da una visione intransigente dei principi
ma al tempo stesso disponibile al dialogo e aperta al confronto
con le altre componenti della sinistra, assertore della urgenza
dell'affermazione di un anarchismo di netta impronta sociale,
insensibile alle false chimere di quell'individualismo amoralista
così presente nei primi decenni del secolo scorso, Luigi
Fabbri ha attraversato da protagonista tutte le vicende dei
primi decenni del Novecento, dimostrando una indiscutibile capacità
di analisi accompagnata da quell'altrettanto indiscutibile facilità
di esposizione che ne hanno fatto uno degli intellettuali più
chiari e lucidi del movimento anarchico.
Ne sono dimostrazione, fra le tante, anche le bellissime
e “drammatiche” pagine di questo diario, dalle quali
emerge la profondità della riflessione operata a tutto
campo non solo sulle cause della guerra e sulla irreversibile
lacerazione all'interno della sinistra italiana ed europea,
ma anche sulle tragiche conseguenze che questo “inutile
massacro” avrebbe comportato negli anni a venire nel cuore
delle società del continente.
È decisamente un piccolo, grande e fino ad oggi sconosciuto
gioiello questo che ci viene proposto dalle edizioni della BFS,
un gioiello che viene ad aggiungersi ai tanti che Luigi Fabbri
ha lasciato in eredità non solo all'anarchismo internazionale,
ma anche alla storia e alla vita del pensiero libero e libertario.
Massimo Ortalli
Allo
scadere del secolo scorso Luce Fabbri affidò all'International
Institute of Social History di Amsterdam il ricco archivio di
suo padre, fino ad allora custodito a Montevideo, tappa conclusiva
di un esilio che nel 1926 aveva visto Luigi e la sua famiglia
– a eccezione del figlio Vero – abbandonare l'Italia
fascista, trovando riparo prima a Parigi, poi in Belgio e da
ultimo in Uruguay. [...] Fra le carte conservate spiccano lavori
preparatori di articoli, opuscoli e libri infine dati alle stampe,
scritti inediti, ritagli di giornali e riviste, nonché
un diario compilato fra il 1° maggio e il 20 settembre 1915.
Di quest'ultimo documento Luce donò copia anche ad alcuni
studiosi e militanti del movimento libertario italiano. Nel
1999 la «Rivista storica dell'anarchismo» ne propose
qualche pagina introdotta da Maurizio Antonioli; sette anni
più tardi Alessandro Luparini vi attinse per redigere
il saggio poi comparso negli atti del convegno internazionale
di studi su Fabbri, svoltosi nel 2005 nella città natale
di questi, Fabriano. Oggi, a un secolo di distanza dalla sua
stesura, il diario viene finalmente pubblicato in forma integrale
per iniziativa e a cura di Massimo Ortalli.
A rendere di immediato interesse questo documento sono il suo
autore, uno dei massimi esponenti dell'anarchismo del Novecento,
e il periodo della sua compilazione, a cavallo dell'ingresso
dell'Italia nella Grande guerra. Fabbri iniziò a scriverlo
nella sua città di origine e proseguì a farlo
a Bologna, dove si trasferì nell'agosto 1915 per poi
prendere servizio come maestro presso la scuola elementare di
Corticella. [...]
A Fabriano, nel giugno seguente il suo arrivo, Fabbri visse
la Settimana rossa. Protagonisti ne furono i repubblicani, ma
soprattutto gli anarchici locali, la cui modesta consistenza
numerica era compensata da un attivismo che fra il 1913 e il
1914 li aveva portati a ospitare due incontri regionali del
movimento libertario. [...] All'indomani del 14 giugno Fabbri
si sottrasse all'arresto, trovando ospitalità in quella
“Lugano bella” solita accogliere allora i sovversivi
di mezza Europa. Lì cercò lavoro come insegnante,
senza successo. A dicembre fu prosciolto dalle accuse e poté
dunque tornare in Italia, facendo tappa a Rocca San Casciano,
dove fu ospitato dal padre, quindi rientrando a Fabriano, nella
cui scuola elementare riprese servizio però solo tre
mesi più tardi, quando le autorità scolastiche
si risolsero finalmente a reintegrarlo. [...]
Nei mesi successivi la rivista «Volontà»
si spese in una convinta campagna antimilitarista che, senza
coltivare illusioni sulla possibilità di sottrarre il
paese al conflitto, si ritagliò il compito di marcare
la posizione dei socialisti-anarchici italiani in merito alla
guerra, sia rispetto alle altre componenti del movimento operaio,
sia rispetto alle rumorose correnti libertarie favorevoli alla
partecipazione bellica. Fu un lavoro improbo, appesantito dal
precipitare degli eventi e dalla morsa dei controlli di polizia
che finirono per strangolare il periodico anconitano, nel maggio
1915 costretto per la seconda volta alla chiusura. Fabbri accolse
quest'ultima come una liberazione: «La sospensione nuova
di Volontà mi dispiace, ma (a dirla fra noi) è
per me un sollievo materiale, un riposo! Non ne potevo più!»,
confessò a Giacomelli. [...]
Sebbene affrancato da un carico di lavoro che si era fatto via
via insostenibile, con la forzata chiusura di «Volontà»
egli si trovò improvvisamente muto dinanzi all'erompere
di eventi il cui inaudito impatto sul presente e sul futuro
dell'umanità appariva già allora manifesto. L'alternativa
di essere ospitato su fogli anarchici che, come lo spezzino
«Il Libertario», pur a singhiozzo riuscirono a proseguire
le pubblicazioni durante il conflitto, venne percorsa solo per
pochi articoli, ai quali fece seguito un silenzio di oltre un
anno, parentesi eccezionale nella vita di un autore fertile
come lui. Fu forse per conciliare il bisogno di riposo, la delusione
per il precipitare degli eventi europei e l'avvertito obbligo
morale a non tacere dinanzi al compiersi della catastrofe che
decise, infine, di affidarsi a un diario. [...]
Il bavaglio ai giornali non-allineati
Larga parte del diario è consacrata alle questioni interne,
a cominciare dagli avvenimenti che anticipano da vicino l'ingresso
italiano nel conflitto. A scrivere in quei giorni è un
Fabbri sfiduciato e depresso, che guarda alle dichiarazioni
del governo e della corona, ai tumulti di piazza e ai proclami
della intellighenzia interventista come a epifenomeni di un
processo incontrovertibile. «La monarchia è già
decisa per la guerra e la guerra si farà», annota
il 5 maggio, quasi ad allontanare da sé l'illusione di
un finale diverso. «Forse un giorno sapremo la verità!»,
commenta alla notizia che Vittorio Emanuele III aveva respinto
le dimissioni presentate da Salandra, confermando così
il disegno di condurre il paese in guerra dopo alcuni giorni
trascorsi a recitare «una ignobile commedia», in
cui il primo ministro in carica aveva finto di defilarsi e Giolitti
aveva millantato una possibile mediazione con Vienna.
Grande attenzione da parte di Fabbri ricevono la propaganda
governativa tesa a raccogliere consenso intorno alla scelta
interventista e l'avvio della mobilitazione civile. La composizione
di un granitico fronte interno, prerogativa indispensabile per
resistere alle spinte centrifughe ed eversive che un conflitto
logorante come la Grande guerra avrebbe alimentato, transitò
anche per l'assunzione di misure populistiche come la concessione
semi-automatica di promozioni e licenze scolastiche. «Che
bazza per i nostri somarelli! C'è da far diventare interventisti
anche gli alunni degli asili infantili», commentò,
sarcastico, il maestro Fabbri. [...]
Il bavaglio messo ai giornali non allineati al governo, lo scioglimento
coatto di gruppi libertari, l'invio punitivo dei sovversivi
al fronte sono questioni che Fabbri tocca nelle pagine scritte
nell'estate del 1915. Dell'incrudirsi di quei controlli egli
stesso fu vittima in prossimità della dichiarazione di
guerra all'Austria: il 22 maggio, infatti, venne arrestato a
scopo precauzionale. La settimana scarsa passata in cella a
Fabriano, con un carceriere accomodante perché padre
di uno dei suoi alunni, non lasciò segni su di lui, ma
lo indusse a riflettere su quanto modesto fosse il peso politico
dei “sovversivi”, che il governo riteneva liquidabili
con appena qualche giorno di prigione.
La limitatezza di questo peso si doveva anche all'effetto deflagrante
che la guerra aveva prodotto sul movimento operaio. Sebbene
nel diario Fabbri tenti di stralciarle come sparute minoranze
all'interno del coeso cartello del non-intervento, le componenti
che disertarono il fronte neutralista furono importanti, se
non altro, per le conseguenze politiche di breve e di medio-lungo
termine provocate dalla loro scelta. La perdita di pezzi di
sindacato come la Federazione del mare (retta dal discusso capitan
Giulietti) e dell'organizzazione dei ferrovieri (lo Sfi, a guida
sindacalista rivoluzionaria) causò gravi emorragie sulla
sponda antimilitarista. Di rilievo ancora maggiore furono le
defezioni di Mussolini e dei repubblicani. [...]
Spiccato senso della misura
Nel diario parole non meno corrosive sono dedicate ai repubblicani,
con i quali nel 1915, per la prima volta, anarchici e socialisti
non avevano condiviso la Festa dei lavoratori. Fabbri accusa
di ipocrisia i dirigenti del Pri sia perché, dopo avere
data per certa la brevità del conflitto alla vigilia
dell'ingresso italiano, all'indomani di questo di erano precipitati
ad ammonire sulla inevitabile lunghezza delle ostilità,
sia perché avevano finto di prendere le distanze da Salvatore
Barzilai, ex esponente del partito mazziniano che, in quelle
stesse settimane, era stato chiamato a ricoprire la carica di
ministro per le Terre liberate. [...]
Il diario si interrompe il 20 settembre 1915. Sulle ragioni
che indussero Fabbri a non proseguirne la stesura si potrebbero
avanzare ipotesi tanto suggestive, quanto prive di un adeguato
supporto delle fonti. Sembra allora più costruttivo interrogarsi
sull'effettivo valore di queste pagine.
Per la compilazione della biografia del padre, Luce non se ne
servì affatto, non rinvenendovi spunti originali rispetto
a quanto già noto del pensiero di Luigi. Se ciò
è vero in linea generale, tuttavia vanno considerati
anche altri aspetti. Per esempio, va sottolineato il ridotto
spazio che il diario assegna agli anarco-interventisti, con
i quali in precedenza Fabbri non si era certo sottratto allo
scontro sulla stampa libertaria. A partire dal documento pro-guerra
stilato nel settembre 1914 da Maria Rygier e Oberdan Gigli e
fino all'aprile successivo, il tono dei suoi articoli era via
via asceso, talvolta oltrepassando i confini, a lui consueti,
della moderazione. Fabbri avrebbe usato una vis polemica ancora
maggiore nei confronti del Manifeste des Seize, con il
quale nella primavera del 1916 alcuni esponenti dell'anarchismo
internazionale, fra cui Kropotkin, si sarebbero dichiarati favorevoli
alla guerra per allontanare dal vecchio continente il pericolo
di una egemonia tedesca. [...]
Il diario appare prezioso, infine, per definire la personalità
del suo estensore e le pressioni a cui essa fu sottoposta in
quel tornante della storia. Uomo il cui spiccato senso della
misura costituisce una rarità nell'ambito dell'anarchismo
e, più in generale, del movimento operaio d'inizio Novecento,
Fabbri si abbandona qui a commenti che mancano dell'equilibrio
formale, se non sostanziale, da lui sempre rispettato. A spingerlo
fuori asse non è la completa libertà espressiva
concessa dal carattere intimo del contenitore: nelle lettere
indirizzate per quarant'anni ai suoi molti corrispondenti [...],
i passaggi privi dell'usuale autocontrollo si contano sulle
dita di una mano.
Nel diario, invece, ci si imbatte in qualche cedimento alla
violenza, che si affianca a giudizi grevi su alcuni avversari.
A determinarli è il trauma causato da un contesto la
cui tragicità è inattesa, inesplorata e immane.
Un contesto dove alla ennesima sconfitta subita nel giugno 1914
dalle speranze rivoluzionarie si somma la disintegrazione di
un universo che non è solo quello del “sovversivismo”,
ma è anche quello familiare (il fratello e il padre di
Fabbri furono interventisti) e quello dell'intera Europa, dilaniata
da un conflitto che, ridisegnando popoli, confini e governi,
aprì questioni risolte solo vent'anni più tardi
con una guerra non meno spaventosa.
Roberto Giulianelli
Destinazione
Utopia
È uscito Tutto inizia sempre (Materiali
Sonori, 2015, € 10,00) il nuovo disco di Marco Rovelli.
Impegno civile e recupero della memoria storica – soprattutto
del movimento anarchico e libertario – sono la sua cifra
stilistica. Giuseppe Ciarallo ha intervistato l'autore.
Dunque Marco, dopo Libertaria, Tutto inizia sempre.
Ascoltando i tuoi dischi mi sembra che lo spazio di un CD sia
sempre troppo piccolo per poter contenere tutto ciò che
vorresti raccontare. Forse anche per le tematiche importanti
che tocchi: l'amore e l'utopia. Non sono bastati millenni perché
se ne potessero dare definizioni convincenti...
E tantomeno basteranno un disco, o un'intervista. Amore e Utopia,
del resto, sono due movimenti infiniti, indefinibili. Vivono
della tensione tra le singolarità umane, sono la relazione
tra gli uomini e il loro orizzonte. Orizzonte: una poesia di
Eduardo Galeano, che ha le sue radici in un enunciato di Bakunin,
si dice che l'utopia è come l'orizzonte, che non raggiungeremo
mai, ma che ci sprona a camminare. L'Utopia è l'idea
regolativa delle nostre azioni. Sta tutta nella tensione tra
il nostro presente e un altrove. E l'amore, anche quello è
tensione e movimento: che sia a due, o per l'umanità
intera, è qualcosa che immagina di fare della pluralità
una “concordia”, per quanto i molti resteranno sempre
i molti, e non diventeranno mai un solo cuore.
Ecco, utopista suona oggi come un'offesa. Così come “don
Chisciotte”, uno stupido che combatte contro i mulini
a vento. E invece in questi due epiteti c'è una bellezza
che sfugge a chi li usa come insulti, e che come tali in realtà
qualificano di stupidità lui stesso. Don Chisciotte immagina
la bellezza, quella bellezza che salverà il mondo, e
per essa vede oltre. È la natura del poeta e del visionario
questa, saper vedere ciò che gli altri non vedono.
Cervantes, Rebora, Pasolini, Nietzsche (così come
nel primo disco Erri De Luca, Maurizio Maggiani, Wu Ming 2).
Per te, scrittore oltre che musicista, la poesia e la letteratura
sono evidentemente elementi imprescindibili dai quali trai spesso
spunto per sviluppare le tue storie. Confesso che dopo aver
ascoltato La mia parte ho sentito il bisogno di leggere
Il coraggio del pettirosso.
Sono riferimenti costanti, sì, essendo qualcosa che mi
accompagna da molto tempo. Noi operiamo col nostro immaginario,
e gli elementi dell'immaginario provengono da una molteplicità
di stimoli. Li maciniamo, questi stimoli, e poi diamo vita a
forme nuove, “nostre” - ma che nascono da qualcosa
che ci è stato trasmesso da altri. Evidentemente gli
stimoli della letteratura sono tra i più potenti, anche
in relazione alla possibilità di costruire storie. È
come muoversi in una foresta di segni, di simboli, tra alberi
da decifrare. L'importante, però, è che questa
immaginazione non divenga una cosa astratta, o intellettualistica,
ma mantenga una concretezza terrestre, di carne e di sangue,
che sappia restituire la vita in tutta la sua interezza, il
calore del respiro, o il dolore di un'assenza. In ogni caso,
ai riferimenti presenti nel disco da te citati aggiungo, sparsi
qua e là in alcuni versi, Buñuel, Agamben, Boito,
Bruno, Marx, e di sicuro qualcun altro.
Una domanda tecnica allo scrittore Marco Rovelli: quali
sono le differenze tra la scrittura narrativa e la forma canzone
(più simile forse a quella poetica)?
Sono due scritture molto diverse. Quello che hanno in comune,
per me, è il ritmo, la grana della voce, il suono. Le
parole hanno un suono e un sapore, sono pastose, rotolano in
bocca e fanno eco nelle orecchie. Un critico letterario, Andrea
Cortellessa, disse che la mia scrittura è molto musicale,
che insomma si sente la mia doppia natura di autore. Per quanto
mi riguarda, è così: il piacere immediato del
testo, per me, passa dalla composizione/combinazione materica
delle parole, sia che tu le legga silenziosamente sia che tu
le ascolti sonoramente.
Dopodiché, la scrittura di un romanzo implica uno sguardo
molto diverso da quello della canzone, dovendo srotolare il
filo di una storia sul passo di una maratona, dove la canzone
ha il passo del velocista. Una cosa è la composizione
spaziale del testo sulla lunga distanza, dove non devi smarrire
il filo della storia, devi dar vita a dei personaggi, devi dire
delle cose creando stanze diverse (anche nei reportage narrativi
che ho scritto, io lavoro molto sul montaggio, alternando ambienti,
ritmi, immaginari diversi); un'altra cosa è la forma
canzone, dove lavori su una versificazione in cui ogni parola
dischiude, o può dischiudere, un mondo, è come
un concentrato, un addensamento di sensi. Anche per questo,
una canzone la costruisco non tanto raccontando storie, quanto
accostando frammenti, immagini, evocazioni, che danno un senso
complessivo proprio nella loro composizione. E questo sia in
canzoni che raccontano storie (come quella dei Pisacane, L'amore
al tempo della rivolta) sia in canzoni più esplicitamente
frammentarie ed evocative (come Il tempo che resta, che
mette in scena quegli istanti indicibili di vita che ci scuotono,
e che, nello scivolare via, formano la nostra essenza).
Detto tutto questo, va da sé che le parole delle canzoni
solitamente nascono a stretto contatto con la musica, sono come
l'esteriorizzazione di un ritmo, e questo non ha nulla a che
vedere con la scrittura narrativa “silenziosa”.
Qui, del resto, stiamo parlando. Ma un album è fatto
di musica, di suoni: e allora permettimi di dire che questo
album è principalmente acustico, nel senso che a dominare
sono i suoni di chitarra folk (la mia) e classica (quella, che
sembra un'orchestra, di Paolo Capodacqua, storico chitarrista
di Claudio Lolli), il violoncello (di Lara Vecoli), il pianoforte,
oltre che i molteplici suoni, rumori, percussioni di Rocco Marchi,
che ha prodotto artisticamente il disco. Ne è risultata
una miscela di suoni, di ambienti, di stanze sonore, che credo
sia riuscita a essere in sé un itinerario e un racconto.
In Tutto inizia sempre ci sono due protagonisti
ai quali hai voluto dare voce (anche attraverso le parole di
personaggi reali quali Vittorio Arrigoni, Don Gallo, Carlo Pisacane
e Enrichetta Di Stefano): alle comunità vessate e ribelli
come quella palestinese di Gaza (o quella curda, in una canzone
successiva all'album), e alla marea di migranti; un'umanità
senza pace e, sembrerebbe dai comportamenti dell'Occidente,
senza speranze...
Direi che i protagonisti dell'album siamo noi in tutti i sensi.
Quello che siamo, quello che vorremmo essere, quello che non
vorremmo essere. Storie esemplari, in positivo e in negativo.
Ed è naturale, per me, scrivere canzoni su quei margini
che costituiscono anche il fuoco della mia scrittura. Sono sempre
stato convinto che è solo dai margini che si vede il
centro, e che si può ricostruire la forma del tutto.
Del resto è lo sguardo a portarti lì, quando racconti
(in musica o in scrittura), non fai altro che seguire il tuo
sguardo che è chiamato da qualche parte. E a chiamarmi,
sì, sono le storie di chi è in viaggio (anche
da fermo, magari). Non a caso ho scritto alcuni libri proprio
di storie migranti, in questi anni. Ed è naturalissimo
scriverci canzoni. Ma appunto il viaggio è anche quello
di chi va al confine delle cose, per provare a trasformarle:
e allora Arrigoni, allora i curdi. E allora anche quella straordinaria
storia d'amore tra Carlo Pisacane, una delle figure di rivoluzionari
più belle della nostra storia, e Enrichetta Di Stefano
(anche nel primo disco raccontavo l'evento della Comune di Parigi
attraverso un canto d'amore).
Emma Goldman ebbe a dire, e tu la citi nel booklet del
disco: “una rivoluzione che non mi consente di danzare,
è una rivoluzione per la quale non vale la pena di lottare”.
Mao più prosaicamente sosteneva che “la rivoluzione
non è un pranzo di gala; non è un'opera letteraria,
un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta
eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta
dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità.
La rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza
con il quale una classe ne rovescia un'altra”. Ora, se
si può dar ragione alla Goldman non si può dare
torto al rivoluzionario cinese. È possibile una sintesi
tra queste due visioni evidentemente in contrapposizione?
La scorsa estate sono stato in Kurdistan, tra i guerriglieri
e le guerrigliere. Uno di loro mi ha citato, trasformando il
ballo in canto (ma il senso è lo stesso), il detto della
Goldman, che aveva appreso dal film V per Vendetta. E
quell'uomo aveva l'Ak-47 in spalla. Ora, non credo in alcuna
regola generale, ogni ragionamento deve essere fatto a partire
dalle situazioni concrete: e dunque i due enunciati possono
stare insieme, il caso dei curdi lo dimostra. Di certo, se si
tiene in piedi solo quello di Mao, il risultato sono i totalitarismi
che abbiamo conosciuto. La danza e il canto sono una delle espressioni
privilegiate della libertà personale: dove non si tratta
però della mera libertà individuale, atomizzata,
che forma la nostra civiltà occidentale. Tutti devono
poter danzare e cantare, e ogni danza è in sé
legata all'altra, ogni canto è in sé legato a
ogni altro canto. La libertà è un fatto collettivo
e individuale insieme: ovvero, singolare.
Per concludere, chiedo una tua impressione sullo stato
della cultura nel nostro Paese. Gli intellettuali stanno svolgendo
il compito loro assegnato dalla società? Sono, secondo
te, lo spirito critico della nazione o sono stati inglobati
in modo integrale nell'establishment?
Al di là delle intenzioni dei singoli intellettuali,
è lo spazio per le voci critiche che si è ridotto
drammaticamente. La rete consente di incontrarci, ma quanto
alla formazione di uno spirito critico generale è molto
più difficile. Anche la scuola sta venendo progressivamente
meno a questo ruolo (un ruolo informale, sia chiaro, che ha
esercitato per l'iniziativa degli insegnanti e non certo perché
fosse la sua missione). C'è tutto un vocabolario che
è cambiato, trasformandosi radicalmente: a noi che crediamo
si possa cambiare il mondo (”tutto inizia sempre”
significa anche questo) tocca prendere atto di queste trasformazioni,
per ripartire da lì, e non rinchiuderci in un vagheggiare
il ritorno di quello che non c'è più.
Giuseppe Ciarallo
Quel piccolo lucernario
che illumina le scale del palazzo
Nella storia della letteratura si rintracciano numerosi e in
alcuni casi clamorosi esempi di opere poi divenute famosissime,
rifiutate in prima battuta dagli editori.
Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach fu rimandato
al mittente addirittura diciotto volte prima di vendere i suoi
bravi due milioni di copie; Carlos Barral, proprietario di una
casa editrice di Barcellona, ebbe il coraggio di rispedire indietro
Cent'anni di solitudine a Gabriel Garcia Marquez, per
poi passare il resto della vita a mangiarsi mani e fegato; addirittura
Moby Dick venne giudicato “romanzo non adatto al
mercato giovanile”, e immaginiamo le grasse risate di
Herman Melville quando la sua balena divenne il cetaceo più
amato da tutti i ragazzi di tutti i tempi. L'elenco è
lunghissimo e ricco di aneddoti curiosi e in alcuni casi anche
divertenti.
Lucernario
di Josè Saramago (Feltrinelli, Milano, 2012, pp. 323,
€ 18,00) terminato nel 1953, fu spedito ad una casa editrice
che non ebbe nemmeno il buon gusto di comunicare all'autore
che non intendeva pubblicarlo.
Nessuna risposta, dunque nessuna spiegazione: nessuno conosce
con certezza la ragione del rifiuto. Certo si era in piena epoca
salazariana, ma Lucernario apparentemente non è
un romanzo politico, tutt'altro. È un romanzo che parla
di vita quotidiana, di persone “normali”, di gente
qualsiasi...
Sta di fatto che più di 45 anni dopo, nel 1999, quando
ormai Saramago era uno scrittore e Nobel di fama mondiale, la
stessa casa editrice si fece viva raccontando di aver rinvenuto
il manoscritto durante un trasferimento di struttura e offrendosi
di pubblicarlo. “Obrigado, ora no”, fu la
risposta dell'autore; così Lucernario rimase al
buio per molti anni ancora.
Evidentemente lo scrittore riteneva che non fosse più
tempo, che quel romanzo fosse scaduto, forse troppo differente
da quelli che lo avevano poi reso celebre in tutto il mondo;
o forse rappresentava una ferita ancora aperta, il ricordo amaro
di una delusione, qualcosa che era andato perduto e perduto
doveva restare.
Di Salazar tutto sommato non si parla molto, quando si raccontano
le grandi dittature del Novecento in Europa. Eppure Antonio
de Oliveira Salazar, dapprima ministro delle Finanze, fu a capo
della più lunga dittatura europea del secolo scorso,
iniziata il 5 luglio 1932 e conclusasi il 26 settembre 1968.
Una dittatura dichiaratamente fascista, partiti e sindacati
aboliti, le donne senza titolo di studio escluse dal diritto
di voto, la libertà di stampa colpita dalla censura e
la polizia di regime che vigilava giorno e notte sul rispetto
delle regole.
Chiamato al potere non in quanto uomo politico, ma in quanto
esperto di finanza, Salazar – professore di economia all'università
di Coimbra – conosceva profondamente il proprio Paese
e i bisogni delle classi dominanti.
Rispetto alla seconda guerra mondiale mantenne una posizione
ambigua, per poi furbescamente allearsi con i vincitori quando
ormai i giochi erano fatti; cosa che lo tutelò rispetto
agli oppositori interni e gli permise di governare il suo paese
fino alla morte.
Qualcuno ha definito la sua politica un “processo di fascistizzazione
dall'alto”, sostenuta e promossa dall'esercito e dalla
Chiesa, che esalta il colonialismo, l'ordine patriarcale, l'accentramento
assoluto del potere da parte dell'esecutivo e dunque l' abolizione
dei diritti civili e politici.
Sotto la guida di Salazar il Portogallo diviene presto il paese
dei grandi squilibri, economici e sociali.
Un paese grigio e triste, subdolo, mestamente conformista, isolato
dal resto d'Europa e immobilizzato da un'oppressione silenziosa
ma attenta e onnipresente nel quotidiano.
Lucernario è il ritratto perfetto della quotidianità
sotto il regime di Salazar. E questo davvero potrebbe spiegare
il rifiuto di pubblicarlo; sebbene né Salazar né
il suo regime siano mai nominati nel romanzo, né vi accada
nulla di direttamente riconducibile ad essi.
In un condominio di tre piani, a Lisbona negli anni quaranta,
vivono alcune famiglie.
È un caseggiato piccolo-borghese, abitato da personaggi
intenti a fare i conti con la vita di ogni giorno, ad affrontare
sconfitte miserie sogni perduti e delusioni; ad inventare stratagemmi
e architettare ipocrisie per sopravvivere al niente che li circonda.
L'anziano calzolaio Silvestre, uomo semplice ma desideroso di
conoscenza, e la moglie Mariana; le giovani sorelle Adriana
e Isaura, che vivono con la madre e la zia nascondendo una segreta
e colpevole pulsione omosessuale. Justina e Caetano, che hanno
perduto la piccola figlia Matilde; la bella Maria Cláudia,
che per amare un coetaneo sarà costretta ad accettare
disgustosi compromessi; la seducente Lídia, mantenuta
dai soldi dell'amante.
E poi Abel, giovane intellettuale libertario e libero, disilluso
e solo, che abiterà per un breve periodo in casa di Silvestre
e Mariana affezionandosi ai due coniugi. Tra il vecchio Silvestre
e il giovane Abel si instaurerà un intenso dialogo sul
senso dell'esistenza, sul valore dei sentimenti e dell'azione,
sul senso di responsabilità e sulla libertà di
scelta, sulla possibilità o meno di affrancare e riscattare
l'umanità.
Un'aspirazione a qualcosa di finalmente diverso, un barlume
di emancipazione e speranza destinato però a risolversi
nell'ennesima disfatta.
“Quel che penso non ha neppure il merito dell'originalità.
È come un vestito di seconda mano in una fabbrica di
capi nuovi. È come una merce fuori mercato, avvolta in
carta colorata con un nastro di colore abbinato. Tedio e null'altro.
Stanchezza di vivere, rutto da digestione difficile, nausea”.
Così anche Abel si arrende. Perchè il senso di
infelicità diffusa che regna nel condominio è
lo specchio di un'umanità che ha perso in partenza, come
se il diritto ad una vita almeno piena, se non felice, fosse
negato a prescindere.
E in fondo non è diversa dall'umanità di sempre,
perché tra le righe si percepisce con chiarezza un messaggio
che arriva dritto fino a noi, a suggerirci che Abel, o Maria
Claudia, o Caetano, un po' ci rappresentano, noi e le nostre
classi sociali, le ambivalenze e i segreti inconfessabili, gli
aneliti e le apatie e tutto il resto ancora; ivi incluse le
nostre miserie e le nostre democrazie.
Sono esistenze perdute, quelle di Saramago, proprio come il
manoscritto che, una volta tornato, tardi, tardissimo, in possesso
dell'autore, finì gettato tra altre sue carte, per essere
pubblicato postumo.
Forse è proprio quel “postumo” la nostra
salvezza, di noi lettori intendo, il dono insperato di un ultimo
romanzo, il primo, ad illuminarci la mente.
Come quel piccolo lucernario che illumina le scale del palazzo,
come la penna di Saramago che per una volta ancora, la prima,
l'ultima, illumina ritratti apparentemente opachi trasformandoli
in personaggi a loro modo – un modo fondamentalmente meschino,
certo, ma così efficace – indimenticabili.
Claudia Ceretto
Messico/
Il diario di viaggio come denuncia sociale
Laureato
in scienze naturali e ambientali, scrittore e attivista per
i diritti umani, Flaviano Bianchini è soprattutto un
grande viaggiatore. Appartiene alla stirpe, ormai estinta, dei
fratelli Reclus, di Alexandra David-Neel e, in tempi più
recenti, di Bruce Chatwin e V. S. Naipaul; gente assetata di
sapere, che il mondo non lo studia (solo) sui libri, ma lo percorre
a piedi osservandolo e analizzandolo minuziosamente, cogliendone
i paradossi e passando al setaccio paesaggi umani e naturali.
Dopo l'ormai classico, In Tibet. Un viaggio clandestino
(BFS edizioni, 2009, menzione speciale del Premio Chatwin “Viaggi
di carta”), affascinante esplorazione del paese delle
nevi, martoriato dal colonialismo cinese, e Taraipù.
Viaggio in Amazzonia (Ibis, 2014) che, con la scusa della
ricerca di un misterioso fiore magico, racconta la realtà
degli indigeni sudamericani, Bianchini ci propone adesso Migrantes.
Clandestino verso il sogno americano (BFS edizioni, Pisa,
2015, pp. 232, € 18,00), un'incredibile avventura lungo
3.000 kilometri di un Messico infernale e apocalittico, ben
lontano dalle bianche spiagge dei Caraibi e dai santuari hippie
del Pacifico.
Le cifre parlano da sole: almeno 25.000 desaparecidos
dal 2007 e 35.000 morti ammazzati in un solo anno, il 2014.
Li chiamano danni collaterali della guerra contro il narcotraffico,
ma sono numeri da capogiro se pensiamo che negli anni settanta,
in piena guerra sucia, i desaparecidos furono
meno di 500. L'economia non va meglio. Su un totale di 115 milioni
di abitanti, almeno 70 milioni languiscono in condizioni di
povertà e, fra questi, circa 15 si trovano in povertà
estrema, con un reddito inferiore ai 3 euro al giorno. Tuttavia,
il presidente Peña Nieto non perde l'occasione di ostentare
un' opulenza oscena e qui vive l'uomo più ricco del mondo,
Carlos Slim, il magnate delle telecomunicazioni che vale più
di 70 miliardi di dollari. Un altro personaggio emblematico,
il Chapo Guzmán, è un trafficante di droga che
figura nelle statistiche Forbes dei potenti della terra ed è
recentemente evaso - in maniera clamorosa - da un carcere di
massima sicurezza.
Questo è il Messico che ci racconta Bianchini; questo
e non la Riviera Maya, ma neppure il Messico politicamente corretto
degli zapatour. Un paese devastato dai racket criminali
che lotta e resiste sintetizzando, tra mille contraddizioni,
le miserie e le grandezze dell'umanità: la corruzione
e la violenza demente del potere certamente, ma anche la solidarietà
che germina negli interstizi della società. In questo
Messico, ogni anno, 800 mila persone (in gran parte centro
e sudamericani) intraprendono il viaggio verso il nord. Tra
esse, circa 600 mila raggiungono gli Stati Uniti, 150 mila vengono
sequestrate lungo il tragitto; cinque, forse diecimila - le
cifre esatte nessuno le sa, visto che gran parte di loro non
sono nemmeno messicani ed inoltre le famiglie non hanno il coraggio
di denunciarne la scomparsa - muoiono per strada e una donna
su sei viene violentata. In una sola località, San Fernando,
Tamaulipas, nel 2010 vennero massacrati 72 migranti nel 2010
ed altri 193 nel 2011. Altri ancora - un buon numero - vengono
deportati.
Il libro, scritto alla maniera di un diario di viaggio, racconta
in prima persona il calvario del tragitto verso il miraggio
americano. Lo fa senza falsa retorica e in maniera scrupolosa.
Appollaiato su La bestia (o tren de la muerte,
il treno merci che usano i clandestini per attraversare il Messico),
a piedi, di corsa, oppure nascosto sul fondo di un autocarro
o ancora fra le dune dell'Arizona, alle prese con la migra nordamericana,
l'autore registra tutto ciò che vive. Cosa lo muove?
In primo luogo, la curiosità e lo spirito d'avventura,
ma anche la denuncia sociale.
“Il mondo globalizzato - spiega l'autore - ha globalizzato
lo scambio di merci, ma non quello di persone. Un paio di jeans
vengono da tessuto denim prodotto in Cina con cotone kazako,
poi sono spediti in Messico per la cucitura, da lì al
Bangladesh per la sabbiatura, in India per la stiratura e poi
al distributore statunitense che lo distribuisce anche in Europa
magari con un importatore centrale in Germania che poi lo manda
in Grecia o in Spagna. Ma se uno degli oltre 6 miliardi di persone
al mondo che non hanno un passaporto degli Stati Uniti o dell'Unione
Europea prova a fare lo stesso viaggio, finisce sicuramente
a marcire in una qualche prigione o ucciso da qualche guardia
di frontiera. Però i jeans piacciono a tutti. E ci va
bene che siano fatti così. Abbiamo globalizzato le merci
ma non le persone”.
Va detto che Bianchini la globalizzazione la conosce di prima
mano. Oltre ad aver viaggiato per tutto il mondo, ha vissuto
in Perù ed è un profondo conoscitore del Messico,
dove viene spesso perché è consulente di comunità
indigene che lottano contro la devastazione ambientale. Recentemente
ha collaborato - con un eccellente testo sul rapporto tra l'industria
mineraria, i racket criminali e la repressione politica - a
un libro-denuncia sul caso degli studenti di Ayotzinapa desaparecidos
l'anno scorso nel Guerrero.1
L'avventura comincia a Tecún Umán, la cittadina
guatemalteca che segna il confine con il Messico; dalla parte,
nel Chiapas, c'è Tapachula. Da sempre è un luogo
sordido (lo ricordo negli anni ottanta, quando era frequentato
soprattutto da contrabbandieri), ma adesso è molto peggio.
Lì Bianchini fa qualcosa di apparentemente assurdo: spedisce
il passaporto a un indirizzo di Città del Messico e diventa,
ipso facto, un indocumentado. Uno fra molti altri.
Si fa chiamare Aymar Blanco ed è un giovane peruviano
diretto al nord. Indossa i poveri indumenti dei migranti: pantaloni
sdruciti, una maglietta, una giacca di finta pelle e un cappellino
da baseball. Armato di coraggio e adrenalina, possiede solo
una manciata di pesos cuciti nelle mutande. Niente cellulare
e niente macchina fotografica: darebbero nell'occhio. Sa che
non può fidarsi di nessuno: la polizia, la migra, le
bande criminali, i ferrovieri, gli autisti degli autobus e un
lungo eccetera di profittatori che fa i soldi con i migranti.
Il viaggio durerà 21 giorni e Bianchini ne vedrà
di tutti i colori. Conoscerà la paura, la fame, il freddo,
il caldo, la sporcizia, la sete ed anche la prigione, oltre
ai ripetuti assalti delle bande criminali. Incontrerà
canaglie di tutti i generi, ma anche persone meravigliose, come
le Patronas, un gruppo di donne di Veracruz che dal 1995
offrono cibo ed acqua ai clandestini de La bestia. “Dopo
tutto l'odio e la violenza che ho visto in questi giorni mi
viene da piangere a pensare a quanta bontà c'è
in un piccolo gesto del genere”, annota Bianchini commosso.
Nel tragitto, farà anche molte amicizie, ma non tutti
ce la faranno: “in Tibet mi sono trovato più volte
in gravi difficoltà. Ma mai come in Messico. Siamo partiti
in 25 e siamo arrivati in 19”, mi racconta. Già,
perché qui, la vida no vale nada. Il resto non
lo racconto perché preferisco lasciare al lettore il
gusto di scoprirlo da solo. Vale la pena.
Claudio Albertani
1. Claudio Albertani/Manuel Aguilar Mora,
La noche de Iguala y el despertar de México, Juan
Pablos Editores, México, 2015.
Umberto Marzocchi/
Settant'anni di militanza rivoluzionaria libertaria
Esce
come “quaderno” n. 5 / 2015, anno VII, nella collana
biografica dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età
Contemporanea (ISREC) di Savona una nuova pubblicazione, 136
pp., dedicata a Umberto Marzocchi, figura mitica dell'anarchismo
internazionale novecentesco (Umberto Marzocchi, ISREC,
2015, pp. 136, prezzo non specificato). Gli autori – Vincenzo
D'Amico, Giuseppe Milazzo e Giacomo Checcucci – animati
da grande passione militante e storiografica, hanno efficacemente
sintetizzato alcune fra le questioni e gli snodi salienti che
attraversano la vita del protagonista. Le fonti utilizzate sono
state principalmente quelle già edite, ed in particolare:
G. Sacchetti, Senza frontiere. Pensiero e azione dell'anarchico
Umberto Marzocchi (1900-1986), un impegnativo volume di
oltre 500 pagine edito da Zero in condotta nel 2005 di cui è
in corso di preparazione l'edizione francese. Gli intenti dei
promotori dell'iniziativa editoriale savonese – il gruppo
“Pietro Gori”, la famiglia Marzocchi e gli stessi
autori – sono oggi quelli di svolgere una meritoria opera
di divulgazione soprattutto tra i giovani e nelle scuole.
L'obiettivo non sarà facile, per diversi motivi, e una
glossa negativa al nuovo libretto marzocchiano bisogna farla.
Ci convince poco, e stona con il resto, la pretenziosa quanto
inconsistente “prefazione” redatta senza firma dall'ISREC
nella quale si esalta, con argomenti propagandistici, il ruolo
dell'URSS nella guerra di Spagna. Ah questi vecchi arnesi dello
stalinismo che si improvvisano storici! Forse non sono ancora
persuasi che il Comunismo sovietico abbia terminato ingloriosamente
il suo lugubre percorso nel 1991. A Savona non è arrivata
la notizia?
Una vita avvincente come quella di Umberto avrebbe meritato
senz'altro un “editore” meno invadente. Detto questo
però ci rimane comunque la buona occasione per una rilettura
critica della “nostra storia”.
Settant'anni di militanza rivoluzionaria libertaria nel Novecento
– tali sono quelli vissuti da Umberto Marzocchi –
significano aver attraversato il secolo, “breve”
e controverso, nei suoi punti cruciali. Vogliono dire aver conosciuto
da vicino molti degli aspetti terribili e talune conseguenze
totalitarie nello sviluppo dei miti di classe e nazione. Guerre
e rivoluzioni tradite nella vecchia Europa, ma anche grandi
speranze si sono alternate di volta in volta nel susseguirsi
febbrile delle vicende. Così, elementi di soggettività
e volontarismo hanno contribuito ad alimentare il fuoco dell'idea
socialista anarchica. Un'idea onnipresente che si è compiutamente
espressa, certo con differente grado di intensità, nei
grandi movimenti di massa e sindacali del Biennio Rosso italiano,
della Spagna rivoluzionaria, del Sessantotto-Settantasette,
ma anche nella cospirazione e nell'esilio antifascisti, nel
difficile impegno di testimonianza nell'era della guerra fredda.
In un percorso di questo tipo, connotato da sconvolgimenti e
cambi di scenario repentini, da modifiche culturali e socio-politiche
devastanti, rimane sempre molto difficile individuare un filo
conduttore plausibile. L'insopprimibile anelito verso la libertà,
l'antagonismo al potere oppressivo comunque ed ovunque esso
si manifesti possono da una parte spiegare quel radicalismo
che ciclicamente ritorna nei ranghi dei movimenti. Ma questa
argomentazione da sola non basterebbe di sicuro a farci capire
un fenomeno così straordinario di longevità. Una
militanza “minoritaria” di lungo corso presuppone
per sua natura, a differenza forse di quella in partiti politici
gerarchizzati di massa, pulsioni movimentiste e intelligenze
creative quasi perennemente attive. Inoltre, mentalità
allergiche agli apparati e allenate a diffidare di ogni autorità,
critiche ma attente al nuovo che si manifesta nella società,
di fatto quindi più sensibili, sono per natura portate
ad esprimere maggiori capacità nel superare ad esempio
le barriere generazionali. Intransigenza e rigore si sono allora
coniugati con tolleranza e comprensione. Nel movimento anarchico
di lingua italiana figure di questa specie non sono mancate,
tutti appartenenti alla generazione di Marzocchi, tutti formatisi
alla medesima “scuola”: esilio, lotta antifascista
e duro confronto con lo stalinismo. Fu una grande prova.
L'originale pensiero politico di Camillo Berneri, con le sue
idee di apertura e dialogo verso le forze più giovani
e radicali, risulterà certo molto influente nel determinare
gli orientamenti del movimento anarchico di lingua italiana
e dello stesso Umberto, circa la delicata questione delle alleanze
a sinistra, a partire dagli anni trenta. Nel 1935, al convegno
d'intesa degli anarchici italiani emigrati tenutosi a Sartrouville
(Parigi), si formalizza un'autentica svolta, una scelta di campo
irreversibile per quanto riguarda i possibili compagni di strada.
In questa occasione, mentre già da tempo si era delineata
nel movimento la consapevolezza sulla natura effettiva della
Russia sovietica date le notizie sulle repressioni in atto contro
l'opposizione di sinistra, si rafforza senza meno la constatazione
della incompatibilità della prassi anarchica con il comunismo
bolscevico (”Col partito comunista mai il benché
minimo compromesso”). Nel contempo si prende invece in
esame l'eventualità di una “libera intesa”
con: sindacalisti, Giustizia e Libertà, repubblicani
di sinistra, con la dissidenza socialista e comunista in genere.
Sono scelte queste che comunque rimarranno evidentemente a lungo
vigenti. La Spagna, in tal senso, costituisce il punto di non
ritorno.
Il passaggio dal protagonismo alla testimonianza non è
certo facile per nessuno. Le vicende tormentate dell'anarchismo
italiano, per i venti anni che seguono la fine della seconda
guerra mondiale, si caratterizzano per due episodi salienti:
il contrasto aspro tra la Federazione Anarchica Italiana (FAI)
e i nuovi Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) nei primi
anni cinquanta; la scissione infine dalla Federazione, consumatasi
nel 1965, dei Gruppi di Iniziativa Anarchica (GIA). Tra tentativi
audaci di rinnovamento culturale e difesa strenua dell'identità,
e dei principi, tra organizzazione e individualismo, lotta di
classe e aclassismo, il movimento si misura su questioni strategiche
di grande peso il cui esito, invariabilmente, resta condizionato
dal contraddittorio irrisolto rapporto dialettico con la nuova
democrazia instauratasi dopo il 1945.
L'anarchismo italiano affronta la nascita della repubblica con
un bagaglio teorico limitato, questo il punto. A fronte di più
complesse e rinnovate – sebbene nel segno della continuità
– strutture del potere pubblico e del dominio sociale,
non corrisponde dunque un movimento libertario altrettanto dinamico
e capace di risposte politiche adeguate. È la dura realtà
dei fatti. La sconfitta subita negli anni venti e trenta, il
ridimensionamento a livello internazionale, gli esiti infausti
della guerra civile spagnola, chiudono inevitabilmente ogni
speranza di riprendere, senza rinnovarsi, il ciclo virtuoso
di crescita dell'anarchismo del primo novecento dal punto in
cui si era interrotto. Alla dura repressione fascista, stalinista
o a quella degli stati democratici si dovrà far risalire
certo una parte importante delle cause che hanno determinato
questa crisi. A ciò si deve però aggiungere un
ulteriore elemento: c'è un'inedita composizione di classe
che, manifestatasi su larga scala tra le due guerre mondiali,
stravolge in toto memoria e identità delle antiche organizzazioni
del movimento operaio. L'antifascismo, costituito in forza collettiva
e convertito in sistema di governo, è ora elemento di
ricomposizione tra “politico” e “statale”.
Il partigianato, sebbene istituzionalmente “legittimato”,
è oggetto di inediti intrecci tra Stati, ideologie e
movimenti. Il dato di fatto più rilevante è che
il PCI, complice lo sviluppo dei partiti di massa e grazie all'ambivalente
strategia togliattiana, raccoglie a sinistra tutta l'eredità
del sovversivismo popolare. E il resto dell'opera di ridimensionamento
(vale anche per l'ala più radicale dell'azionismo) viene
compiuto con lo scatenarsi della guerra fredda.
Umberto si mantiene su posizioni “movimentiste”,
aperte al dialogo ma sostanzialmente diffidenti su possibili
rinnovamenti troppo radicali nei connotati storici dell'anarchismo.
L'Internazionale anarchica è una sua creatura. Già
al convegno parigino del 1935 aveva proposto la formazione di
un coordinamento propedeutico che ne promuovesse la nascita.
Il progetto diventa realtà grazie alla passione e all'impegno
incessante profuso nel mantenimento di contatti anche in paesi
sotto le dittature fasciste e comuniste. All'età di 77
anni è arrestato durante una riunione clandestina della
Federazione Anarchica Iberica in Spagna e liberato grazie ad
una mobilitazione di solidarietà a livello europeo.
La sua capacità di dialogo, fino al limite dell'impossibile,
discende da una qualità personale che gli viene riconosciuta
anche nelle carte di polizia: “il soggetto ha un'intelligenza
svegliata”... Per i superstiti di quella che era una gloriosa
componente del movimento operaio, misurarsi su altre dimensioni,
sia generazionali che ambientali, deve aver comportato sforzi
immani...
Giorgio Sacchetti
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