Un'idea
è soltanto un'idea
Scrivo questa breve riflessione stimolata da un paio di articoli
apparsi sul numero 403 di “A” (dicembre-gennaio).
Il primo porta la firma del mio omonimo Andrea (“Un
po' d'anarchia nell'oggi”, pag. 8), il secondo è
l'ultima corrispondenza dal Chiapas di Orsetta Bellani (“Un
futuro già presente”, pag. 22). Con entrambi
mi sono sentita in sintonia - trovando che si completino a vicenda
dato che il secondo esemplifica ciò a cui il primo fa
riferimento - quindi il mio scritto vuole essere solo un'aggiunta,
un pensiero in più.
Un'idea è soltanto un'idea (parafrasando il vecchio Gaber
di almeno quarant'anni fa) e per quanto nobile – quindi
ideale – è pur sempre prodotto umano, quindi suscettibile
di evoluzione e cambiamenti anche radicali; infatti, come afferma
il citato Gustavo Esteva nello scritto di Orsetta, vivere la
fine non solo di un periodo storico (determinato dalle grandi
ideologie che in qualche modo sono servite per ricostruire la
società occidentale dopo le due guerre mondiali), ma
di un'era – come sta succedendo proprio qui da noi in
Europa – esige l'abbandono del tipo di pensiero nel quale
ci siamo formati perché “la natura umana è
un divenire culturale e come tale può essere modificato”.
Questo vale, io credo, anche per l'idea anarchica che, se non
trova nelle persone che la rendono vitale la possibilità
di trasformarsi, è destinata a finire o rimanere aggrappata
alla nostalgia di chi non vede la necessità del tempo.
Questo è quanto mi sembra dica Andrea quando riconosce
tutti quei semi sotto la neve che stanno prendendo la
forma di esperimenti sociali di vario genere che, in questo
periodo, sono le cose più ricche di vita e speranza per
il futuro non soltanto europeo. Infatti – cito dall'articolo
– le esperienze nella zona curda del Rojava e nel Chiapas
messicano sono tra le più significative dal punto di
vista libertario e continuano a sorgere nel mondo situazioni,
momenti, movimenti, sperimentazioni e quant'altro, tutti segnati
da metodologie profondamente libertarie spesso con tratti anarchici,
ma che quasi mai si autodefiniscono tali.
Perché? Ci sarà un motivo per cui le persone che
stanno in quegli esperimenti di vita preferiscono non essere
inquadrate da termini provenienti da un passato storico, seppur
onorevole.
Bisognerebbe tenerne conto nel modo dovuto, dice Andrea, “perché
è un segnale che indica come ci sia una spinta spontanea
di rivolta per ricercare e sperimentare situazioni di tipo anarchico
e libertario (...) che diano un senso vero di liberazione e
libertà sociale”.
Bisognerebbe tenerne conto nel modo dovuto, lo dico anch'io,
e avere il coraggio di mollare gli attaccamenti (che non significa
ripudiare ciò in cui si è creduto e si crede),
rivedendo linguaggi e modi di fare (lo dico da donna che vive
in un ordine sociale maschile fatto di parole, gesti e azioni),
perché il bisogno umano di libertà e giustizia
sociale esiste da prima che qualcuno nell'Ottocento lo chiamasse
anarchia e oggi probabilmente sta cercando di aggrapparsi a
una pluralità di spinte interne ed esterne a ognuno di
noi per le quali quel termine, come tanti altri, è troppo
stretto.
Personalmente trovo proprio in questo l'entusiasmo utile a sostenermi
in questo difficilissimo periodo storico, nella necessità
che il tempo richiede di capovolgere tutto per andare a vedere
in profondità, in quel che rimane, ciò che davvero
conta e che non ha nome, come ogni novità vera.
Credo sia importante riconoscere come le società dell'Occidente
– inteso non tanto geograficamente ma come riferimento
a parametri culturali – hanno perso creatività,
vale a dire la responsabilità del sogno e dell'immaginazione,
sostituiti dall'ideologia del mercato e della finanza. È
chiaro che con sogno non intendo gli importanti accadimenti
notturni di cui ciascuno di noi mantiene più o meno memoria
e auspico faccia il miglior uso che gli è possibile,
ma parlo di sogno come atteggiamento vigile e di immaginazione,
come elemento da affiancare alla speranza, quali spinte che
consentono di creare la novità che si nutre non di una
sola idea (come quella anarchica) ma di tutta la storia umana.
Cito a braccio una teologa cristiana – Antonietta Potente
– affermando che proprio nel sogno e nell'immaginazione
c'è spazio per l'invisibile, per l'inedito, il non ancora
conosciuto, forse perché ancora senza nome. Sogno e immaginazione:
iniziativa creativa di noi donne e uomini in cammino nella quotidianità
della realtà più reale dove cerchiamo di portare
cambiamento nei fatti e nelle pratiche della vita di tutti i
giorni, assumendoci l'iniziativa al livello che per ciascuno
è possibile, rimanendo consapevoli che ogni cosmovisione
è relativa al proprio contesto e nessuno può avere
una visione completa e assoluta della realtà.
Anche la corrispondenza di Orsetta Bellani si conclude riprendendo
l'idea di sogno: “Iniziare a sognare e dibattere collettivamente
quello che vogliamo costruire è parte del cammino. Un
cammino che si fa camminando e si cammina chiedendo, con l'energia
che ci muove verso ciò che ancora non è”
(Jerome Baschet da lei citato).
Ma la gran parte degli anarchici non è dentro questi
movimenti - sottolinea Andrea - e qualcosa questo fatto vorrà
pur dire, forse la paura di abbandonare il vecchio per il nuovo
correndo il rischio, però, di diventare simili a cariatidi
dell'anarchia.
Riconosco che, fortunatamente, le pagine di “A”
sono un'eccezione nella disponibilità che dimostrano
a uscire dal coro. Così sarebbe bello vedere l'evoluzione
di questa rivista nel diventare ancora di più centro
di raccolta e testimonianza di tutto quel materiale senza etichetta
che racconta le esperienze di chi sta dalla parte della vita.
Silvia Papi
Gropparello (Pc)
Dibattito Isis.2/ Alcune riflessioni
su Islam, terrorismo e Occidente
All'indomani dei sanguinosi attentati terroristici che lo scorso
13 novembre hanno colpito Parigi, il discorso pubblico occidentale,
in modo compatto, si è prontamente mobilitato nel tentativo
di restituire una narrazione dei fatti che purtroppo non è
stata e non sarà in grado di produrre una riflessione
seria e approfondita sull'argomento. Per quanto comprensibili
e condivisibili, infatti, le unanimi condanne che sono state
scagliate sugli attentatori non serviranno certo ad evitare
future tragedie. Oltre alle parole, serviranno ancora meno l'eventuale
sospensione degli accordi di Schengen, la chiusura delle frontiere
o l'innalzamento di nuovi muri; serviranno a ben poco lo stato
di emergenza, le leggi speciali e il generale aumento delle
misure di sicurezza; ma, soprattutto, non servirà a nulla
un'ennesima campagna bellica come quella che si sta profilando
in questi giorni se non a produrre nuovi adepti tra le fila
di quel terrorismo che si vorrebbe debellare.
Come prima cosa, dunque, sul piano speculativo, occorre andare
oltre le condanne e le sentenze, oltre la retorica e la pratica
della “guerra al terrore” e del richiamo allo scontro
di civiltà – tanto falso quanto inutile, seppure
sempre estremamente efficace sul piano del consenso mediatico
e politico - per cominciare invece a porsi alcune domande fondamentali
e interrogarsi quindi sui molti doverosi perché. Occorre
cercare spiegazioni, non certo impossibili giustificazioni,
ma elementi di comprensione utili a definire il fenomeno del
terrorismo cosiddetto islamista evitando anzitutto di cadere
nell'errore di ridurlo alla dimensione imperscrutabile della
follia. Affermare che i terroristi rispondono unicamente alla
pazzia – come da molti è stato fatto sull'onda
dello sconcerto - può offrire un comodo riparo al nostro
istintivo disorientamento e, ancor di più, alle nostre
coscienze, ma significa arrestare il pensiero a un piano estremamente
superficiale della questione e soprattutto significa inevitabilmente
non capire la portata storica di quei gesti nichilistici.
La prima domanda domanda da porsi, allora, nel caso degli attentatori
di Parigi - tanto quelli che hanno assaltato la redazione di
Charlie Hebdo quanto i protagonisti di questo sanguinoso 13
novembre -, non può che essere relativa alla loro identità.
Molto semplicemente c'è da chiedersi chi sono. La risposta
è altrettanto semplice e non lascia indifferenti per
almeno due motivi. Sappiamo infatti che il massacro di Charlie
Hebdo è stato perpetrato da due giovani fratelli di nazionalità
francese e che anche cinque degli attentatori del 13 novembre
erano francesi, mentre quella che viene ritenuta la “mente”
dell'operazione, Abdelhamid Abaaoud, era di nazionalità
belga. Questo dunque il primo motivo: si trattava a pieno titolo
di cittadini europei, nati e cresciuti nel cuore dell'Occidente,
nella nostra civile e democratica Europa, e non oltre quel confine
immaginario che separa il Noi dal tutti-gli-altri. Come hanno
scritto quattro insegnanti di Sein-Saint-Denis, “quelli
di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come
tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli
della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi
ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo
provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche
giorno: la vergogna”. E concludevano dunque ribadendo
che certamente siamo Charlie Hebdo, ma siamo anche i genitori
dei loro assassini. E tale paternità, occorre riconoscerlo,
non è esclusiva francese ma, appunto, europea, occidentale.
Mentre in Place de la Republique...
Alla luce di questo dato, il secondo motivo che non può
lasciare indifferenti riguarda appunto la costruzione mediatico-politica
del terrorista come mostro alieno, nel vero senso etimologico
della parola: colui che viene da fuori e che è straniero,
estraneo al nostro mondo, alla nostra cultura, ai nostri valori,
in sintesi, alla nostra civiltà (ammesso e non concesso
di possedere un'identità da leggere in questo senso).
Una costruzione per niente ingenua o frutto di superficialità,
ma perfettamente funzionale e strumentale al potere politico:
“La Francia è in guerra”, ha infatti ben
presto dichiarato Hollande. E non intendeva certo una guerra
civile. Il nemico è stato subito proiettato oltre il
giardino di casa, al di là della Fortezza Europa, nella
lontana Siria, a Raqqa, quartier generale di quel sedicente
Stato Islamico che ha orgogliosamente rivendicato le morti parigine.
E così le prime bombe non si sono fatte attendere a lungo.
Ma le ricadute politiche e giuridiche che la reazione del governo
francese ha determinato non sono meno preoccupanti e colpiscono
indiscriminatamente tanto i cittadini francesi quanto i migranti
– e non solo - di tutta Europa. In deroga alla Convenzione
europea di salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), che limita la durata dello stato di
emergenza a un massimo di dodici giorni.
Il Consiglio dei Ministri francese ha decretato che, data la
gravità della situazione, questo sarà eccezionalmente
mantenuto in vigore per tre mesi. Si tratta di una decisione
di una forte e inquietante deriva autoritaria che l'opinione
pubblica francese ed europea in generale, concentrata sulla
propria sicurezza, non ha immediatamente recepito come tale,
dunque come una grave minaccia alla propria libertà.
Solo quando alla popolazione francese è stato vietato
di scendere nelle strade di Parigi e manifestare pubblicamente
contro la conferenza sul clima (Cop21) inaugurata lo scorso
29 novembre in molti si sono finalmente resi conto della pericolosità
di tale provvedimento. Ancora più recentemente, il filosofo
Giorgio Agamben ha ricordato come lo stato di emergenza, lungi
dal costituire uno scudo per lo stato di diritto, offra invece
la possibilità concreta del suo rovescio, come accadde
in Germania durante il regime hitleriano. E così, mentre
sul selciato di Place de la Republique venivano deposte
migliaia di innocue scarpe colorate, altrove, decine di militanti
ecologisti e ambientalisti, di appartenenti ai movimenti antagonisti,
ma anche di semplici agricoltori, subivano irruzioni improvvise
nelle proprie abitazioni (senza mandato), perquisizioni personali
e fermi preventivi grazie al benestare del sopraccitato stato
di emergenza.
Di pari passo, dal giorno degli attentati, migliaia di cittadini
francesi (ma dall'apparente origine straniera e presumibilmente
prestanti fede musulmana) vengono sistematicamente fermati e
controllati per scopi identificativi. Il clima di prove generali
di sospensione di alcuni dei diritti fondamentali dell'uomo,
quali tra gli altri la libertà di circolazione e di riunione,
non si è arrestato (è il caso di dirlo) al cospetto
della Alpi. Ne abbiamo sentito il riverbero anche in Italia,
quando il 24 novembre, decine di forze dell'ordine in tenuta
antisommossa hanno fatto irruzione presso il centro di accoglienza
“Baobab” di Roma, perquisendone i locali e trasportando
in questura ventiquattro ragazzi migranti per non meglio precisati
accertamenti. Per non parlare del Belgio, dove la capitale Bruxelles
è stata blindata e militarizzata per diversi giorni,
tenendo l'intera cittadinanza ostaggio delle proprie case e
del terrore: scuole, metropolitana e cinema chiusi, concerti
annullati e campionato di calcio sospeso.
Infiniti non-luoghi
Riprendendo il filo del discorso, tuttavia, una volta trovata
la risposta all'identità degli attentatori parigini e
compresa dunque la loro totale appartenenza al mondo europeo
ed occidentale, occorre porsi una seconda e ben più complessa
domanda: perché? Dove risiede la motivazione di tanto
odio? Da cosa si origina un tale livore nei confronti della
terra che li ha cresciuti? La prima risposta, quasi un riflesso
condizionato, associa istintivamente gli eccidi parigini allo
scontro di civiltà o, meglio ancora, a una presunta guerra
di religione, identificando nell'islam radicale la radice di
tale fenomeno, definito, appunto, terrorismo islamico. D'altra
parte, che il sedicente ISIS - o DAESH che dir si voglia - sia
una realtà concreta responsabile di atrocità enormi,
compresa la strage di Parigi, è un dato di fatto incontrovertibile
che nessuno può e vuole mettere in dubbio. E tuttavia
questa risposta non pare sufficiente a spiegare la questione
nella sua complessità.
Da un lato, dunque, occorre volgere lo sguardo ai luoghi più
vicini a noi, quei luoghi delle nostre città, le periferie
suburbane, nei quali gli attentatori sono appunto nati e cresciuti,
nei quali si sono letteralmente formati e hanno maturato l'odio
sociale e religioso sviluppandolo fino alle ultime conseguenze.
Un sottosuolo, appunto, quasi sempre relegato a se stesso,
taciuto e negato, dove la mano dello Stato si allunga solo per
castigare e reprimere.
È a partire da queste terre di nessuno, da questi infiniti
non-luoghi, che occorre invece intervenire con uno sforzo e
un investimento consistente di matrice politica e culturale
al fine di prevenire ed evitare la produzione di pericolose
sacche di emarginazione ed esclusione dove facilmente si può
cadere prede di richiami identitari estremistici, tanto religiosi
quanto sociali.
Dall'altro lato però occorre contemporaneamente volgere
lo sguardo anche ai luoghi più lontani, nel tempo e nello
spazio. Ed è qui che si rende indispensabile adottare
un criterio di indagine che, per dirla con l'antropologo statunitense
Paul Farmer, sia quanto più possibile storicamente
profondo e geograficamente ampio. Occorre dunque
abbandonare le quattro decrepite mura della fortezza europea
per affacciarsi oltre le acque del mediterraneo e dell'oceano,
senza timori, volgendo lo sguardo all'indietro, ai tempi delle
colonie americane ed africane e dunque ripercorrere la Storia
con il pensiero rivolto da un lato a ciò che si proclamava
proprio in Francia sui concetti di libertà, uguaglianza
e fratellanza - declamati e rivendicati alla stregua di diritti
universali -, e dall'altro a ciò che invece avveniva
nella realtà, ad esempio ad Haiti, dove la stessa Francia
cercò invano di reprimere nel sangue la rivolta degli
schiavi neri che pretendevano di credere negli stessi valori
della madrepatria o, ancora più recentemente, in Algeria,
dove per otto lunghi anni sempre la Francia si impegnò
in tutti i modi possibili – e di nuovo invano –
per sconfiggere la giusta battaglia per l'indipendenza del popolo
algerino.
Sono solo due esempi utili a rendere l'idea di come il discorso
civile o illuministico che dir si voglia occidentale, lungi
dall'essere universale, sia invece sempre stato un costrutto
autoreferenziale, presupponendo di per sé le condizioni
di quella che solo oggi viene riconosciuta come la divisione
tra Noi e Loro. Una divisione e una separazione volute e create
fin dai primordi dell'Occidente, poiché solo grazie a
questa divisione e a questa separazione di natura evidentemente
gerarchica l'Europa ha potuto edificarsi e proclamarsi superiore,
ovvero a scapito di tutti-gli-altri. Non è possibile
parlare di Europa e di Occidente senza fare i conti con il nostro
passato recente; senza fare i conti con lo schiavismo, il colonialismo,
l'imperialismo e, più in generale, con ogni forma di
sfruttamento. E non è possibile per il semplice motivo
che ne siamo il prodotto culturale e materiale. Finché
non proveremo a decolonizzare il nostro pensare e il nostro
agire non potremo mai superare quella linea del colore
– per dirla con Du Bois - che ancora separa il Noi dal
tutti-gli-altri, i civili dai non-civili.
Macabra contabilità della morte
Fino ad allora continueranno a valere le parole di Talal Asad
secondo cui “la percezione che la vita umana abbia un
valore di scambio differente nel mercato della morte a seconda
che si tratti della vita di persone 'civilizzate' o 'non
civilizzate' non è solo assai comune nei paesi liberaldemocratici:
è funzionale a un ordine mondiale gerarchico”1.
A questo proposito, entro l'ottica di uno sguardo capace di
allargare gli orizzonti del discorso al di là dei confini
europei ed occidentali, si profila un'ulteriore riflessione
dai risvolti tanto sorprendenti quanto significativi. Stando
all'ultimo rapporto del Global Terrorism Index2,
infatti, negli ultimi 15 anni, le vittime occidentali del terrorismo
(islamista o meno) sono pari al 2,6% del totale e, se si escludono
le morti legate agli attentati dell'11 settembre 2001, la percentuale
scende ulteriormente allo 0,5.
Ciò significa che, malgrado il bassissimo impatto mediatico,
la quasi totalità delle vittime del terrorismo mondiale
si conta in paesi non-occidentali, primi fra tutti Iraq, Nigeria
e Afghanistan. Un dato altrettanto inaspettato riguarda il principale
gruppo terroristico per numero di morti, ovvero Boko Haram e
non, come si potrebbe immaginare, l'ISIS. Ma ciò che
colpisce di più in questa macabra contabilità
della morte riguarda il fatto che la stragrande maggioranza
delle vittime non è di religione cristiana o ebrea, ma
musulmana. Basti pensare che solo nel 2015 i morti islamici
per mano terrorista sono stati oltre 23mila, contro i 148 caduti
in Europa tra Parigi (7 gennaio e 13 novembre) e Copenaghen
(14/15 febbraio). È dunque questo il terreno su cui cominciare
a riflettere seriamente, per porsi altre necessarie domande
e tentare qualche doverosa risposta.
Raúl Zecca Castel
Monza (MB)
Note
1 ASAD T., Il terrorismo suicida. Una chiave per comprenderne
le ragioni, Ed. Cortina, p. 92
2
http://economicsandpeace.org/wp-content/uploads/2015/11/Global-Terrorism-Index-2015.pdf
Anarchia, letteratura e le
mistiche
Le coordinate dello spirito - si sa - sono anarchiche. Così
mi capita di ripensare ad un discorso espresso in una circostanza
passata e sentirlo al presente, o subito dopo, come un lascito
vago, qualcosa rimasto in sospeso.
È un bene? È un male? Chissà? È
un dato di fatto: le cose esigono tempo. Premono – fuori
dal tremore del momento – a riprendere il filo del discorso
e a cercare di intrecciarlo, con un punto a orlo un po' sghembo,
nel cuore della cosa.
A Massenzatico per la festa
dei 400 numeri di A, in combinata con Massimo Ortalli, mi
è stata data l'opportunità di dire la mia su letteratura
e anarchia.
Non intendo rinnegare ora la mia affermazione di allora –
la letteratura è detestabile in quanto fuori dall'atto
di scrivere – ma riprendere il contrappunto in rapporto
all'altro lato della questione, articolandolo alla dimensione
ideale dell'anarchia.
Dove? Come? Con quali passaggi abbordare atto dello scrivere
e contesto anarchico senza confonderli e sentirli tuttavia vivere
(quasi) morbosamente? Attraverso la scrittura mistica, la cui
natura misteriosa scorre, non di meno dell'ideale anarchico,
su impietosi silenzi.
Ecco, posso ora rispondere più concretamente alla richiesta
di Carlotta che, da giovane anarchica qual è, sollecitava,
a incalliti anarchici che siamo, suggerimenti di lettura.
I testi delle mistiche e dei mistici di ogni tempo – le
dico ora – e le raccomando di non forzare la lettura in
cerca di quella neutralità in cui si crede consista il
pensiero oggettivo, come se il pensare soggettivo non facesse
parte del contesto ragionante; che (ci) si abbandoni alla lettura
come a qualcosa di cui al primo impatto, ingombrati come siamo
di noi stessi e delle nostre certezze, si capisce quasi niente
e che forse, con una dose di distacco, si avverte evocatrice
intima di qualcosa di prezioso, di perfettamente incomprensibile
in grado di orientarci. Stare alla lettera è una virtù
semplice quanto difficile da preservare, perché ci si
aspetta in fondo di essere confermati.
Stando in prossimità del testo mistico ci si accorge
di una semi-assenza di chi scrive, si dice sia la morte dell'io
necessaria all'autore. Far resistenza ad essa per paura di risultare
ignobile è rifiutare la verità che pur in minima
parte è sempre tutta. Il torpore di chi scrive si presenta
nell'articolazione paratattica della prosa e si manifesta altresì
nel verso lirico della poesia. L'autore mistico non argomenta
niente, non dice nulla, non si pronuncia su niente, non ha disposizioni
da opinionista, non sa lui stesso dove andrà a parare.
Si abbandona alla risonanza in tutta semplicità –
come la linearità paratattica attesta e l'illuminazione
poetica arriva, se arriva, come epifania di parola. In sintesi,
la verità nuda non ha perché nè di fine
né di causa.
Non disgiungere mai l'opera dall'autore, è stato l'altro
suggerimento. Lo ribadisco in questo senso: i testi di mistiche
e di mistici che, stando alla sostanza della lettera per le
une e per gli altri, non è un'attribuzione generica,
sono il testo vivo di un corpo erotico che (ci) parla nel tempo
e in tempo reale; dicono di un soggetto fuori di sé a
prescindere da sé stesso. Non per caso, Jacques Lacan
giudicò gli scritti di mistiche e di mistici cose di
«gente seria»...
La dismisura che sostiene l'azzardata combinazione di mistica
e anarchia sta nella dimensione ideale e politica di quest'ultima
in base alla considerazione che il fine dell'azione sta già
nel mezzo utilizzato, così come nella scrittura mistica
la meta è già il percorso.
Le utopie autoritarie, come i sistemi totalitari dalle quali
dipendono, hanno per contro la pretesa di fare del proprio sogno
il sogno di tutti e di realizzarlo a tutti i costi, deprivando
gli altri della possibilità stessa di avere sogni e sogni
differenti da quello del dominio. In vero, c'è da rilevare
che i sistemi totalitari, almeno all'inizio, hanno assai poco
da reprimere, essendo nutriti proprio da quella mancanza di
pensiero vivo e di sogno creatore...
La libertà autentica non è definita in rapporto
a desiderio e soddisfazione ma in rapporto a pensiero e azione,
che non reggono una perfetta coerenza logica, insorgono in parziali
verità di reale vivente.
L'idealità anarchica non pecca di realismo nel mantenersi
viva sul piano ideale. Degrada per l'illusione di possibilità.
Il possibile è il luogo dell'immaginazione e quindi della
degradazione. Bisogna volere o ciò che precisamente esiste,
o ciò che non può affatto essere; meglio ancora
ambedue. Giacché non si tratta di consolarsi preservando
solamente la purezza ideale fuggendo l'esistente dove, nel tempo
continuo del qui-ora, la mediazione vivente tra realtà
e irrealtà è la mediazione necessaria. Altrimenti
detto: esserlo non farlo.
La testualità anarchica inscrive la traversia assai movimentata
dell'essere-già, in procinto, di non essere-ancora, tra
dicibile e indicibile.
Come la testualità mistica non è partorita per
concepire pregressi canoni di uno specifico genere letterario
– sarà ciò che avverrà – così
su altro piano la tradizione anarchica si svolge al di qua di
qualsiasi adesione programmatica, non si basa su attestazioni
associative finalizzate a inscrizioni statuali.
La scrittura in qualsiasi genere si manifesti è un fatto
mistico. D'altronde scrivere su qualcosa (di già scritto),
rende incomprensibile l'uno l'altro. La pagina bianca con tanto
di margine da una parte e l'ideale senza fine dall'altra sono
in rapporto analogico con verità ed esistenza. Anarchia
e mistica, pietre di autori nudi. Autori nudi perturbanti se
da sempre nella cultura occidentale mistica e lettera anarchica
sono al bando.
Il corpo del testo mistico si concretizza nello scrivere sulla
scrittura scrivendo.
Il corpo del testo anarchico è rigenerato dalle stesse
sconfitte nella presa del palazzo. Sconfitte che costituiscono
altrettante proprie vittorie.
Mistica e anarchia stanno al sodo, all'essenziale, alla nuda
verità delle cose e delle relazioni: impersonali nel
corpo mistico, personali e politicamente dirette quelle del
corpo anarchico, che sembrano farne il luogo senza delega del
potere di chi non ha potere.
Se è vero che il senso della politica, cosa del tutto
altra dal potere, esige un lavoro su se stessi in rapporto singolare
alle cose del mondo, allora mistica e anarchia condividono non
tanto la virtualità morale quanto piuttosto la dismisura
di un'esperienza che le eccede.
Monica Giorgi
Bellinzona (Svizzera)
Bibliografia minima sragionata
Clarice
Lispector, La passione secondo G.H.; L'ora della stella
Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici
Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi; Cosmetica
del nemico
Søren Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita
Marìa Zambrano, Filosofia e poesia; Il sogno
creatore
Franz Kafka, Indagine di un cane
Hadwjch d'Anversa, Lettere
Max Stirner, L'unico e la sua proprietà
Antonietta Potente, Cuando? Ahora - le coordinate anarchiche
della misticapolitica
Piötr Kropotkin, Il mutuo appoggio
www.marapaltrinieri.wordpress.com; www.marapaltrinieri.youtube
Simone Weil, L'ombra e la grazia; Dichiarazione degli
obblighi verso l'essere umano
Juan de la Cruz, Notte oscura; Cantico spirituale
Meister Eckhart, Sermoni tedeschi
|
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Edy Zarro (Caslano –
Svizzera) 17,00; Danilo Vallauri (Dronero –
Cn) 10,00; Aldo Curziotti (Felegara – Pr) 10,00;
Salvatore Pappalardo (Acireale – Ct), 40,00;
Saverio Nicassio (Bologna) 10,00; Libreria San Benedetto
(Genova Sestri Ponente – Ge) 3,50; Camilla Galbiati
(Robecco sul Naviglio – Mi) 40,00; Aurora e
Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla e Amelia
Pastorello, 500,00; Maria Teresa Giorgi Pierdiluca
(Senigallia – An) 10,00; Rino Ermini (Villa
Cortese – Mi) 10,00; Paolo Facen (Feltre –
Bl) 10,00; Benedetto Di Pietro (Aielli Stazione –
Aq) 10,00; Luigi Vivan (San Bonifacio – Vr)
10,00; Sergio Pozzo (Arignano – To) 10,00; Anita
Pandolfi (Castel Bolognese – Ra) 10,00; Franco
Schirone (Milano) 100,00: Dino Delcaro (San Francesco
al Campo – To) 10,00; Carlo Capuano (Roma) 10,00;
Gualtiero Mannelli (Pistoia) 20,00; Vincenzo Argenio
(San Nazzaro – Bn) 30,00; Giovanna Quadri Giannazzi
(Origlio – Svizzera) 67,00; Gianni Ricchini
(Verbania) 10,00; Gianni Forlano e Marisa Giazzi (Milano)
“buon anno ad A”, 100,00 Angelo Pizzarotti
(Borsano di Calestano – Pr) 10,00; Enrico Calandri
(Roma) 100,00; Gabriele Lugaro (Savona) 20,00; Marco
Giusfredi (Chignolo Po – Pv) 100,00. Totale
€ 1.277,50.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Selva
Varengo e Davide Bianco (Lugano – Svizzera);
Mariella Bernardini e Massimo Varengo (Milano); Ettore
Valmassoi (Quero – Bl); Mario Perego (Carnate
– Mb) 250,00; Andrea Morigi (Savignano sul Rubicone
– Fc); Renzo Bresciani (Campi Bisenzio –
Fi); Luca Todini (Brufa Torgiano - Pg); Giacomo Ajmone
(Milano); Salvatore Piroddi (Arbatax – Og);
Fantasio Piscopo (Milano); Andrea Della Bosca (Morbegno
– So); Alberto Ramazzotti (Muggiò –
Mb) 150,00; Marco Bianchi (Arezzo); Liana Borghi (Firenze);
Amedeo Pedrini e Fiorella Mastrandrea (Brindisi);
Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto, Marina e
Minos Gori, 150,00; Milena Soldati (Clermont Ferrand
– Francia) 150,00; Fabrizio Fazio (Serrastretta
– Cz); Andrea Della Bosca (Morbegno –
So); Silvano Montanari (san Giovanni in Persiceto
- Bo). Totale € 2.300,00.
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