diserzione
Dietrofront!
di Brad McCall, Kimberly River, Ryan Johnson, Robin Long, André Sheperd, Matt Mishler, Samantha Schutz, Brandon Hughey
Storie tutte diverse e tutte sbagliate, di donne e uomini lasciatisi intrappolare dalla propaganda militare (e militarista). Una volta venute e venuti, in vario modo, a contatto con la realtà quotidiana della guerra, però...
Cominciavo a prendere coscienza della mole
di propaganda che, fin da quando ero bambino, mi aveva spinto
ad arruolarmi nei marines. Ho iniziato a ripensare a tutti i
film che avevo visto, agli eroi di certi film di guerra, Clint
Eastwood, Heartbreak Ridge, Top Gun, a tutte quelle storie con
le quali ero cresciuto, idolatrandole. Mi rendevo finalmente
conto che la società americana è pesantemente,
davvero pesantemente, indottrinata, e l'indottrinamento comincia
presto, da quando sei in grado di riceverne i messaggi dalla
televisione.
Benji Lewis
Non riesco a sentirmi parte del mondo militare. Non è
che non voglia: non posso proprio. Non sopporto di essere circondato
da persone in uniforme, non sopporto di indossare un'uniforme,
perché ogni giorno tutto ciò che accade mi ricorda
costantemente, 24 ore su 24, sette giorni su sette, non solo
quello che ho fatto, ma anche quello a cui ho assistito e che
mi ha tenuto la bocca cucita. Per questo [...] sono diventato
un disertore. [...] Ho pensato che sarei finito in prigione,
ma ero pronto ad andarci, per mantenere ferma la mia posizione.
David Cortelyou
Ma io non sono come
loro
di Brad McCall
Avevo sentito le storie che si raccontavano sull'Iraq, storie
e particolari di atrocità che venivano commesse contro
persone innocenti in quel paese. I veterani che le raccontavano
ne andavano fieri. Si vantavano. Si pavoneggiavano nel modo
più assoluto per quello che avevano fatto e per quello
che avevano fatto altri commilitoni delle loro unità.
Ci ridevano su, sembrava fosse solo un grande scherzo e non
vedevano l'ora di tornare indietro perché si divertivano
ad ammazzare la gente.
Quando ascoltai per la prima volta quelle storie, la prima cosa
che feci fu di correre al bagno e vomitare. Non riuscii a controllarmi.
Mi faceva stare male, fisicamente. Quando mi ripresi, andai
dritto dal mio comandante e gli riferii tutto. Lui disse “Bene,
dovremo fare due chiacchiere con i veterani e assicurarci che
non raccontino più a voi ragazzi queste storie”.
Questo fu tutto ciò che fecero in merito. Quindi, da
allora, per la prima volta mi sono messo a riflettere sul serio
su me stesso, e persino su quali fossero le mie convinzioni
politiche, morali e spirituali più profonde. Mi ribellai
contro gran parte degli insegnamenti che i miei genitori mi
avevano impartito da bambino e cercai di tentare di capire quali
fossero le mie idee. Fuggii dalle regole che per tutta la vita
avevo seguito, nel solco tracciato dai miei genitori.
Scoprii che non ero un conservatore come avevo sempre pensato
di essere. Scoprii che la guerra in Iraq era malvagia, atroce,
ridicola e che se fossi andato in Iraq mi sarei reso colpevole
di crimini di guerra, se non agli occhi degli altri, sicuramente
ai miei. Tutto ciò per me era più che sufficiente
per mettere un punto e dire “No, non posso partire.”
Se fossi partito lo stesso, sapendo tutto questo, e fossi tornato
vivo, avrei dovuto vivere il resto della vita con la consapevolezza
di aver partecipato a una guerra maledetta, scatenata per motivi
ingiusti. Non sarei stato capace di vivere con me stesso. Perciò
feci l'unico passo che conoscevo e domandai che mi fosse riconosciuto
lo status di obiettore di coscienza. I miei superiori mi presero
in giro per tre settimane, mentre imploravo, imploravo, imploravo
che me lo concedessero, e alla fine scappai e andai in Canada.
[...]
Presi la decisione definitiva in un giorno. Ne parlai con un
amico a Colorado Spring, e mi raccontò dei soldati che
stavano scappando in Canada e io pensai “Forte!”.
Così, da lì mi recai a casa di un altro amico
con il mio pc portatile e scoprimmo che era davvero possibile.
Trovammo su internet il sito dei soldati resistenti, e quella
stessa notte feci la scelta di lasciare il paese la settimana
successiva, ma dopo il giorno di paga. Sapevo che avrei avuto
bisogno di soldi per affrontare la situazione e muovermi da
un posto all'altro. [..]
La prima cosa che mi successe appena arrivai nella Columbia
Britannica fu che mi arrestarono, sul confine. Nella settimana
che rimasi a Fort Carson, entrai in contratto via e-mail con
diversi canadesi che volevano aiutarmi. Allora non me ne ero
accorto, ma i miei genitori avevano la mia password della posta
elettronica e stavano seguendo quanto accadeva, e avevano inoltrato
tutte le e-mail al mio comandante e al sergente. Sapevano quindi
che stavo andando in Canada.
Fui arrestato al confine dalle guardie di frontiera canadesi,
su richiesta dell'Esercito degli Stati Uniti.
[...] Mentre ero in prigione feci domanda di asilo, motivando
tale richiesta sulla base della convinzione che se fossi tornato
negli Stati Uniti sarei stato perseguitato o perseguito legalmente
a causa delle mie posizioni politiche, morali e spirituali.
Brad McCall
L'indottrinamento
tra i banchi di scuola
di Kimberly Rivera
Come sanno tanti, i reclutatori cominciano a puntarti quando
sei molto giovane, alla scuola superiore, e spesso ti contattano
anche a sedici anni, a volte non è facile indovinare
l'età dei ragazzini a scuola. Se si accorgono che ancora
non hai compiuto i sedici anni, o che non sei né al penultimo
né all'ultimo anno, ti lasciano stare. Non parleranno
con te per tutto il resto dell'anno. Poi però arriva
l'anno successivo. Appena acquisiscono i tuoi dati dalla scuola,
iniziano a chiamarti a casa; cominciano a sistemare i loro banchetti
in sala mensa e a recitarti la loro tiritera ancora, e ancora,
e ancora. Da studente di scuola superiore non sei davvero preparato,
penso, a prendere decisioni che ti possono trasformare la vita,
come è nel caso della scelta della carriera militare.
Eppure io l'ho presa, questa decisione, e a volte sento che
sono stata un po' forzata a prenderla, perché essendo
ancora a scuola vivevo a casa con mia madre e mio padre e non
avrei mai voluto essere di peso per loro. Perciò ho pensato
“bene, questo può essere il modo migliore per mettere
da parte i soldi per la scuola.”
I reclutatori fecero firmare ai miei genitori una specie di
modulo di autorizzazione o roba simile per avere il permesso
di parlare con noi. Ma poi venne fuori che non era solo un permesso
per parlare con me, era un'autorizzazione dei genitori a permettergli
di arruolarmi. [...]
Nel 2000, al penultimo anno, ci andai, feci il test e poi dovetti
parlare con un consulente militare. Il consulente è quello
che dice, in base al punteggio ottenuto nel test, per quale
tipo di lavoro ci si è qualificati. Mi
hanno dato tre opzioni di lavoro tra cui scegliere, e io ne
ho scelto una, non sapendo che scegliendo quel lavoro stavo
effettivamente firmando un contratto militare. Dopo averlo firmato,
ho dovuto faticare a convincermi di aver fatto la cosa giusta,
e che quella sarebbe stata la scelta giusta per me. Succede
così in fretta. Appena hai scelto il lavoro, sei lì,
seduta nella stanzetta e in sostanza aspetti solo di fare il
giuramento. Da quel momento mi ripetevo “Sai che c'è?
Mi sono appena arruolata”. Avevo diciassette anni.
Andai al campo di addestramento reclute. Nulla mi sembrava davvero
reale. Ero cresciuta in Texas, sempre circondata da armi. Ero
davvero un maschiaccio, perciò fare quel tipo di cose,
allenarsi, fare le corsette a ostacoli, e tutto quel gridare
“Uccidi! Uccidi! Uccidi!” mi sembrava solo un gioco,
in fondo. Non era reale. [...]
Quei “bravi ragazzi”
Avevo sempre pensato che i soldati fossero bravi ragazzi, che
fossero quelli che aiutavano le persone quando ce n'era bisogno.
Che rimettono a posto le cose e ricostruiscono. La pensavo così
anche sull'Iraq. Avevo sempre creduto, cioè, che lo scopo
di essere lì fosse quello di conquistare i cuori delle
persone, ma non era così. Accaddero un paio di fatti
importanti, di incidenti, che realmente mi spinsero a interrogarmi
su tutto, da me stessa alla scelta del servizio militare, al
perché fossi lì, tutto. Uno dei fatti accadde
quando lavoravo all'ingresso della base.
Ogni sabato i civili arrivavano e presentavano delle richieste
di indennizzo. Io non sapevo cosa avessero passato le loro famiglie.
Non sapevo cosa avessero perduto. Ad alcuni era stato sequestrato
l'unico fucile che avevano a casa, che poteva rappresentare
l'unica forma di sicurezza per la propria famiglia. Alcuni avevano
visto portarsi via i figli giovani o i mariti, e si chiedevano
dove fossero, alcuni erano anche stati feriti in maniera grave.
Bene, quel sabato in particolare, anche ora che affronto la
vita giorno per giorno, lo ricordo chiaramente, come se non
avessi mai lasciato l'Iraq. Vedo questa bambina, avrà
avuto circa due anni più o meno, come la mia bimba che
avevo lasciato a casa, e la vedevo tremare. Tremava violentemente,
non come se avesse una crisi epilettica, ma quasi. Le lacrime
le scendevano dagli occhi, le scendevano sul viso. Ma non piangeva.
Non gridava. Niente. Ma i bambini non piangono senza gridare.
Sapevo che qualcosa di traumatizzante era successo a quella
bimba, che le lacrime che le scendevano sul viso erano legate
a quello shock. Ero impotente, non potevo fare nulla. Indossavo
l'equipaggiamento completo, portavo un fucile d'assalto M16
ed era carico, con la sicura disinserita, perché così
ci era richiesto di fare quando eravamo in missione. Non riuscivo
a immaginare cosa potesse fare suo padre per aiutarla, e nemmeno
come avrei reagito io, essendo madre anche io, se mia figlia
si fosse trovata in quello stato, sapendo di essere incapace
di aiutarla e di fare qualcosa, o al contrario proprio perché
sapevo cosa accadeva nella sua testa e quello che aveva subito.
[...]
Al cancello c'erano anche alcune donne più anziane. [...]
Nei loro occhi solo domande che ti penetravano il cuore e l'anima:
“Perché mi stai facendo questo? Che ti ho fatto?
Che cosa ti ha spinto a colpire in questo modo la mia famiglia?”.
E riuscivi a percepirlo. Non avevano bisogno di dirlo a parole,
lo sentivi, glielo leggevi in faccia. Non potevo accettarlo.
Ancora, vedevo persone – civili iracheni che lavoravano
con noi – che si strappavano i vestiti e si gettavano
a terra per aver perso dei loro conoscenti. Non avevo idea di
cosa diavolo stesse succedendo. [...]
I miei superiori sapevano che stavo passando un periodo di forte
stress, e quando alla fine ottenni la mia licenza di due settimane,
penso che temessero che non sarei più tornata indietro.
Allora iniziarono a farmi pressioni, e avemmo una discussione
sui motivi per non disertare. In sostanza mi dissero che potevano
farmi qualunque cosa, che potevano non solo rovinarmi la vita,
ma anche, se avessero voluto, fare di me un esempio per tutti
e uccidermi durante uno scontro a fuoco in battaglia. Dalle
loro bocche uscì questo. Ma arrivata a quel punto, nulla
di ciò che potevano dire o fare poteva spaventarmi oltre.
[...]
Un giorno, navigando su internet, saltò fuori la “War
Resisters Support Campaign” (gruppo di attivisti canadesi
impegnati a sostenere i renitenti, ndr) e tante altre
storie di soldati resistenti. Mio marito mi suggerì di
trasferirci in Canada. Rimanemmo in giro per circa due settimane,
entrando e uscendo da posti differenti. Ero super-paranoica.
Non so se lo fosse anche Mario (il marito, ndr), io certamente
lo ero. Mi vedevo trascinata via, spacciata. In Kuwait eravamo
stati addestrati per catturare i prigionieri e ripulire stanze
o intere abitazioni, perciò avevo chiaramente in testa
quello che facevano nei loro raid, anche se io non vi avevo
mai preso parte. Quando sei stata addestrata per far parte delle
squadre speciali e sai come ti possono catturare e portar via,
hai addosso un terrore tremendo.
Kimberly Rivera
I racconti dei veterani
di Ryan Johnson
Cominciai a parlare con i veterani che erano tornati, per conoscere
la loro esperienza da militari, per scoprire cosa avessero visto
in Iraq; sapevo in cosa mi stavo mettendo, anche perché
già dall'inizio, quando mi ero arruolato, mi ero imbarcato
in un qualcosa senza avere sufficienti informazioni.
Mi raccontavano storie in cui avevano visto carri armati schiacciare
auto di civili nelle strade. Mi raccontavano di abusi, di uccisioni
di civili, di bambini morti per le strade, di spari ai check
point contro automobili nelle quali poi avevano guardato dentro
e avevano visto i corpi senza vita di una famiglia disarmata,
o un bambino incenerito. Storie orrende, che provocavano a loro
incubi continui e avevano reso insopportabile persino lo stare
in luoghi affollati. [...]
Allora ho iniziato a chiedermi davvero come fosse scoppiata
la guerra, all'inizio. Si, insomma, a informarmi sull'11 settembre
e capire che non c'era alcuna connessione con l'Iraq. Su come
il presidente avesse detto che in Iraq c'erano armi di distruzione
di massa, e invece non era vero. L'Iraq non aveva fatto nulla
per provocare l'attacco al suo territorio. E allora ho cominciato
ad andare ben oltre la consapevolezza che quello che stavamo
facendo fosse sbagliato.
Ryan Johnson
Una famiglia di militari
e un destino già segnato
di Robin Long
Mi sono arruolato nel giugno 2003, nel programma di reclutamento
differito. In sostanza venivo da una famiglia di militari, mio
padre era militare, come i miei zii e zie e tutti i miei cugini
da parte di padre. Da ragazzino cresciuto con i G.I. Joe, avevo
sempre pensato che da grande sarei entrato nell'esercito. [...]
Durante l'addestramento di base cercano di smontarti pezzo per
pezzo e ricostruirti secondo le esigenze dell'esercito. Ci facevano
marciare, cantare ogni momento slogan che inneggiavano all'uccisione
di persone e a lacrime, sangue e budella. Ci stavano trasformando
in macchine assassine, e al contempo tentavano di disumanizzare
il nemico. Sui principali organi di stampa sentivo raccontare
che gli Stati Uniti andavano in Iraq per le armi di distruzione
di massa, per liberare il popolo iracheno, eppure mi raccontavano
che sarei andato nel deserto a uccidere le teste coperte di
stracci, e scusate l'offesa razzista. All'inizio questa cosa
mi disturbava, perciò mi misi a fare al mio sergente
domande del tipo: “Ma perché chiamiamo gli iracheni
teste coperte di stracci?” e lui rispose: “Beh,
perché è quello che sono.” [...]
Arrivavano soldati appartenenti ad altre unità di ritorno
dall'Iraq e stazionavano a Fort Knox. Gran parte di loro si
vantava di quel che stava succedendo laggiù. Iniziammo
a sentire quello che i media principali non raccontavano. Per
esempio, un tipo mostrava alcune foto di una persona che lui
aveva schiacciato con il suo carro armato, un altro aveva foto
della sua prima vittima – lui era in posa sorridente e
col segno della pace, mentre sollevava la testa di un ragazzo
morto – e altri che se la tiravano per aver ucciso questa
o quella persona o per come avevano visto esplodere qualcuno.
Tutto questo cominciò a farmi arrabbiare, sì,
arrabbiare, più di ogni altra cosa. Sentivo che il malessere
allo stomaco sarebbe continuato ogni volta che avessi ascoltato
queste storie. [...]
Alla fine, quindi, proprio il giorno che avrei dovuto imbarcarmi
sull'aereo per andare a Fort Carson e registrarmi per andare
in Iraq, presi la mia ultima decisione. Mi nascosi nell'appartamento
di un amico per circa due mesi prima di incontrare alcune persone
che stavano andando in Canada – una coppia di hippy
che andava in Canada per un matrimonio – e dissi “
Sapete cosa? Sono stanco di nascondermi qui negli Stati Uniti.
Non può funzionare. Meglio andare in Canada, dove almeno
non dovrò nascondermi per tutto il tempo dalla polizia.”
Robin Long
Tutto
ciò che non sapevo
di André Shepherd
Sono cresciuto a Cleveland, Ohio, e ho frequentato il college
alla Kent State University. Il fatto è che mi sono diplomato
quando è scoppiata la bolla delle aziende dot-com, quindi
mentre cercavo un lavoro nell'ambito per il quale avevo studiato,
quello informatico, non ho trovato nessun impiego. Allora sono
finito a fare mille lavoretti – nei fast food, come corriere,
per un po' anche come venditore di aspirapolveri, imbustavo
lettere a casa, cose di questo tipo – lavori sottopagati,
cercando di arrivare alla fine del mese. [...]
È
finita che sono andato a vivere in macchina, – la prima
volta nel 2001 per sei mesi e la seconda nel 2003 più
o meno per lo stesso lasso di tempo. Quindi, nell'estate del
2003, mi sono presentato a un reclutatore dell'esercito a Lakewood,
Ohio, che mi ha parlato degli ingaggi che stavano proponendo,
che avevano bisogno proprio di persone come me per aiutare i
popoli del mondo a liberarsi dal terrorismo e dai dittatori,
e cose di questo genere. Per esempio ha parlato di Saddam Hussein,
Osama bin Laden, Kim Jong Il, [...] l'”Asse del male”.
Mi ha parlato ancora un po' di questi argomenti, e poi ha cominciato
a illustrarmi i vantaggi che dava l'esercito, la paga regolare,
la possibilità di viaggiare, la casa gratis, e anche
l'assicurazione sanitaria gratuita, che sarebbe andata avanti
anche se avessi lasciato il servizio. Tutto quello che dovevo
fare era firmare per qualche anno e avrei avuto tutti quei benefit.
In quel periodo vivevo nella mia macchina e quindi trovai tutto
ciò davvero convincente. Dopo qualche mese a pensare
se fosse o meno una buona idea, il 27 gennaio del 2004 decisi
di arruolarmi. [...]
Sapevo che, dal momento che eravamo impegnati in un conflitto
e che era in corso la guerra contro il terrore, essere spedito
al fronte poteva essere una possibilità. A quel tempo
non avevo le conoscenze che ho ora. Tutto ciò che sapevo
era più o meno quello che raccontavano i mass media e
quello che sosteneva l'amministrazione Bush. Allora credevo
ancora nel mio governo, e pensavo che ci avrebbero detto solo
la pura verità. Perciò non mi turbava affatto
essere coinvolto in prima persona nel conflitto. Pensai che
avrei reso un grande servizio al mio paese e che questo avrebbe
messo la mia vita sulla retta via. [...]
Mentre ero in Iraq, la prima cosa che ho notato è stato
l'atteggiamento della popolazione locale quando si avvicinava
alla nostra postazione. Quando sei il liberatore, la popolazione
dovrebbe essere stracontenta di vederti. Essere felice che tu
voglia aiutare e accoglierti a braccia aperte. Ma quando incontravo
gli iracheni al mattino, mentre andavo al lavoro, non avevano
affatto l'aria di essere contenti di vederci. Sembrava o che
avessero paura di me, come se io stessi per colpirli, in un
modo o in un altro, oppure sembrava che se avessi voltato loro
la schiena e fossi stato disarmato, probabilmente avrebbero
tentato di uccidermi. Così mi misi a pensare: “Ok,
cosa sta succedendo qui? Perché io ero convinto che noi
in teoria fossimo i buoni, ma qui tutti mi guardano come se
fossi pazzo.”
Mi misi a parlare con i soldati della base, per provare a conoscerli
tutti, visto che erano laggiù già da sei mesi.
La maggior parte di loro diceva di non capire perché
fosse lì. [...]
Questo fatto mi fece riflettere: forse eravamo davvero incappati
in uno sbaglio. Cominciai a chiedermi “Okay, perché
siamo qui?” [...] Quindi iniziai a fare ricerche. Ero
lì, sul posto, e cominciai a notare piccole incongruenze
in quello che leggevo, tra quello che l'amministrazione Bush
raccontava a tutti e quello che stava realmente accadendo, specialmente
sulla rincorsa alla guerra all'Iraq, perché i nostri
media avevano creato davanti alla popolazione uno schermo per
impedire ogni voce di dissenso alla linea ufficiale. [...]
Mi sembrava come se esistesse una sorta di agenda parallela
che andava al di là della liberazione del popolo iracheno
da un dittatore o del tentare di trovare le armi di distruzione
di massa. Poi ci fu la battaglia di Falluja, dove i media raccontavano
che era stata una grande vittoria per noi in Iraq. I canali
televisivi militari raccontarono che avevamo fatto un gran bel
lavoro nel risollevare una città che era stata completamente
invasa dai terroristi, dagli insorti, ecc. Ma continuando le
mie ricerche, iniziai a scoprire cose davvero scioccanti, come
uomini che erano in età per combattere, ma che non volevano
farlo e a cui veniva impedito di lasciare la città. In
pratica erano solo seduti lì, indifesi, presi nell'assedio
con i marines e le forze armate e poi i report dell'uso che
veniva fatto del fosforo bianco e, insomma, la totale distruzione
che stava andando avanti in città. [...]
Quando guardavo gli iracheni, e loro mi guardavano con la gentilezza
con cui i francesi avrebbero guardato i nazisti tedeschi o come
qualunque dei popoli che erano stati oppressi dai romani, mi
veniva da chiedermi “ma che cosa significa davvero questa
bandiera che porto sulla spalla?” [...]
Mi sono messo a scavare tra le storie raccontate dai media e
ho iniziato a scoprire tutte le più grosse bugie che
l'amministrazione Bush aveva raccontato. [...] Ho letto che
la CIA aveva dichiarato in un suo rapporto che non esisteva
nessuna arma di distruzione di massa e ho scovato e guardato
un video in cui George Bush ridicolizzava quel rapporto; mentre
la gente in Iraq soffre e muore, lui è lì seduto
a fare battute sul rapporto, tentando di far finta di trovare
le armi di distruzione di massa. Cose del genere sono assolutamente
ingiuste. [...]
Una volta capíta a grandi linee la verità, e cioè
che questa guerra in fondo non era altro che una truffa non
solo nei confronti del popolo americano, ma di tutto il mondo,
decisi che non avrei partecipato a un'altra missione in Iraq.
[...] Questo era il momento della verità. Dovevo prendere
una decisione davvero grande, se andare avanti nonostante la
mia coscienza o dire: “No, non posso farlo, è assolutamente
crudele e non voglio avere a che fare neanche in maniera indiretta
in nessuna delle atrocità che continuano a perpetrarsi
in Iraq.” [...]
Mi trovai di fronte a due alternative: andare in Iraq o disertare,
perché non esiste altra scelta. [...]
André Shepherd
La guerra non è
un videogame
di Matt Mishler
Quando misi la firma avevo vent'anni. [...] Pensavo solo che
fosse dovere di ciascuno servire il proprio paese, e in quel
momento credevo che era quella la cosa che volevo fare nella
mia vita. Decisi di arruolarmi nei marines perché avevo
sentito che avevano il centro di addestramento reclute più
duro. [...]
Presto mi resi conto che la mia linea di pensiero non era molto
comune tra gli altri marines che avevo intorno. Il modo in cui
parlavano, quel che dicevano... preferivo prendere le distanze
dai discorsi in cui si addentravano. Non esprimevo spesso la
mia opinione, ma non volevo ascoltare gente ignorante che diceva
frasi del tipo: “Oh, non vedo l'ora di uccidere qualche
maledetto arabo.” Per me questi discorsi erano disgustosi
e da ignoranti, e mi misi a pensare: sono persone anche loro,
hanno una madre, un padre, una famiglia. [...]
Se pensiamo alla Prima o alla Seconda Guerra mondiale, moltissimi
soldati in battaglia non erano in grado nemmeno di imbracciare
il fucile, ma poi è arrivato il Vietnam, e il numero
delle vittime è iniziato a crescere, perché i
militari avevano deciso di usare tecniche per disumanizzare
il nemico. Mi ricordo che al campo di addestramento la parola
“Uccidi” era usata come se niente fosse. Si usava
anche in risposta agli ordini “Uccidi! Signorsì,
uccidi!” [...]
Al campo di addestramento giocavamo con i videogame, c'erano
anche lì... ma la guerra non è un videogame: se
uccidi qualcuno, non torna in vita. È morto. E magari
era una persona che aveva dei figli, una madre, un padre, probabilmente
una moglie, aveva dei doveri, avevano una vita che stavano vivendo
e tu gliela potevi strappare unicamente in base al tuo giudizio.
Matt Mishler
Niente giornalismo,
solo propaganda
di Samantha Schutz
Nel 2006, quando mi arruolai, stavo attraversando un periodo
molto duro. Nell'aprile di quelle stesso anno ero stata ricoverata
nell'ospedale locale per una profonda depressione e per una
sorta di incapacità a integrarmi nella società.
[...]
Quando misi la firma avevo diciannove anni, mi era saltato il
terzo contratto di affitto ed ero appena stata dimessa dall'ospedale.
Non avevo la minima fiducia nelle autorità. Avevo pochissime
scelte davanti a me, per non dire nessuna, e arruolarmi fu l'unica
opportunità che riuscii a trovare per mettere insieme
un po' di soldi. [...]
Gli spot pubblicitari funzionano davvero per adescare i giovani.
Come me, che pensavo che l'esercito non fosse una macchina da
guerra, ma solo un posto per fare qualche soldo per il college,
per migliorare me stessa. Ero abbastanza ingenua a riguardo.
[...]
Mi recai alla Defense Information School per sapere come diventare
giornalista all'interno dell'esercito. L'addestramento durò
quattordici settimane.
[...] Scrissi un mucchio di articoli su quello che succedeva
alla base, su chi veniva promosso, sulla sicurezza e cose simili.
Di solito inviavamo i nostri articoli ai due giornali civili
che avevano sede nelle vicinanze della base. [...]
Però io non mi ritenevo una giornalista. Mi sentivo una
propagandista. Ci veniva inculcato in testa di mettere sempre
l'accento positivo su tutto e che c'erano solo alcuni argomenti
di cui potevamo occuparci. Un'altra parte del lavoro laggiù
consisteva nel lavorare insieme ai media occidentali e orientarli.
Loro si affidavano a noi, erano affiliati all'esercito, dunque
in modo indiretto censuravamo quello che erano autorizzati a
vedere, a vivere, a scrivere e filmare. Eravamo noi a scegliere
a quali missioni potevano prendere parte, perché sapevamo
in anticipo quali potevano risultare particolarmente violente
o quali mostravano solo aspetti positivi, il nostro ruolo nella
ricostruzione o cose simili. Ovviamente, inviavamo i media occidentali
nelle missioni che mostravano le nostre buone intenzioni, e
non menzionavamo affatto quelle violente.
Dato che lavoravo nella Divisione ed ero una donna, non ero
autorizzata a prendere parte alla maggioranza delle missioni
pericolose. Però avevo l'impressione che i compiti a
me assegnati fossero incentrati sull'ignorare quel che succedeva
là fuori, ma avessero lo scopo di salvare la faccia all'esercito
e di intrattenere il pubblico. In passato avevo realmente pensato:
“Diventerò una corrispondente di guerra, darò
copertura mediatica a questo evento storico, che è anche
controverso”. Ma presto capii la verità, avevo
sempre saputo che i media erano un po' faziosi, ma nulla di
quello che facevo somigliava nemmeno vagamente alla cronaca
degli eventi.
Mi decisi infine a portare la questione all'attenzione di altre
persone, dei miei colleghi e dei miei superiori. Il risultato
fu che mi trasferirono, cancellarono la mia posizione e non
scrissi più. Mi spostarono nella redazione della nostra
newsletter, una newsletter quotidiana. Ora il mio lavoro, dodici
ore essenzialmente notturne, consisteva nel lavorare da sola
e assemblare semplicemente la newsletter. Era molto impegnativo,
ma facevo solo copia e incolla. Credo mi abbiamo messa lì
perché pensavano fossi diventata un pericolo, o che abbiano
percepito la mia demotivazione. Fui separata dal resto dello
staff, e lavorai da sola, dodici ore di notte. [...]
Mi capitò di visitare i sobborghi di Baghdad e vedere
le condizioni di vita delle persone. Tornando alla base americana,
piazzata in mezzo a tutta quella miseria, ritrovavo la mia bella
stanza con l'aria condizionata, il letto comodo, la TV, il frigorifero,
il computer, il forno a microonde. Nel giro di mezzo miglio
avevo a portata di mano Taco Bell o Burger King, Popeye's, l'ufficio
postale e un grande supermercato. Mi sentivo sempre più
depressa e colpevole perché sapevo che all'opinione pubblica
americana veniva raccontato che stavamo offrendo il nostro aiuto,
stavamo lì per sostenere la ricostruzione e la ripresa
ed era sotto ai miei occhi che le enormi cifre stanziate –
12 miliardi al mese nel 2008 – venivano spese più
che altro per garantire i nostri comfort e non per aiutare fattivamente
la popolazione. [...]
Avevo come il presentimento, prima di partire in licenza, che
avrei potuto non fare ritorno. Mi stavo preparando a prendere
la decisione se tornare o meno. Quando arrivai a casa in licenza,
sentii che non avevo scelta dal punto di vista morale. Non potevo
continuare così. Dovevo fermarmi in quel momento, e così
rimasi negli Stati Uniti. [...]
In parte, ciò che voglio è riavere la mia voce
ed essere in grado di aiutare altri a curare le ferite causate
dalla macchina da guerra, ma aiutarli anche ad alzare la testa,
per loro stessi. [...]
Mi ero già preparata per qualcosa di persino peggiore.
In tutta onestà posso affermare che avrei preferito passare
i miei ultimi tre anni di ferma in una cella, piuttosto che
al servizio della macchina militare.
Samantha Schutz
Diserzione. Unica
scelta possibile
di Brandon Hughey
Un giorno arrivò a casa mia la telefonata di un reclutatore.
Per prima cosa mi chiese: “Hai i mezzi per iscriverti
all'università?”. “No,” risposi, “non
ci ho ancora pensato in realtà.” “Bene,”
mi disse allora, “vienici a trovare in ufficio e ne discutiamo
un po'”. Così fissammo un appuntamento. Mi fermai
da loro e il reclutatore mi raccontò tutte le fantastiche
cose che avrebbero potuto fare per me se mi fossi arruolato
per qualche anno. Tipo che avrebbero pagato loro l'università,
che mi avrebbero dato un bonus economico al momento del giuramento
e coperto in sostanza tutte le mie spese. Alle mie orecchie,
in quel momento, suonò come fosse un buon affare. [...]
Una volta arrivato al centro di addestramento reclute, però,
cominciarono a venirmi pensieri diversi, perché mi sentivo
quasi come se mi stessero riprogrammando per pensare in modo
differente da come avevo fatto fino ad allora. [...]
Notavo che non ci insegnavano tanto a combattere, ma piuttosto
a disumanizzare totalmente l'avversario. C'erano un sacco di
offese a sfondo razziale, un sacco di insulti che diventavano
di uso comune per definire gli arabi e gli iracheni. Era del
tutto evidente che loro non vedevano gli arabi come persone
uguali a noi, ma come esseri inferiori, e cercavano di inculcare
queste idee nelle nostre teste. Gli arabi non erano buoni come
noi, erano inferiori. Immagino che facessero questo per renderci
più facile puntare il fucile contro gli iracheni e ucciderli,
una volta spediti laggiù. [...]
Ho cominciato a pensare, okay, la mia sola scelta è lasciare
il paese. A quel punto mi sono messo a fare piani per andare
in Canada.
Quando mi sono arruolato, l'immagine che avevo in testa era
quella di partire per difendere il mio paese e lottare dalla
parte giusta, ma quando è scoppiata la guerra in Iraq
mi sono reso conto che non era così. Avevamo attaccato
un paese che non ci aveva mai minacciato e portato la devastazione
nell'intero territorio iracheno senza che loro ci avessero fatto
niente. Allora espressi le mie idee, e per tutta risposta mi
dissero di smetterla di pensare così tanto. [...]
Così ho capito che, in sostanza, non avevo altra scelta
che lasciare l'esercito.
Brandon Hughey
Tutte le testimonianze presenti in questa pagina sono state
tradotte da Guido Lagomarsino
Queste
testimonianze
Il
libro About face. Military resisters turn against war
- dal quale abbiamo tratto gli scritti presenti in queste
pagine - raccoglie le testimonianze di disertori, renitenti
e obiettori dell'esercito degli Stati Uniti impiegati
nelle guerre in Iraq e Afghanistan, scoppiate a partire
dal 2001. I loro racconti sulle atrocità della
guerra, gli abusi, i disturbi post-traumatici sono stati
dapprima collezionati dall'associazione canadese “Courage
To Resist” (un gruppo di supporto per militari obiettori)
e in seguito raccolte dai curatori Sarah Lazare, Buff
Whitman-Bradley, Cynthia Whitman-Bradley. Il libro contiene
anche un'intervista a Noam Chomsky.
PM Press è una casa editrice indipendente
fondata a Oakland (California, Stati Uniti) nel 2007 e
specializzata in letteratura anarchica, marxista e radicale;
pubblica saggi, romanzi, opuscoli, disponibili in formato
cartaceo e e-book, oltre a materiali audio e video.
Per
maggiori informazioni sul catalogo PM Press:
www.pmpress.org
info@pmpress.org
Sarah Lazare, Buff Whitman-Bradley, Cynthia Whitman-Bradley,
About face. Military resisters turn against war
(Oakland, CA - USA, 2011, pp. 272, $ 20,00) |
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