New York 1911/
Quelle 126 donne (quasi tutte siciliane) morte tra le fiamme
Il
25 marzo del 1911, un incendio divampato in un palazzo del centro
di New York, l'Asch Building, nel piano dove aveva sede la Triangle
Waist, provocò la morte di centoventisei operaie che
vi lavoravano. La Triangle Waist era una fabbrica tessile che
occupava più di 400 donne. L'assenza dei dispositivi
di sicurezza era un dato ovvio, in un ambiente di lavoro dove
la sfruttamento imperversava sovrano e la ricerca del profitto
non permetteva di tenere conto delle ore, del ritmo e delle
condizioni di lavoro a cui erano sottoposte le operaie. Delle
donne morte tra le fiamme o nel disperato tentativo di salvarsi
lanciandosi giù dalle finestre, la nazionalità
era alquanto diversa, ma la gran parte di loro era approdata
al porto newyorchese di Ellis Island dall'Italia e in particolare
dalla Sicilia.
Un libro recente, dell'incendio e delle donne che ne furono
innocenti vittime, racconta tutto. Ne è autrice Ester
Rizzo che in Camicette bianche (Navarra Editore, Palermo,
2014, pp. 128, € 10,00) ricostruisce i fatti ma soprattutto
ridà un'identità a tante delle operaie morte,
delle quali erano rimaste parziali o del tutto ignoti le biografie
e, di alcune, finanche i nomi dei luoghi natii.
Dell'incendio, domato in mezz'ora, dello sgomento che suscitò
in chi vi assistette, vedendo volare dall'ottavo piano le operaie
in cerca di un'impossibile salvezza (“Non erano balle
preziose di stoffa quelle che i passanti videro volare dall'Asch
Building. Erano i corpi della Triangle Waist Company. Cadevano
giù a decine, alcune con i vestiti e i capelli in fiamme.
Dissero che somigliavano alle comete”), parlarono testimoni
e giornalisti per un po': dopo, cominciò a cadere l'oblio
sulle vittime e sulle loro vite “spezzate”: “vite
che per decine di anni sono state riunite in un unico monumento
funebre: un bassorilievo raffigurante una donna inginocchiata
con il capo chino”.
Ester Rizzo, di quelle donne, racconta il sogno di una vita
nuova, migliore e diversa che inseguivano lasciando le loro
umili case e la povertà, attratte dalle foto e dalle
immagini del Nuovo Mondo, di un'America luccicante e dorata,
terra di lavoro e di prosperità. E ci dice la Rizzo,
con minuziosa documentazione, dei porti italiani da dove gli
emigranti s'imbarcavano per l'America, delle navi che trasportavano
loro e i loro bagagli (riempite di qualche indumento e di un
po' di provviste), delle promesse fatte ai cari che lasciavano,
delle attese che avevano saputo alimentare in loro, gli “agenti
dell'immigrazione”, un piccolo esercito di persone che
si occupava di organizzare e indirizzare i viaggi degli emigranti,
guadagnando sulla fame e la miseria della gente del popolo.
Le donne che perirono nella tragedia della Triangle Waist furono
centoventinove: provenivano da varie parti del mondo, dalla
Russia, dall'Ungheria, dalla Romania, dalla Giamaica; tante
dall'Italia: trentotto, e di queste ben ventiquattro dalla Sicilia,
“la regione che ha pagato il tributo più alto”.
Ampia e ricca di dati biografici è la ricostruzione che
la Rizzo fa delle vicende delle donne siciliane, condotta non
solo sulle carte d'archivio, sui registri delle anagrafi, americane
e italiane, su documenti e saggi di ricerca, ma anche con un
personale viaggio per i paesi di mare e di montagna della Sicilia,
da dove ha preso inizio la storia di ragazze semplici ma determinate,
come Clotilde, Lucia, Rosaria, Concetta e le altre, che lasciavano
i loro antichi, arcaici e remoti paesi, come Sperlinga, Cerami,
Bisacquino, Marsala, Castelbuono, Cerda, Mazara, etc., cercando,
oltreoceano, un avvenire migliore.
Ne viene fuori il quadro storico-sociale della Sicilia di inizio
secolo – vessata dal sottosviluppo – e la possibilità
di confrontarlo con la realtà odierna, quella di un'isola
dalle grandi risorse naturalistiche e monumentali, ma ancora
afflitta dalla mancanza di buoni collegamenti viari, dall'assenza
di idee di sviluppo che non siano le solite - e fallimentari
-, sinora praticate: l'espansione edilizia pubblica e privata
e un'aziendalizzazione, in agricoltura e nei servizi, assistita
e disorganica.
Preziose, nel complesso, nel libro della Rizzo, sono tutte le
informazioni che riguardano le vittime dell'incendio della Triangle
Waist, straniere ed italiane. La Rizzo peraltro, citando tutte
le fonti documentarie che riguardano l'avvenimento, denuncia
i depistaggi del tempo, quando si cercò di occultare
la verità, di un incendio causato dalla consapevole inosservanza
delle norme di sicurezza da parte dei proprietari della fabbrica
di camicie, ma segnala anche la scarsa conoscenza, attuale,
di un evento che fu fatale per centinaia di persone (donne in
stragrande maggioranza, ma morirono anche diciassette uomini),
di cui si recuperano nomi, origini, profili.
Peraltro, l'autrice del libro e l'editore si sono fatti promotori
di un appello affinché venga dedicata una via, una piazza,
un luogo pubblico, a futura memoria, dalle amministrazioni dei
comuni in cui sono nate le donne italiane che realizzavano apprezzate
e vendute “camicette bianche” e videro bruciate
la loro vita e la loro gioventù in un rogo, prevenibile
e quindi evitabile.
Silvestro Livolsi
Donne/
Auspicando la fine del patriarcato
Nella
primavera di quest'anno è uscita la quinta edizione del
reportage di viaggio dell'argentino Ricardo Coler Il regno
delle donne, per quelli delle edizioni nottetempo (Roma,
2015, pp. 192, € 14,00). Occuparmi di questo libro mi offre
la possibilità di sviluppare una riflessione che credo
utile. Importante non è tanto quello che io andrò
a dire ma l'argomento in sé, che spero possa, su queste
pagine, trovare in futuro ulteriori sviluppi.
Nella provincia cinese dello Yunnan, territorio assai vasto
che arriva fino ai confini col Vietnam, il Laos e la Birmania,
sulle sponde del lago Lugu, in una località chiamata
Loshui, si è sviluppata la più pura delle società
matriarcali, quella dei Mosuo, una delle poche tuttora esistenti,
che neanche l'omologazione comunista di Mao Tse-tung riuscì
a sradicare.
Il libro in questione documenta la quotidianità di queste
genti, l'applicazione nella pratica di tutti i giorni del loro
stile di vita. Durante la sua permanenza, ospite nelle case
Mosuo, l'autore cerca di superare la riservatezza cinese, si
interroga e pone domande, lasciando tuttavia al lettore la possibilità
di usare il suo resoconto di viaggio come opportunità
per pensieri che ci coinvolgono più da vicino.
Infatti la riflessione che vorrei iniziare riguarda le possibilità
di trasformazione del patriarcato come necessità sottesa
a qualsiasi sforzo di cambiamento sociale e politico realmente
efficace si voglia provare a compiere: la conditio sine qua
non.
Guardare come funziona una società matriarcale che, per
quanto sperduta sui monti della Cina, sta in piedi e si autogoverna
in maniera soddisfacente per la sua popolazione di entrambi
i sessi, sta a dimostrare innanzi tutto una cosa molto semplice:
il patriarcato non è l'unico modo possibile su cui instaurare
gli equilibri nelle relazioni. Senza voler copiare nessuno,
ritengo però stimolante guardare alle diversità
come mezzo per spostare quelle forme mentali e abitudini che
si ritengono intoccabili.
Cercherò di raccontare qualcosa sui Mosuo per poi riprendere
il filo del discorso.
Questa popolazione è originaria del Tibet ed emigrò
nella zona di Loshui poco prima dell'era cristiana. Base del
loro sostentamento economico è il lavoro nei campi, quindi
agricoltura e allevamento. Commerciano con i villaggi vicini
e con la città di Lijiang, che dista dodici ore di autobus.
Dato il clima molto rigido per diversi mesi qualsiasi attività
produttiva viene sospesa a causa della neve.
È importante sottolineare che il matriarcato non è
un patriarcato al contrario, le donne non sono al comando utilizzando
gli stessi sistemi degli uomini e una pratica non da poco come
l'uso della violenza tra i Mosuo, ad esempio, è sostanzialmente
sconosciuta.
Scrive Coler: “tra i Mosuo nessuna donna ha bisogno di
affrancarsi dalla sua condizione, perché sono e sono
state libere da sempre. Tutto ciò che accade nella società
matriarcale è frutto di una cultura in cui la dimensione
femminile si impone senza restrizioni da parte dei maschi”.
Il matriarcato implica la matrilinearità, cioè
la trasmissione del cognome, e la matrilocalità cioè
il luogo di residenza, il fatto che si vive per sempre dove
risiede la madre. Questa particolarità implica sostanzialmente
il fatto che le abitazioni d'origine, quando serve, si ampliano
ma non si creano mai nuove case a partire da una coppia. Il
matrimonio – trave portante di quante culture? –
non è previsto e non se ne comprende la necessità.
Quando una ragazza entra nell'età adulta avrà
la sua camera all'interno della dimora materna e - se un uomo
vorrà frequentarla e se verrà accettato - si sposterà
nottetempo, con discrezione, rispettando consuetudini consolidate.
Non sarà mai una donna ad andare in casa di un uomo.
Riportando le parole dell'autore: “è difficile
che una donna Mosuo pensi che il mondo finisca se il suo innamorato
la lascia. Certo non le è indifferente, ma non è
neppure il centro della sua vita. L'innamorato è qualcuno
a cui una donna non affida mai la ragione della propria esistenza.
[...] Da queste parti è possibile soltanto essere orfani
di madre, per cui ci sarebbe da rimettere in discussione il
complesso di Edipo così come è inteso in senso
classico, per chiedersi se non sia in realtà un mito
da non universalizzare. [...] La società matriarcale
ci offre un diverso punto di vista dal quale valutare le possibili
conseguenze della perdita di autorità da parte del maschio.
[...] In questa comunità, i figli non hanno un padre
con cui mettersi in competizione per la madre. La figura maschile
più vicina a loro, lo zio, è collocata a un livello
gerarchico inferiore e, benché assuma in qualche senso
un ruolo paterno, le differenze sono considerevoli.
[...] Il patriarcato non è un tratto essenziale dell'essere
umano, e l'esperienza Mosuo sta a indicare che altre possibili
forme di strutturazione della società non comportano
la sua fine, l'assenza della legge o la disintegrazione di quella
che all'interno di tale società è considerata
una famiglia. Anzi, nel matriarcato l'istituzione famigliare
pare più solida e vitale di quanto non lo sia in Occidente
[...] senza bisogno di discorsi morali per sostenerla”.
Senza rendercene conto continuiamo a credere i valori della
nostra civiltà come universali e difficilmente spingiamo
la riflessione fino a considerare quanto essi siano fondanti
nel sostenere l'ineguaglianza e l'ingiustizia che ci circonda.
È cosa buona celebrare la giornata contro la violenza
sulle donne, ma se non iniziamo a cercare un modo efficace per
scardinare la causa da cui quella violenza prende avvio, come
per tutte le violenze, credo che non se ne verrà fuori.
A partire dagli anni '70 una parte delle donne si è impegnata
per comprendere se stessa e le possibilità di migliorare
condizioni di vita, lavoro e relazione, tra donne e con gli
uomini. In più di quarant'anni si è formata una
cultura “femminista” che ha contribuito non poco
nel creare crepe - cioè spazi di apertura e libertà
- nel pensiero dominante di stampo maschile patriarcale.
Oggi è arrivato il tempo in cui si può guardare
a ritroso e riconoscere il cambiamento - epocale e tragico –
che circa ottomila/diecimila anni fa vide il patriarcato sostituirsi
con violenza alle precedenti culture e religiosità matriarcali
femminili: da lì sono partiti antropocentrismo (centralità/superiorità
dell'essere umano nella creazione) e androcentrismo (la centralità/
superiorità del maschio umano).
Mi trovo d'accordo con chi afferma che - soprattutto nell'Occidente
cristiano e patriarcale - il nuovo paradigma è proprio
il femminismo che invita l'umanità - soprattutto nella
sua componente maschile - a riscoprire la propria parzialità
nel cosmo. Soltanto questa consapevolezza ci può aiutare
nel vivere tutte le differenze con convivialità, incominciando
proprio dall'uguaglianza tra i generi.
Se vogliamo concorrere alla possibilità di una realizzazione
futura di società egualitarie, basate su quelli che vengono
chiamati “valori materni”, cioè a dire: pace
attraverso la mediazione, non-violenza nella gestione dei conflitti
e nelle relazioni, cura e nutrimento di tutto l'esistente; credo
sia arrivato il tempo che i maschi facciano la loro parte.
Osservare le società matriarcali ci mostra come in linea
di massima queste siano orientate principalmente verso l'appagamento
dei bisogni piuttosto che verso il potere da raggiungere. Quindi
più realistiche, poiché consapevoli del valore
materno maggiormente idoneo al benessere umano (la storia ce
lo ha mostrato ampiamente) di quanto non lo sia il patriarcato,
il quale tende a sopprimere il femminile in generale e le donne
in particolare.
Mi auguro che anche una piccola cosa come la lettura di un libro,
grazie al quale si vengono a conoscere stili di vita diametralmente
opposti rispetto al nostro, nei quali la serenità la
fa da padrone, possa spingerci tutte e tutti, uomini in prima
fila, a iniziare il lungo percorso per invertire la rotta. A
onor del vero qualcosa è già iniziato, seppure
in sordina, da almeno una decina d'anni. Anche se purtroppo
si tratta ancora di un fenomeno marginale abbiamo a che fare
con un movimento molto interessante, pieno di potenzialità
e speranza che ci auguriamo dilaghi velocemente (per saperne
di più vedi http://www.maschileplurale.it/).
Silvia Papi
Libero e non-benpensante/
Un racconto (erotico) di formazione
«Pornografi
- o meglio pornologi - non sono coloro che, in nome del sacrosanto
diritto all'edonismo, procurano piacere a se stessi e a quanti
più altri gli riesce, ma coloro che, nel cesso di un
ristorante, non si degnano di alzare la ciambella di legno prima
di pisciare, e la lasciano regolarmente costellata di schizzi».
Lelio Luttazzi, nato a Trieste nel 1923 e morto nel 2010, è
stato autore di canzoni e colonne sonore, direttore d'orchestra,
conduttore radiofonico e televisivo, attore, showman. Il re
dello swing italiano ere un uomo eclettico e possedeva molti
doni, ma quello della scrittura è senza dubbio meno noto
di altri al grande pubblico.
Eppure L'erotismo di Oberdan Baciro (Einaudi, Torino,
2012, pp. 176, € 17,00) è un capolavoro di umorismo
senza pari, uno straordinario e tragicomico “romanzo di
formazione” che riesce a spiazzare, avvincere e catturare
dall'inizio all'epilogo con leggerezza e profondità.
Si tratta di un romanzo postumo e autobiografico, rimasto per
più di trent'anni in un cassetto e ritrovato dalla moglie
Rossana dopo la scomparsa dell'autore.
La storia del piccolo protagonista ricorda da vicino quella
del piccolo Lelio, orfano di padre poco dopo la nascita, figlio
unico di una maestra bigotta e innamorata del duce.
Ma racconta anche il suo pensiero di uomo adulto, educato e
libertino, autoironico e libertario, insofferente delle proibizioni
della morale: “L'eros - scriveva in epigrafe – è
l'unica verità universale e inestinguibile che la creazione
ha elargito agli esseri viventi. Giacché è tempo
di convincersi che, quanto agli altri valori ereditati dalla
nostra millenaria civiltà, forse non era vero niente”.
Oberdan è un giovane ma già espertissimo pipparolo,
figlio unico di madre vedova, donna pia e tutta d'un pezzo;
si chiama così perché la madre «irredentista,
patriota, fascista e rompicoglioni» gli ha imposto il
nome del triestino Guglielmo Oberdan, patriota e martire risorgimentale.
Trasferitasi da Trieste a Prosecco per esercitare il suo incarico
di maestra, la vedova Baciro reprime sistematicamente il figlio,
che fin dall'infanzia (poco tenera, come molte infanzie dell'epoca)
è prepotentemente e dolorosamente attratto dall'altro
sesso e dai misteri celati sotto le pudiche gonne e camicette
imposte dalla cultura clerico-fascista dell'epoca (siamo nei
primi anni trenta).
Malauguratamente circondato a scuola da ragazzette bruttarelle
e poco appetibili, “figlie di rozzi vaccaroli sloveni”,
Oberdan inizia i suoi percorsi di solitario apprendimento sognando
e corteggiando maldestramente piccole bellezze asburgiche, snob
e irraggiungibili.
Ideali femminini che sembrano complottare contro di lui, in
un continuo tira-e-molla di avvicinamenti e fughe, offerte e
negazioni, un carillon di promesse mai mantenute che diventano
una comica e tragica persecuzione.
Così Oberdan si sceglie il proprio maestro di vita, un
giovanotto di nome Fausto, in libera uscita da un ospedale psichiatrico,
che davanti al cancello di casa gli riaccende ogni sera con
i suoi trionfali racconti fantasie proibite, contribuendo a
formare nella testa del protagonista una sorta di “filosofia
erotica” puntualmente trascritta nei suoi “taccuini”
e destinata a rappresentare l'ennesima frustrazione: perché
se l'amore di coppia per Oberdan è difficile, quello
di gruppo è un vero e proprio miraggio.
A nulla varrà per il nostro antieroe trasferirsi a Trieste,
scoprirsi brillante musicista, diventare l'ambito animatore
delle feste del liceo, conoscere la stupenda Sarah Meyer, mondana,
emancipata, figlia di una facoltosa famiglia ebrea: a mettere
fine ai suoi sogni, ai suoi struggimenti e alla sua breve esistenza
servirà solo - ahilui e ahinoi - la guerra.
Oberdan morirà infatti a causa di un fatale lapsus, in
guerra, all'età di 18 anni.
Vergine.
Nel racconto della formazione erotico-onanistica di Oberdan
e delle sue disavventure, c'è tutta l'insofferenza di
Lelio Luttazzi per le pratiche del fascismo, le pena per quegli
innocenti Balilla e quelle innocenti Piccole Italiane costretti
a scattare sull'attenti a scuola e fuori, per le belle cartoline
rosa di chiamata alle armi; e c'è la sua “sbandata
per il jazz” i cui adepti si radunavano per ascoltare
i dischi di Ellington e di Armstrong «come carbonari risorgimentali».
Il romanzo di Luttazzi è il ritratto di un'Italia puritana
e bigotta (di facciata, s'intende) che si avvicina a piè
sospinto ad una delle sue tragedie peggiori. Dalle macerie di
quella guerra e dai taccuini del giovane Baciro “morto
per la patria” emergeranno verità scomode, negate
per decenni ancora e ancora irrisolte, anche oggi, anche nella
nostra tormentata modernità.
Una su tutte, tratta dai taccuini di Oberdan, datata giugno
1940, anni 17, solo per mostrare quanto dietro ad erotismo spudoratezza
e sbandieramento di peccati mortali si nascondano altri e profondi
pensieri luttazziani.
“Non pretendo di aver scoperto io, che tra la cosiddetta
follia e la non follia esistono ben labili confini,
né di discutere di neurologia, né di addentrarmi
in dilettantesche distinzioni tra psicopatici, nevrotici ecc.
Ma sono certo che nei manicomi di tutto il mondo convivono,
accanto ai veri sofferenti bisognosi di cure e tra i pazzi pericolosi,
chissà quanti “anormali” felicissimi del
loro stato e tutt'altro che aggressivi. Fuori, costoro sarebbero
semplicemente degli stravaganti, magari degli emarginati, magari
degli asociali, ma certo meno mediocri di coloro che se ne sono
liberati rinchiudendoli nella fossa dei serpenti. Oltre a tutto
le famiglie e la società non lo hanno fatto per salvarli
o per difendersene: lo hanno fatto perché li odiavano.
Un odio basato sull'invidia, perché i benpensanti avvertono
la superiorità dei non-benpensanti, e i non-liberi temono
la libertà dei veri liberi.”
Un romanzo straconsigliato a tutti gli amanti degli atti impuri,
delle fiamme eterne e della cattiva morale. In altre parole,
della libertà.
Claudia Ceretto
Cinema sociale/
Un posto nel mondo
Orfani del mondo, ripudiati dal loro paese, rifiutati dai nostri
paesi. Raccolti in mare, mai accolti. Negletti dalla società,
fuori mercato, inutili e dannosi granelli di sabbia in un meccanismo
ben oliato e così imperfetto. Oppure tanto utili perché
sfruttabili senza ritegno, bambini di pochi anni inclusi. Donne
e uomini alla ricerca di un'identità, di un posto nel
mondo, di una meta. Assicurare una vita dignitosa al corpo e
alla mente, viaggiare alla ricerca del proprio cammino, di un
porto per i propri figli. Occhi attoniti e increduli, a volte
addirittura divertiti, di fronte alle assurdità grottesche
del sistema mondo-mercato che ci siamo costruiti e che ci sta
divorando.
Di queste e di altre galassie si è occupata la rassegna
cinematografica “Un posto nel mondo. Percorsi di cinema
e documentazione sociale” giunta alla sua 14° edizione.
“Attraverso un percorso articolato con film invisibili,
documentari scomodi, riflessioni urgenti e piccole provocazioni
nei confronti di una provincia culturalmente pigra, abbiamo
cercato di comunicare la necessità di incontrare e raccontare
contraddizioni, conflitti, speranze per conoscere meglio il
nostro tempo e i suoi equilibri instabili, dove anche se spesso
non li vogliamo vedere, crescono disagi, disuguaglianze, diritti
negati, nuovi bisogni.” (Tratto dal sito www.filmstudio90.it).
Di questa “provincia pigra”, che non vuole confini,
fa parte anche il Canton Ticino. Il dialogo tra l'Associazione
cultura popolare di Balerna (www.acpnet.org)
e FilmStudio90 di Varese si sta intensificando grazie al progetto
“Cittadinanze in visione”. Dopo la rassegna primaverile
“Di terra e di cielo” incentrata su temi ambientali
(vedi Rassegna libertaria A401), “Buongiorno Taranto”),
torniamo a parlare di cinema documentaristico con “Un
posto nel mondo” che propone annualmente in autunno un
programma ricchissimo: nell'edizione 2015, una quarantina di
film e documentari proiettati tra il 5 novembre e l'8 dicembre
in diverse sale diffuse nella provincia di Varese e nell'area
transfrontaliera.
Le tre serate proposte a Balerna hanno lasciato immagini sconcertanti.
Rivivendole e provando a raccontarle mi accorgo quanto sia importante
una proposta come questa per scuoterci, rompere il guscio in
cui ci rifugiamo e aprire gli occhi su un mondo che non può
piacere nemmeno a chi dalle disuguaglianze trae profitto: noi
tutti. Un mondo le cui aberrazioni sono vergogna e umiliazione
se appena ci prendiamo il coraggio di guardarle in faccia.
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Gaza (Palestina) - Cantautore rap (da Striplife, Gaza
in a day |
La risata di una donna. Partita dal Ghana è giunta
in Italia dopo anni di viaggio e mille peripezie. Soccorsa vestita,
nutrita, visitata da un medico si sente finalmente accolta,
riceve un foglio di carta. Lo interpreta come un documento che
attesta il suo statuto di rifugiata, che ne sancisce i diritti.
Niente di tutto questo, le viene spiegato, si tratta di un foglio
di via, che le impone un dovere, non un diritto: quello di lasciare
il paese entro trenta giorni. Ride Gladys, ride di gusto e fa
anche una battuta al funzionario: come devo partire, via terra
o via mare? In questa risata stanno le nostre assurdità
e le sue ragioni. Come nell'interrogativo che si pone Giuseppe
Battiston: “Fatemi capire: con l'operazione Mare nostrum,
noi soccorriamo i migranti che rischiano la vita semplicemente
perché, sempre noi, non li lasciamo entrare attraverso
vie più sicure? (Come il peso dell'acqua di Giuseppe
Battiston, Stefano Liberti, Marco Paolini, Andrea Segre, Italia
2014)
I canti ritmati dei ragazzi di Gaza City. Come in ogni parte
del mondo che noi conosciamo, anche a Gaza ci sono giovani che
compongono e cantano pezzi rap, di nascosto da Hamas, che lo
vieta in pubblico. O si cimentano in acrobazie spericolate con
le loro squadre di Parkour; hanno immense costruzioni semidiroccate
a disposizione, da fare invidia ai ragazzi di Milano, di Ginevra
o di Lisbona. Nei sottotitoli dei loro canti leggo con stupore
parole di resistenza pacifica: “Voi continuate ad uccidere,
noi continuiamo a vivere”. Anche quando a distanza ravvicinata
si sentono e si vedono i bombardamenti, i rapper riescono a
sdrammatizzare: “Lo vedi? Scoppiano le bombe e noi ridiamo.
Guarda, il fumo sta formando un cuore nel cielo”. (Striplife,
Gaza in a day di Nicola Grignani, Alberto Mussolini, Luca
Scaffidi, Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli, Italia/Gaza
2013)
Gli occhi intelligenti di Padma. Siamo a Piduguralla (India),
la città della calce. Padma nel 2002 era una ragazzina
di dieci anni costretta come tanti suoi vicini e amici ad un
lavoro durissimo, quello di spaccare pietre nel sole e nella
polvere. Impietosi entrambi. In quell'inferno bianco, le parole
e gli occhi neri, troppo seri, duri e determinati per una bambina,
rivendicavano il diritto ad una vita dignitosa. A dodici anni
di distanza il suo sguardo incrocia di nuovo quello del regista
Adriano Zecca, che l'ha cercata e ritrovata. È uno sguardo
più dolce, commosso, a tratti allegro: i suoi tre figli
non sono più costretti a lavorare come fu per lei, frequentano
la scuola, possono costruirsi un futuro diverso, hanno occhi
curiosi. (Piduguralla, la città della calce di
Adriano Zecca, Svizzera 2014).
I ragazzi di Napoli di N'ata scians (di Adriano Zecca,
Italia 2010). Mi si è fermato il cuore. Non soffrono
la fame, anche se è verosimile pensare che escano da
famiglie disastrate; si trovano in un ambiente non particolarmente
malsano per il corpo, quello delle nostre città, rumorose
e inquinate, ma ancora vivibili; hanno scooter, telefonini,
vivono in compagnia, di espedienti, certo, ma sembrano allegri;
non frequentano la scuola, cacciati o fuggiti. Che cosa mi ha
intristito, che cosa mi ha turbato tanto da togliermi quel filo
di speranza che gli altri documentari che raccontano vite “più
dure”, oppresse, negate, sfruttate non hanno spezzato?
Sembra che questi ragazzi non abbiano più sogni, che
siano definitivamente spogliati della loro dignità. Definitivamente,
senza speranza. Vogliono soldi, soldi facili, dicono.
La sensazione è che non sappiano più cosa vogliono,
che abbiano perso la capacità di sognare. Violenza e
sopraffazione hanno distrutto i loro sogni. Sono l'altra faccia
di Piduguralla, la faccia senza riscatto. Il documentario racconta
però anche di insegnanti che partecipano ad un progetto
di scuola di strada con una tenacia che ammutolisce. Progetto
“Chance”, ambizioso e meraviglioso, abbandonato
dalle istituzioni nel 2009 per ragioni ignote. Forse è
la perseveranza, la speranza (uno di loro è un ex ragazzo
di strada di questi stessi quartieri) che non riescono a rispecchiarsi
negli occhi vuoti di questi ragazzi a fare male. Pensi allora
ai ragazzi che cantano e piroettano tra le macerie di Gaza,
che irradiano integrità, voglia di sognare, speranza
invincibile. I ragazzi dei quartieri spagnoli di Napoli vagano
invece tra le macerie delle loro vite: quando le macerie sono
dentro di te, dove lo trovi un posto nel mondo?
|
PiduguraIla (India) - I bambini della “Città
della calce”. (Altre immagini sono state pubblicate nel reportage di Raùl Zecca Castel in “A” 399, giugno 2015) |
Volevo concludere qui il mio breve resoconto. L'ho riletto,
rimproverandomi: volevi scrivere di una rassegna cinematografica
e hai finito per metterci la tua rassegnazione. Poi ho scoperto
che rimane ...una Chance, n'ata scians. Leggo dal sito www.maestridistrada.it:
“Il progetto Chance nato nel 1998 aveva suscitato in centinaia
di giovani la speranza di aver incontrato qualcuno che con coerenza
li sostenesse. È stato chiuso nel 2009 per ignoti motivi,
ma i Maestri di Strada continuano ad alimentare quella speranza.
[...] Dal 2009 l'associazione Maestri di Strada si è
completamente rinnovata basandosi su risorse private e sul lavoro
di giovani che hanno compiuto studi nel campo delle scienze
umane e sociali e giovandosi dell'apporto gratuito di cittadini
che si rendono responsabili dell'educazione di giovani a rischio
dispersione.”
Che sollievo sapere che qualcuno sopperisce, che qualcuno continua
a lottare per le cause giuste contro le ingiustizie del mondo.
E noi? Non siamo tutti maestri di strada ma ognuno può
trovare il suo modo per opporsi, mai rassegnarsi e resistere.
Ognuno deve.
Paola Pronini Medici
Combattere l'inferno/
Storia degli psichiatri che sconfissero i manicomi
John Foot, professore di storia contemporanea a Bristol, ha
da poco pubblicato per Feltinelli La “Repubblica dei
Matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia
dal 1961 al 1978 (Milano, 2014, pp. 392, € 22,00).
Nel
ricostruire le vicende che portarono alla Legge 180, l'autore
ricostruisce le vicende di un gruppo di giovani psichiatri italiani
che riuscirono a sbaraccare i manicomi. Foot ci parla lungamente
anche dei più stretti collaboratori di Basaglia, in particolare
di Giovanni Jervis e Franca Ongaro. Nel volume però trovano
spazio nomi spesso dimenticati, come quello di Edelweiss Cotti,
che ebbero un ruolo importante nel processo di messa in crisi
della psichiatria e che successivamente furono messi in ombra
dalla celebrazione solo di alcune esperienze.
Alla fine della seconda guerra mondiale, i manicomi emanavano
odore di merda e di morte e assomigliavano ai lager. Combattere
questo inferno e modernizzare il paese fu l'assillo di questi
tecnici psi.
Foot distingue all'interno della psichiatria critica ed evidenzia
delle notevoli differenze con la tradizione inglese, rappresentata
soprattutto da Maxwell Jones, Cooper e Laing; ciò lo
porta alla riscoperta fra gli italiani di coloro che effettivamente
possono considerarsi come rappresentanti dell'antipsichiatria
(Cotti, Antonucci). Si trattava di una minoranza, perché
il grosso del movimento era composto da intellettuali e medici
che l'autore inglese preferisce chiamare globalmente come psichiatri
radicali e che avevano come fine principale l'abolizione dell'ospedale
psichiatrico e la sua sostituzioni con differenti pratiche.
Si trattava, quindi, di una corrente maggioritaria propriamente
definibile come anti-istituzionale.
Gran parte del libro di Foot è, così, dedicata
alla descrizione delle esperienze di riforma dell'ospedale psichiatrico
condotte a Gorizia, Cividale, Perugia, Parma, Reggio Emilia,
Arezzo e poi Trieste (si nota la mancanza del Sud d'Italia;
ad es. Nocera Superiore con Sergio Piro).
È chiaro che ci si trovava di fronte a due tipi di intervento:
da un canto quello dei tecnici rappresentati dai goriziani e
dall'altro quello dei politici che soprattutto a Perugia, Parma,
Arezzo e poi anche Trieste, giocarono un ruolo centrale nel
portare alla chiusura del manicomio.
Nel libro si sottolinea chiaramente che le pratiche dei goriziani
furono le stesse del “movimento”. La psichiatria
radicale italiana rappresentò, quindi, un caso storicamente
rilevante per comprendere i profondi processi di riforma istituzionale
che caratterizzarono l'Italia, fino alla fine degli anni Settanta.
L'uso delle “assemblee” significava la radicale
messa in discussione delle gerarchie che nelle istituzioni sopravvivevano
come eredità del passato regime. Con le assemblee, il
direttore, gli infermieri, i pazienti erano tutti posti su un
piano orizzontale da cui emergevano i processi decisionali.
Le assemblee furono poi il grimaldello che tentava di scardinare
le istituzioni del passato anche nella fabbrica, nell'ospedale,
nella scuola e nell'università.
Il volume di Foot ha, quindi, il merito di sollevare alcune
questioni che oltrepassano la mera storia della psichiatria
radicale, assumendo che questa sia stata uno dei territori in
cui la riforma delle istituzioni, sollecitata dai movimenti
degli anni Sessanta e Settanta, sia stata anche più profonda.
Il quadro che ne esce lascia, tuttavia, aperte alcune questioni.
In particolare occorrerebbe chiarire il diverso punto di vista
epistemologico che caratterizzò i protagonisti delle
vicende. Schematicamente c'era da una parte la psichiatria universitaria,
legata a vecchi schemi, dall'altra giovani psichiatri portatori
di idee nuove, “supportati” però da una folta
“moltitudine”, non disciplinata, di operatori, composta
da ex degenti, psicologi, sociologi, assistenti sociali, medici
non specialisti, infermieri, politici, artisti e intellettuali.
Quale era il ruolo di questa moltitudine? Quali le differenti
sensibilità psi?
Il passaggio della Legge 180 del 13 maggio 1978, “impose”
inoltre un accordo alle differenti e litigiose anime del movimento
anche per sfuggire al referendum radicale che dal punto di vista
dei tecnici e dei politici avrebbe potuto creare un indesiderato
vuoto legislativo. Il 16 Aprile era stato, per giunta, sequestrato
Aldo Moro e il 9 Maggio ne era stato ritrovato il corpo. Si
trattò, dunque, di una legge emergenziale che come nota
Foot ebbe vita breve. Essa infatti fu abolita per essere quasi
totalmente implementata nella Legge di globale riforma del Sistema
Sanitario Nazionale (n. 833 del dicembre 1978).
Tale passaggio veloce se da un canto permise una delle poche
riforme radicali repubblicane, dall'altro presentava dei limiti.
Foot nota che già Basaglia aveva capito che in realtà
alcune parti contenute nella legge, come l'istituzione del Trattamento
Sanitario Obbligatorio, reintroducevano un potere sul malato
e avrebbero potuto essere sicuramente scritte con una sensibilità
maggiormente libertaria.
Il libro, dunque, ha il pregio di non essere celebrativo e di
ricostruire la storia delle origini del movimento psichiatrico
radicale italiano nelle sue complesse conseguenze.
Renato Foschi
Nordest, Occidente e altre allucinazioni/
Prima (e terza?) guerra mondiale
«Come è governato il mondo e come cominciano le
guerre? I diplomatici raccontano bugie ai giornalisti e poi
credono a ciò che leggono». Avevo scelto questa
frase di Karl Kraus - poi lo ritroveremo, con un altro aforisma
- per iniziare un ragionamento su Cent'anni a Nordest
di Wu Ming 1 (Rizzoli, Milano, 2015, pp. 274, € 17,00)
uscito a giugno – sottotitolo «Viaggio tra i fantasmi
della guera granda» - e dedicato ad Antonio Caronia.
È un reportage narrativo? Un saggio storico ben scritto?
Non so a voi, a me non importa imbarattolarlo, lo consiglio
senza etichette.
Proprio
mentre rileggevo il libro, sul mio computer ha fatto irruzione
la seconda strage (bisognerà numerarle?) di Parigi. Dunque
mi ritrovo a scrivere di questo libro - importante, anche per
la sua capacità di connettersi all'oggi - con un'accresciuta
sensazione di catastrofe sulla schiena. Con le bugie dei “diplomatici”
che in queste ore dilagano: a coprire certe guerre, altre a
gonfiarne e nuove a prepararne. E con il direttore di Repubblica
a suggerirci la linea: siamo tutti occidentali, cioè
buoni. Io come Salvini e la ministra Pinotti. Sottinteso: gli
altri sono non occidentali. L'Isis come Vandana Shiva, suppongo.
Com'è semplice il mondo. Ha invece ragione Wu Ming 1
a scrivere: «Dobbiamo fare i conti con questi intrichi
di identità, con le nostre memorie selettive, con matasse
piene di nodi». Lui parla del Nordest ma questa complessità
è quasi ovunque.
«A Nordest il passato si confonde con il presente, tra
memorie rimosse ed eredità inconfessate. Così
ho deciso di studiare, intervistare, mappare, scrivere».
Nordest cioè i luoghi della «guera granda,
nelle parlate venete».
Facciamo un giro con Wu Ming 1. Lì c'è il fiume
della retorica: «la Piave» ribattezzato maschio
perché gli eroi – si sa – non possono essere
femmine. Ecco là Gorizia, «tu sei maledetta».
I grandi cimiteri nazionalisti e fascisti. Il Carso «che
in tedesco si chiama Karst, in sloveno Kras». Ronchi che
usa il suffisso «dei Legionari» ma qualcuno vorrebbe
ribattezzare «dei partigiani». Caporetto, «o
meglio Kobarid». Trento e Trieste, sempre citate insieme
pur se lontane e poco somiglianti: «si fa presto a dire
Nordest» però quelle tre regioni sono diversissime
fra loro. Bolzano «che non era “irredenta”
né italiana, ma già che ci siamo prendiamola»...
Il passato ci parla delle infamie di Cadorna, di Andrea Graziani,
del Duca d'Aosta; di fucilazioni sommarie a Villesse, Cervicento
e via, un lungo e terribile elenco. Ma racconta anche di renitenti
e antimilitaristi. Il presente ha buona memoria quando erige
il «monumento al disertore di tutte le guerre» (a
Rovereto). O quando ripropone storie censurate: a esempio l'attore
e regista Alessandro Anderloni o il drammaturgo Massimiliano
Speziani. E Cent'anni a Nordest ci riconnette al presente:
«Perché diserzione e disobbedienza non sono “acqua
passata sotto i ponti” ma domande poste al presente, a
chi vuole fare la guerra oggi».
Nel Nordest, dall'intreccio di ricchezza e ignoranza –
così cantavano i Pitura Freska – nascono i Pietro
Maso. E il leghismo-razzismo, con le spinte secessioniste (in
parte vere, in parte altamente alcoliche). Qui adesso c'è
anche molto assurdo. La rivendicazione di un Putin dalle origini
venete, per dirne una. Se la desinenza “in” è
«tipicamente veneta», tagliamo corto: «Vero.
Lenin era di Montebelluna, Rasputin di Monselice, Gagarin di
San Donà di Piave». Nel Trentino e Alto Adige «c'è
un Welfare che altrove te lo sogni» ma allora perché
«ci si ammazza più che altrove?». La pianura
veneta è «divorata dalla psoriasi del mattone e
del cemento». In meno di 40 anni «questa terra è
passata dalla miseria [...] a una ricchezza perseguita con pochi
freni» scrive Wu Ming 1. «Suolo e sangue. Blot
und Boden»: da queste parti, più che altrove,
torna a risuonare l'antico, terribile binomio e l'autore commenta
- citando Karl Kraus (rieccolo) - «l'unione di sangue
e terra provoca il tetano». L'oggi è fortemente
connesso al passato. «Non parleremmo di “Nordest”
senza la Prima guerra mondiale. Il Nordest è il prodotto
di quella guerra che operò una cesura irreversibile.
[...] Il Nordest è figlio della guera granda in
ogni suo aspetto a cominciare dal paesaggio».
Cent'anni a Nordest si muove anche fra indipendentismi,
austronostalgie, «mitologie tossiche» (e perlopiù
inventate). Spesso, nelle pieghe del passato inventato, affiora
anche qualche complicata verità: a esempio, «con
l'annessione all'Italia, Trieste non sembra aver fatto un buon
affare». Altra complicazione: «la nostalgia per
gli Asburgo può nasconderne una più lercia: quella
per le SS». E c'è oggi chi rivendica quei “bei
tempi”.
I nodi «vanno sciolti con pazienza, uno a uno».
Chissà se «il centenario della Grande guerra, coi
suoi 4 anni di ricorrenza» potrebbe far nascere ragionamento
collettivo, almeno in una minoranza. In ogni caso la frase finale
- «Bentornati, fantasmi della diserzione» –
è sempre buona, oggi più di ieri.
Daniele Barbieri
Pablo Echaurren e l'arte contro/
“Make art not Money”
Pablo Echaurren, pittore, grafico, fumettista, creatore di
oggetti, ceramiche, saggi sull'arte e autore di romanzi e graphic
novels, impegnato da sempre nel sociale, ex-settantasettino
e libertario Pablo Echaurren si ritiene soprattutto collezionista
di documenti sul Futurismo di cui ha la più importante
raccolta al mondo. Voleva fare il bassista o forse l'entomologo,
ma gli è toccato di essere artista, tant'è...
Echaurren ha collaborato saltuariamente con l'editoria anarchica
ed ha anche recentemente realizzato due manifesti pubblicitari
per le Cucine del Popolo di Massenzatico. Questa intervista
l'abbiamo realizzata il 20 novembre in occasione della vernice
della mostra Pablo Echaurren, contropittura alla Galleria
Nazionale d'Arte Moderna (GNAM) di Roma che resterà aperta
sino al 3 aprile 2016.
Bellissimo e completo il catalogo dell'esposizione con due omaggi
nella prefazione da parte dei suoi due mentori, un'introduzione
di Arturo Schwarz, suo scopritore e primo gallerista e una “lettera
a Pablo” di Gianfranco Baruchello, il grande artista anarchico,
suo primo maestro. Chiude il catalogo un esauriente saggio biografico
della moglie, Claudia Salaris.
In armonia con l'impronta sovversiva dell'arte di Pablo è
l'intervistato che inizia col far domande all'intervistatore...
Franco Bunuga
Pablo Echaurren: Ma Le Cucine del Popolo le fanno ancora
lì a Reggio Emilia, si?
Franco Bunuga: Oh, si, a Massenzatico, dove la rivoluzione
se verrà “sarà un pranzo di gala”,
come recita un recente manifesto di una cena collettiva.
Pablo: Per loro ho realizzato due manifesti. Mi ero fatto
tentare dalla promessa di Ferrari che le organizza di retribuirmi
con un po' di parmigiano di vacca rosso. Ma poi non me l'ha
dato, sto ancora aspettando.
Tu hai pubblicato nel 2013 per le edizioni dell'Arengario
di Gussago Il mio '77, una tua riflessione su quegli
anni corredata da molte immagini e documenti che ritrovo esposti
in questa mostra. In quel testo dicevi: “Rispetto a ogni
altra precedente avanguardia (se è vero che fummo “avanguardia
di massa” come disse Calvesi) noi non ci siamo posti alcun
intento a lunga gittata, non pensavamo certo di produrre “opere”
[...] volevamo [...] essere contro, senza “dover essere”
schierati con questa o quella frazione di fazione”. Questo
concetto mi sembra molto importante, un momento di passaggio
fondamentale nel dibattito sulla funzione dell'arte così
come si veniva definendo alla fine degli anni '70.
Soprattutto in questo anno particolare che fu il '77. Molte
menti erano state costrette ad adeguarsi alle risoluzioni delle
organizzazioni politiche e quell'anno invece segnò il
momento dell'esplosione in cui tutti decisero di emanciparsi
da quella tutela. In quell'anno c'è stata la vera possibilità
-è durata una frazione di secondo perché poi il
piombo ha messo a tacere tutto- di riacquistare una totale autonomia,
non intendo un'autonomia operaia come si proclamava allora
ma un'autonomia da tutto e anche addirittura la facoltà
di poter creare una deriva creativa. Fino a quel momento la
creatività era considerata un accessorio, invece in questo
momento tanti ragazzi si mettono a fare giornaletti autoprodotti
come il nostro “Oask?!” e tanti altri. Il '77 è
stato sì l'anno del piombo ma anche l'unico anno in cui
è sembrata realizzabile l'ipotesi di un'arte davvero
diffusa che sgombrasse una volta per tutte la voglia di essere
“artisti” professionisti.
Ormai si stanno storicizzando quegli anni. Noi quando
eravamo dentro al Movimento certamente non avevamo l'esigenza
di lasciare tracce, non ci rendevamo conto del momento unico
che stavamo vivendo, eravamo contro ogni forma di storicizzazione,
non firmavamo neanche articoli disegni o manifesti, non prendevamo
posizioni definite, tutto era collettivo, nulla apparteneva
a nessuno e tutto era di tutti.
Tutte queste riviste, disegni o documenti che sono esposti in
questa sala, tutti o in gran parte mi sono stati restituiti
a distanza di tempo. Si lasciavano le proprie produzioni a disposizione
di tutti, chi voleva se le prendeva senza pensare a che fine
avrebbero fatto, a quanto potessero valere o come sfruttarle.
|
Pablo Echaurren, Market, acrilico su tela, 160x235
cm |
A proposito di oggetti ritrovati o restituiti dal caso,
ricordo che sul tuo blog una volta citavi il fatto che qualcuno
aveva trovato dei tuoi quadri accanto a un cassonetto, mi sembra
a Milano, e ti aveva contattato esprimendo la sua felicità
per quel inaspettato dono del caso criticando chi aveva gettato
le tue opere senza conoscerne il valore, anche materiale. La
tua risposta mi era piaciuta molto, non ti eri irritato affatto,
avevi ironizzato in modo giocoso sull'opera e sul suo presunto
valore. Make Art not Money, il titolo di una sezione
della mostra potrebbe essere anche una delle tue regole di vita.
Penso che l'arte non sia un fine, quindi qualcosa da contemplare,
ma sia un mezzo ed anche uno strumento, come un paio di occhiali,
tu li inforchi e se ne hai bisogno cerchi di chiarificare la
tua vista, non è detto che ci si riesca, una lente può
essere sfasata non adatta o fuori fuoco. L'arte non deve essere
altro che questo, un modo per dire quello che si pensa della
realtà, se si ha qualcosa da dire. E poi se ciò
che fai funziona anche per altri, cioè se gli altri guardando
le tue opere e ci trovano qualcosa che riconoscono come proprio,
allora forse resterà qualcosa. Ma poi forse sai, questo
fatto del durare nel tempo è molto aleatorio, la percezione
di quello che è stato il percorso dell'arte si capovolge
continuamente. Fino ai primi del Novecento ad esempio nessuno
si interessava più a Caravaggio, la sua era considerata
una pittura fastidiosa.
Ho letto la tua Controstoria dell'arte, la tua
è più contropittura o pittura contro come direbbero
i settantasettini che amavano il ribaltamento o i due termini
si equivalgono?
Io sostengo che la pittura non debba essere qualcosa di statico,
né una cosa separata dal resto delle altre espressioni
creative, quindi il fumetto, l'illustrazione, la ceramica, la
pittura, la scultura o il cinema. Penso che sia tutto un grande
blob: io a volte mi firmo Pablob. Cerco di inglobare tutto,
cosa che facciamo tutti, nessuno si deve necessariamente –
a meno che non sia uno scienziato – specializzare. Anche
uno scienziato forse è meglio che non si specializzi,
molti problemi derivano da un eccesso di specializzazione. Nel
mondo dell'arte si tende molto a dividere e tenere separati
i campi, ma la cosa accade non solo nel mondo dell'arte, quando
io facevo fumetto in realtà non ero accettato neppure
tra i fumettisti.
Questa esposizione testimonia soprattutto la tua produzione
pittorica, ti sei espresso in molti campi della pratica artistica,
forse meno in opere concettuali o installazioni, anche se hai
sperimentato molte tecniche e materiali.
Ho sempre seguito fedelmente la lezione di Marcel Duchamp, che
detestava il quadro tradizionale, quello che lui definiva “le
ebbrezze all'acquaragia”. Non ho mai vissuto come pittura
la mia produzione di “quadratini” che sono all'inizio
come delle pagine di un diario di un'enciclopedia individuale,
non certo quadri da parete, tanto che sono realizzati con colori
che stanno svanendo. Al piano di sopra troverai anche dei quadretti
fatti strofinando foglie e fiori di piante unite alle ombre
delle stesse piante, quindi cose essenzialmente mentali, quasi
non li vedi perché non c'è niente da vedere, ma
da percepire... No, io in realtà non sono mai stato pittore,
io sono molto superficiale, non conosco tecniche, non le ho
mai approfondite: me ne servo come strumento per dire qualcosa.
Ma poi alla fine tutta la pittura è concettuale. Chi
è più concettuale di Canova o di Raffaello?...
Quelli che si autodefiniscono concettuali lo fanno perché
hanno bisogno di affermare di avere un qualche concetto in testa,
che altrimenti non si percepirebbe neanche. [...]
[...] Tu dici in un'intervista che l'arte oggi è
ormai solo appannaggio di una visione monetaristica e che siamo
ormai tutti devoti al “Corpus Christie's” e al “Corpus
Sotheby's”.
Siamo in un'epoca in cui il denaro prevale su tutto tanto che
a questo punto il valore di un'opera è determinato dal
prezzo e non il contrario come dovrebbe essere. [...]
Qual è oggi la possibile via di uscita per non
diventare come dici in un tuo scritto transatlantico o piccola
barchetta o naufrago costretto a galleggiare in questo mare
del mercato in cui conta solo il denaro?
Non riesco a vivere in un mondo a compartimenti stagni quindi
non riesco a pensare a una tavolata di soli artisti come non
posso pensare a una tavolata di entomologi, anche se almeno
questi hanno delle cose concrete da dirsi. Gli artisti pensano
sempre solo a come fare più soldi, in quale modo migliorare
la propria carriera o a trovare strategie vincenti. Il mondo
dell'arte se si chiude su se stesso diventa un luogo simile
a quei comprensori abitativi statunitensi fatti di case, campi
da golf, ristoranti, dove si va da pensionati agiati per passare
la vecchiaia in tranquillità e poi morire. Ci sono solo
anziani che frequentano anziani. Ma la vita è fatta di
varietà, differenze, stimoli provenienti dalle difformità.
Cosa ti piace qualcosa di oggi, qualche artista o movimento?
Al piano di sopra c'è un video che abbiamo realizzato
a Roma assieme a Giorgio de Finis che è un antropologo
culturale che ha messo su una specie di museo che si chiama
MAAM, museo dell'altro e dell'altrove ed è situato in
una fabbrica occupata sulla via Prenestina che è diventata
luogo collettivo di eventi, dove si radunano persone che a cielo
aperto producono ogni genere di attività. Una barriera
corallina fatta di sovrapposizione di opere e graffiti.
Franco Bunuga
Mangiare e bere/
Il gusto ribelle per la vita
Reale tragedia dell'uomo
è la demonizzazione del piacere.
Marguerite Yourcenar
Cucina sfrontata, impudente, ribelle alle convenzioni del
gusto. Le cuoche ribelli (DeriveApprodi, Roma, 2013,
pp. 512, € 20,00), offre un punto di vista interessante
sul tema dell'alimentazione, specie in un periodo storico come
il nostro, in cui il cibo è merce-spazzatura per servi
o vacua e scintillante rappresentazione di status symbol. Una
ribellione che affonda le sue radici nella cultura materiale,
nella convinzione che non esista libertà che non contempli
quella dei sensi. E che – cosa più importante –
non esista possibilità di piacere senza libertà.
In
netta contrapposizione con la contemporanea tendenza all'innovazione
culinaria fine a se stessa che, nella maggior parte dei casi,
si risolve in una minimale quanto asettica rappresentazione
di sapori, un effimero tentativo di saziare la noia insaziabile
di pochi eletti consumatori.
Tre diari anonimi redatti rispettivamente da una prostituta
parigina negli anni venti del secolo scorso (La cucina impudica:
ricette segrete di una donna di mondo rivelate a chi intenda
diventarlo), da una militante anarchica duramente la guerra
civile spagnola (La cucina spagnola ai tempi della guerra civile.
Ricette e ricordi), da una spartachista tedesca ai tempi della
repubblica di Weimar (Storia di una cellula spartachista al
Bauhaus di Weimar. Con un ricettario di cucina tedesca).
Negli scritti le tre donne affiancano aneddoti personali, ricordi,
incontri e racconti di azioni politiche a ricette, complete
di elenchi di ingredienti e metodi di cottura, condimento e
guarnizione. Ogni ricetta “con innumerabili allacciamenti,
sorprendenti ribalte e pruriginose seduzioni, ti riporta alle
tante (grazziaddeo) piccole morti della cognizione della qualità
e del gusto, alla cultura ribelle e immoralista”.
Un vero e proprio ricettario del Novecento europeo, declinato
nelle specifiche tradizioni nazionali delle tre cuoche, inneggiante
al desiderio di vita, alla passione e alla creatività
a dispetto delle tragedie, dei totalitarismi, della paura che
fanno da cornice ai diari.
Dai piatti ammalianti della parigina, utilizzati alla stregua
di vere e proprie armi di seduzione, agli slanci passionali
della spagnola, spesso capace di invenzioni sorprendenti a partire
da un'estrema povertà di materie prime. Per giungere
alle creazioni tipicamente nordiche della “cuoca rossa”,
che attraverso i suoi piatti vuole contribuire al germogliare
di nuove idee di giustizia sociale.
Frittelle impastate di lacrime prima della partenza per una
pericolosa azione di sabotaggio, languide omelette per sedurre
un amante ritroso, zuppe calde per curare i feriti, budini per
calmare gli animi durante un'assemblea, torte di frutta per
lenire la malinconia. Il cibo intriso di vita e di passione,
“anarchia cucina e vini come il sangue”.
Ricette peraltro riproducibili piuttosto agevolmente (parola
mia), anche grazie alle note del curatore - a sua volta anonimo
- che interviene per adattare le ricette e i tempi di cottura
adeguandoli alle nuove apparecchiature di cucina.
Non potevano mancare le prefazioni di Luigi Veronelli, enogastronomo
anarchico per il quale buon cibo e buon bere – in considerazione
delle dinamiche culturali ed economiche che sottendono –
sono un modo per contrastare il degrado sociale e la massificazione
della sensibilità conseguente alla globalizzazione. “Le
cuoche ribelli” può in questo senso rappresentare
un buon esercizio, un allenamento alla sensibilità dei
sensi che già di per se è atto di ribellione.
Scrive Veronelli rivolgendosi idealmente ad Hannah, la “cuoca
rossa”: “la vita è fondata sulle passioni
che abbiamo vissuto e che viviamo. Più sintetico: so
che i gesti con cui i boccioli si schiudono al mattino evidenziano
– unica cosa – l'affermazione della vita e della
morte”.
Marta Becco
Anarchici italiani/
All'attenzione della polizia
Il
nuovo volume di Giorgio Sacchetti Carte di Gabinetto. Gli
anarchici italiani nelle fonti di polizia (1921-1991), (La
Fiaccola, Noto, 2015, pp. 300, € 20,00) - che, vale sottolinearlo
per porre in luce un percorso di studio costante da parte dell'Autore,
si colloca in stretta continuità con la prima edizione
che si fermava al 1966 - è un testo che, pur non volendo
essere una storia (o una delle possibili storie) dell'anarchismo
italiano nel '900, si iscrive in una prospettiva di ricostruzione
certo tradizionale, come sono le carte di polizia, ancora portatrice
di interessanti risultati sia dal punto di vista della ricerca
in senso stretto, sia delle prospettive che un simile approccio
offre a successivi interventi di studio e di interpretazione.
Se infatti è chiaro come la lettura delle fonti istituzionali
e di controllo rispetto a un movimento così particolare
come quello anarchico, possiede la criticità di fondo
di essere parziale e potenzialmente distorsiva della realtà
(così come è ben chiaro nell'impostazione del
volume), è altrettanto vero che in questa miriade di
informazioni, veline e segnalazioni relative al “pericolo”
rappresentato dal mondo anarchico e libertario (non sempre ben
chiaro agli estensori dei rapporti e delle comunicazioni, e
sovradimensionato dagli stessi nei suoi aspetti quantitativi
rispetto alla realtà del movimento soprattutto nella
seconda parte del '900), Sacchetti riesce – muovendosi
con esperienza, ma soprattutto con le accortezze e la sensibilità
dello storico – a fornire una serie di spunti e altrettante
strade per identificare tracce e mappe dell'anarchismo italiano.
Lo spoglio sistematico delle carte d'archivio, il loro posizionamento
nel contesto della storia italiana e del movimento, non rappresentano
quindi solo un faticoso, affascinante e ben condotto lavoro
di ricerca sul campo, ma anche una base importante per individuare
chi sono gli anarchici, ma anche dove e attraverso cosa il movimento
riesce ad esprimersi. I risultati cui giunge Sacchetti sono
quindi non solo positivi per l'arricchimento che offre del quadro
generale della storia dell'anarchismo italiano in particolare
per il secondo dopoguerra, ma anche molto interessanti sia per
le possibilità di ricerca che apre, sia per gli spunti
di interpretazione e riflessione che emergono lungo la lettura
del suo lavoro, e che ci offre.
Dagli Arditi del Popolo agli anni '90 del XX secolo emergono
così non solo i molteplici e continui interessi delle
istituzioni nei confronti degli anarchici (“attenzionati”
– si direbbe oggi – in modo particolare e con tutti
i mezzi a disposizione, con costanza e con estrema dovizia di
informazioni alcune molto specifiche e precise, altre del tutto
illogiche o infondate), ma anche tutta una serie di spunti che
consentono di seguire strade e percorsi, individuali e collettivi
al tempo stesso, in grado di raccogliere le diverse generazioni
di militanti, talvolta contrapposte nei modi di intendere la
teoria e la pratica dell'anarchismo, e le diverse espressioni
assunte dal movimento e che lo hanno caratterizzato: dal sindacalismo
al problema dell'organizzazione; dal controllo poliziesco agli
sforzi di collegamento a livello nazionale e internazionale;
dalla lotta contro ogni forma di fascismo all'opposizione al
comunismo ed agli imperialismi; dall'antimilitarismo all'obiezione
di coscienza; dalla propaganda orale agli sforzi per sostenere
la propria stampa.
Il volume inizia dalla sconfitta di fronte al fascismo, segnalando
la partecipazione anarchica alle prime forme di Resistenza armata
contro la violenza fascista. È questa forse la storia
più conosciuta ma che nell'impostazione che ci offre
Sacchetti, collocandola nel lungo periodo e nelle fonti istituzionali,
permette ancora di essere studiata e approfondita proprio attraverso
la continuità degli insediamenti libertari in Italia.
La seconda e la terza parte del volume sono dedicate agli anni
che vanno dall'immediato secondo dopoguerra alla metà
degli anni Sessanta, considerati giustamente uno snodo cruciale
nella storia degli anarchici, registrabile in modo puntuale
attraverso le carte istituzionali e di polizia, ed al periodo
che ci accompagna agli anni Novanta. È in queste due
parti che – complessivamente – si esprime appieno
il senso dello studio e la sua continuità rispetto alle
pagine iniziali del volume. Pagine che descrivono, sotto molti
punti di vista, la ricerca di una risposta a cosa abbia effettivamente
rappresentato il movimento agli occhi dello Stato negli della
ricostruzione e dell'affermarsi della Repubblica dei partiti,
negli scenari della guerra fredda ma anche della strategia della
tensione e del terrorismo.
Uno fra i molti elementi di interesse del volume è rappresentato
dal disegno che offre di una geografia del movimento, considerato
lungo un arco di tempo molto lungo, in grado di confermare in
modo puntuale la continuità dello stesso nelle aree a
più tradizionale diffusione, ma consentendoci - in più
- di identificare sia il suo modificarsi (soprattutto dagli
anni Cinquanta in poi), sia l'individuazione di nuove zone di
penetrazione territoriale o sociale. Ci troviamo così
di fronte ad una descrizione dettagliata dell'anarchismo lungo
la penisola che – pur nel contesto delle fonti di polizia
- offre uno spaccato delle sue tante articolazioni territoriali
e dei tanti temi di lotta, che l'autore pone in parallelo con
i passaggi più importanti vissuti in quegli anni dal
movimento (congressi, convegni, scissioni, nuove sigle, strumentalizzazioni
e controlli serrati).
Un secondo aspetto è lo spazio dedicato agli anni della
Repubblica ed in particolare al periodo dagli anni '60 in poi,
considerati come uno spartiacque generazionale. Il dispiegarsi
del nuovo protagonismo giovanile, trova un movimento in difficoltà,
che non coglie fino in fondo e non è pronto alla ripresa
di quei temi libertari che sempre più spesso sembrano
emergere dalla contestazione e dai giovani che, a loro volta,
guardano all'anarchismo. Una ripresa di attività lungo
parole d'ordine e nel solco di temi tradizionali che sembrano
– nella lettura di Sacchetti – congiungere la vecchie
e nuove generazioni, entrambe poste di fronte all'esplodere
della strategia della tensione e all'avvio della destabilizzazione
stabilizzante, con tutto ciò che Piazza Fontana, Pinelli
e gli avvenimenti successivi hanno rappresentato per il movimento
e per quella storia della Repubblica, all'interno della quale
strumentalizzazioni e stereotipi (evidenti nelle carte utilizzate
dall'autore) si rincorrono nel disegnare ciò che si vuole
far apparire, e che ancora oggi – sotto tanti punti di
vista – aspetta di essere chiarito.
Un terzo punto è il tentativo che Sacchetti compie nel
cercare di individuare nuovi terreni di azione che gli anarchici
sembrano percorrere. Su questo aspetto – peraltro centrale
nel più recente dibattito sull'anarchismo italiano a
partire soprattutto dagli anni dei movimenti in poi –
c'è ancora molto da fare, partendo dalla riflessione
se possa effettivamente parlarsi di nuovi territori dell'anarchismo;
certo il manifestarsi in quegli anni di pratiche libertarie
diffuse è di per sé sintomo di un forte interesse
delle nuove generazioni verso i concetti propri dell'anarchismo,
integrati con temi talvolta solo tangenzialmente toccati dal
movimento. Un rinnovamento quindi, ma da ricercare e inquadrare
all'interno di un percorso non sempre riconducibile ad una autonoma
capacità propositiva degli anarchici, tuttavia capace
di coinvolgerli almeno parzialmente. Ci veniamo così
a trovare di fronte, nello stesso tempo, ad una dimensione libertaria
del '68, ma - come giustamente sottolinea Sacchetti - “culturalmente
etero prodotta rispetto all'anarchismo tradizionale”.
Un cenno infine non si può non fare a quello che sembra
essere, nel volume, un tracciato di fondo lungo il quale sembra
muoversi l'anarchismo italiano. Mi riferisco al progressivo
trasversalismo verso altre espressioni ed esperienze politiche
e sociali coeve, che appare lungo il volume, e che – nel
bene o nel male – nel corso dei decenni coinvolge gli
anarchici, interagendo con le radici tradizionali del movimento.
Un trasversalismo che sembra tendere così a modificare
il quadro tradizionale di riferimento, per come questo si era
definito nell'immediato primo dopoguerra e poi di fatto recuperato
nel secondo, con in mezzo il fascismo, la cesura spagnola e
la guerra. È anche questo un tema “aperto”,
da approfondire, inquadrandolo per quello che - storicamente
– ha rappresentato nel movimento, e nel suo frequente
rincorrere un rinnovamento ed una attualizzazione in grado di
rilanciarlo senza perdere le radici.
Pasquale Iuso
Parkinson/
Non compassione, ma aiuto per l'autonomia(possibile)
la malattia aiuta ad ascoltare
i rumori della vita
Eppure non ti avevo invitato (di Maurizia Catozzi,
qp Edizioni, 2015, pp.104, € 12,90) vuole essere testimonianza
di un'esperienza in cui il limite della malattia diventa opportunità,
rivelazione di doti profonde inaspettate, occasione per frugare
nel proprio vissuto e scovare pieghe umettate da un balsamo
lenitivo dalla grande forza resiliente. Maurizia Catozzi, classe
1954, conosce prima dei sessant'anni il morbo di Parkinson.
Da lei definito con ironia e distacco Mr. P, l'ospite indesiderato,
invadente e subdolo si impone come invitato e suo compagno di
viaggio occupandosi delle più piccole azioni quotidiane,
per ostacolarle.
Conoscere
l'approfittatore sconosciuto è la prima mossa per avversarne
l'operato. Così, come in una partita a scacchi giocata
in difesa, da dilettante, Maurizia può studiare con precisione
ogni contromossa. Allo sconforto per non riuscire allacciarsi
un bottone della camicia o la stringa delle scarpe, impugnare
una penna, un pennello, parlare, camminare, oppure all'umiliazione
per la lotta quotidiana contro le barriere di un'architettura
ancora troppo distratta - l'assenza di corrimano lungo le scalinate,
salire su un autobus o un treno - reagisce con la forza della
volontà e la perseveranza nello sforzo.
Risponde alla condanna di Mr. P circondandosi di complicità.
La scrittura, per dare forza alle parole delle sue poesie, con
il segno della penna impresso a fatica su fogli a righe alte
e quadretti grandi. La pittura, per dipingere la bellezza e
usare il pennello con mano ferma. Il canto, per esercitare la
voce a non rimanere muta. Il ricamo, la soddisfazione nelle
piccole cose lavorate all'uncinetto imparato da piccola sui
gradini di casa, come esercizio per la motricità fine
delle mani per non renderle rattrappite e inservibili.
La musica, e come compagno di ballo un manico di scopa, per
mantenere il ritmo e una postura più aperta, spalle dritte,
e passi lunghi come quelli dei cavalli della copertina del libro,
da lei dipinti proprio per contrasto ai passetti corti imposti
da Mr. P. Poi le lunghe passeggiate, con la dignità del
bastone e quella fierezza di chi combatte ogni giorno: “raddrizzar
la schiena aprendo il petto e a testa alta camminare togliendo
a lui un po' di quel tuo spazio che si era preso”.
Con la malattia, il tempo subisce accelerazioni, il corpo invecchia
prima. Il tempo è anche dilatato, serve più tempo
per le solite azioni in apparenza prive di significato. Il rapporto
con il tempo cambia: i ritmi vanno adeguati alle proprie necessità.
Ma il tempo della memoria non rimane compromesso: attingere
ai ricordi e la consapevolezza del proprio vissuto diventano
energia per affrontare le insicurezze del presente.
Il tempo dedicato agli altri, inoltre, rappresenta un'altra
reazione al potere della malattia: la lettura ai bambini di
racconti e filastrocche, oppure disegnare personaggi dei cartoni
animati da far colorare ai bambini autistici. Organizzare incontri,
convegni per conoscere i risultati della ricerca di un morbo,
ancora poco conosciuto. Così, per chi vuole accoglierla,
la malattia apre le finestre, spalanca gli occhi sul mondo,
favorisce un fine sguardo introspettivo e ribalta i ruoli. Parlando
del figlio: “accompagnandomi al mercato, mi fa camminare
dalla parte del muro, come facevo io con lui da piccolo”.
Il libro si rivolge non solo ai malati di Parkinson, ma anche
ai loro familiari, perché siano una presenza discreta
e invisibile. Chi è malato non ha bisogno di compassione,
ma essere aiutato a diventare autonomo, per quanto gli sarà
possibile. Cento pagine di gradevole lettura arricchite da poesie
dell'autrice, per dare coraggio a chi deve affrontare momenti
di precarietà e non sprofondare nel baratro della depressione
in agguato, pronta a succhiare le energie vitali. Ma sempre
impugnando l'arma dell'autoironia, senza prendersi troppo sul
serio per sfidare, con più leggerezza, i pesanti affanni
del vivere.
Claudia Piccinelli
L'associazione “Azione Parkinson Brescia” devolverà
parte del ricavato dalle vendite del libro alla ricerca sulla
malattia di Parkinson. |