trasformismo
Il fascismo cambia pelle
di Giuseppe Ciarallo
La nuova destra italiana tra continuità col passato e trasformismo.
“Se conosci il nemico e te stesso, la vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue possibilità di vincere e perdere sono pari. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia”. Sorda all'ammonimento di Sun Tzu – lo stratega e filosofo cinese del quinto secolo a.c., autore di uno dei più importanti trattati di strategia militare, L'arte della guerra – l'odierna (sedicente) sinistra italiana si è da tempo avviata sui sentieri della inevitabile sconfitta, avendo smarrito le solide radici che la legavano alle classi popolari e al mondo del lavoro, preferendo a essi il soffocante abbraccio del verbo liberista e sottovalutando, o fingendo di ignorare, la pericolosità di una destra sempre più aggressiva e rinfrancata dal disfacimento degli avversari di un tempo nonché dalla crisi economica mondiale in atto.
Comunque, per quei pochi che seguendo gli insegnamenti del generale cinese sono ancora intenzionati a lottare contro il fascismo (in tutte le sue nuove forme e manifestazioni), un buon mezzo per conoscere il nemico è rappresentato dalla lettura di un bel po' di libri, tra i quali l'intera produzione di Saverio Ferrari (Fascisti a Milano – da Ordine Nuovo a Cuore Nero, I denti del drago – storia dell'internazionale nera tra mito e realtà, Le nuove camicie brune – il neofascismo oggi in Italia, editi da ed. Biblioteca Franco Serantini, e Da Salò ad Arcore – la mappa della destra eversiva, ed. Omissis), il prezioso saggio di Matteo Luca Andriola (La nuova destra in Europa – il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, ed. PaginaUno), che ci offre nuove coordinate per comprendere i complessi riferimenti ideologici della nuova destra europea, e soprattutto Fascisti immaginari – tutto quello che c'è da sapere sulla destra, ed. Vallecchi, i cui autori Luciano Lanna e Filippo Rossi ben conoscono l'universo di cui trattano provenendo proprio dalle file della destra (giornalista già direttore responsabile del Secolo d'Italia il primo e giornalista ed ex direttore del periodico online della fondazione finiana FareFuturo il secondo).
In quest'ultimo volume, attraverso una sorta di sistema enciclopedico, in stretto ordine alfabetico i due autori danno una chiave di lettura del tutto nuova del fenomeno neofascismo. Cercando di recuperare quella supremazia culturale che è stata appannaggio della sinistra dal secondo dopoguerra agli anni '90 del secolo scorso (quando si affermò il fenomeno apparentemente a-politico del berlusconismo) i neodestri hanno rastrellato e riassemblato in questi ultimi decenni tutto il materiale (loro ma anche pescando a piene mani nelle tasche del nemico, come vedremo) in campo giornalistico, antropologico, psicologico, esistenziale, storico letterario, fino a creare una sorta di Pantheon che contiene un insieme di simboli, personaggi, miti, icone, suggestioni che costituiscono l'universo ideologico del neofascismo italiano.
A tal proposito non si può non rimandare al già citato saggio di Matteo Andriola. Ne La nuova destra in Europa – il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, l'autore, storico di ispirazione marxista, offre nuove coordinate per comprendere i complessi e contraddittori riferimenti della nuova destra europea, tra i quali spicca a sorpresa il nome del pensatore antifascista Antonio Gramsci, dimenticato dagli eredi del Partito Comunista Italiano e recuperato dagli ideologi neofascisti, i quali non hanno trovato alcun ostacolo nel rileggere e reinterpretare a loro modo le sue teorie, in modo da poterle presentare con la paradossale e ossimorica definizione di “gramscismo di destra”, dove Gramsci viene politicamente depotenziato, neutralizzato, e ridotto alla generica sottolineatura del ruolo svolto dalla cultura e dalla società civile nella strategia di costruzione del consenso politico.
Ma Gramsci non è certo l'unica voce, contenuta nell'enciclopedia del neofascismo, che provoca un tuffo al cuore del lettore che affronta lo studio del testo in senso “sun-tzuiano”. Inspiegabilmente vi compaiono personaggi che mai più ci saremmo aspettati di trovare nel Pantheon fascista, e che sono indiscutibilmente parte della storia e delle suggestioni proprie dell'opposto raggruppamento: Fabrizio De André, Giorgio Gaber, e addirittura Ernesto Che Guevara. Per non parlare, nell'ambito dei personaggi di fantasia, di Corto Maltese, il marinaio anarchico e sognatore nato dal genio e dalla matita di Hugo Pratt. Ora, lasciando per un attimo da parte Gramsci e Che Guevara, Gaber e De André, ma come può essere venuto loro in mente di “arruolare” tra le proprie fila un personaggio come Corto Maltese? Madre zingara, prostituta, padre marinaio giramondo, patrigno ebreo, Corto Maltese muore – o quantomeno di lui si perdono le tracce – in Spagna durante la guerra civile, dove l'avventuroso marinaio è andato a combattere con l'esercito repubblicano, inquadrato nelle Brigate Internazionali. Che ci azzecca Corto Maltese con i fascisti? Mistero.
Nuovi immaginari fascisti
Ma c'è un altro aspetto che mi ha particolarmente colpito leggendo Fascisti immaginari (che, per inciso, a mio avviso sarebbe stato più corretto titolare Immaginari fascisti), e cioè un elemento che aggiunge ulteriore confusione: la fascinazione che l'universo neofascista sembra dimostrare – per una sorta di vergogna per la propria ideologia? Per un maldestro tentativo di camaleontismo? Per volontà di sfuggire alla definizione scomoda di se stessi o alla pessima fama guadagnata nel tempo? – nei confronti dell'anarchia.
Più di un fascista, parlando di sé, ama definirsi “anarchico”. Giuseppe Berto, lo scrittore che ha rivendicato lungo tutto il corso della sua vita il suo essere fascista – ricoprendo la carica di segretario politico del Fascio dal '41 al '42, dichiarandosi “non cooperante” nel campo di prigionia texano nel quale era recluso (i non cooperanti erano i militi che avevano rifiutato la resa, decidendo di continuare la guerra fascista anche da prigionieri) – si autodefinisce “anarchico per rassegnazione e per disgusto”; Gualtiero Jacopetti (regista dei documentari molto in voga negli anni '70, sui quali pende non senza ragione l'accusa di cinismo e parzialismo colonialista, Africa addio e soprattutto Mondo cane) si sente “sentimentalmente anarchico”; Luciano Secchi, il Max Bunker noto per aver dato vita con Carlo Raviola, in arte Magnus, allo straordinario personaggio dei fumetti Alan Ford, da sempre schierato convintamente a destra (il suo nomignolo Bunker deriva dal luogo in cui Hitler si rifugiò negli ultimi giorni della sua vita), si dice “anarchico individualista”; persino Leo Longanesi, scrittore ma soprattutto fondatore dell'omonima casa editrice e della rivista di destra Il Borghese, che nel 1926 pubblicò per la Vallecchi Il vademecum del perfetto fascista, e che pare abbia coniato il motto “Mussolini ha sempre ragione”, persino lui, dicevo, è stato definito “un anarchico romagnolo pieno di contraddizione” e uomo “dall'energia fortemente venata di anarchismo”; per non parlare di Jack Kerouak, autore cult della Beat Generation con il suo On The Road, e dello scrittore/viaggiatore Bruce Chatwin che, suo malgrado (e a sua insaputa), vengono definiti “anarchici di destra”.
Ben poco anarchismo
La cosa non è nuova, però. Già Guglielmo Giannini, commediografo e giornalista napoletano che nel febbraio del 1946 fondò il partito “Fronte dell'Uomo Qualunque” amava autodefinirsi “anarchico”. Ora, se è vero che la sua posizione nei confronti della guerra fu di palese e accorata ostilità, e che questo suo antimilitarismo fu accompagnato da una vera e propria demolizione di valori quali la patria, l'eroismo e l'onore, lo è altrettanto il fatto che questi sentimenti esplosero in lui alla morte dell'amato figlio Mario, “assassinato insieme a milioni di altri innocenti esseri umani da alcuni pazzi criminali che scatenarono la guerra”, come si può leggere nella dedica del libro La folla, considerata la bibbia del qualunquismo. Ma oltre a questo viscerale antibellicismo, le restanti teorie di Giannini avevano, naturalmente, ben poco, anzi nulla di anarchico.
Ma la medaglia d'oro per il maggior tasso di ambiguità spetta senza alcun dubbio a Indro Montanelli, il giornalista simbolo della destra italiana (almeno fino al momento in cui si è trovato ad essere d'intralcio – per questioni di prestigio personale più che per divergenze politiche – al padre padrone degli ultraconservatori di casa nostra, e cioè Silvio Berlusconi) il quale ebbe a dire di sé “in me c'è un fondo anarchico” e “sono un anarchico approdato al liberalismo”. Paradossale per un personaggio la cui storia sia personale (si arruolò volontario nell'esercito fascista che invase l'Etiopia nel 1935, fu sottotenente in un battaglione coloniale di ascari, sposò una bambina eritrea di dodici anni, comprata e poi ceduta, al suo ritorno in Italia, al generale Alessandro Pirzio Biroli) che giornalistica (fu fondatore e direttore, a partire dal giugno 1974, de Il Giornale, quotidiano che nelle sue intenzioni doveva esprimere le istanze della borghesia, inserendosi nel dibattito politico su orientamenti chiaramente di destra), è stata sempre caratterizzata da scelte, come abbiamo visto, indirizzate verso una rotta diametralmente opposta all'ideale anarchico. Forse la definizione più appropriata dell'illustre giornalista fiorentino, la dà Corrado Stajano in un bellissimo passo de La città degli untori (Garzanti, 2009), libro nel quale viene raccontata Milano, i suoi luoghi e i personaggi che nel bene e nel male a essa appartengono: “Forcaiolo anarcoide, modello del fascista che in un fantasioso domino di date apocrife cancella il suo passato, reazionario travestito da vecchio saggio, abile nell'apparire controcorrente, italiano selvaggio e acuto, giornalista di arcani istinti, è riuscito a render credibile la favola di essere uno che gliela canta chiara ai potenti dei quali è al servizio”. Curiosamente anche Stajano, che di Montanelli traccia un profilo tutt'altro che edificante, usa la parola “anarcoide”, ma l'accezione che viene attribuita al termine è quella di “fuori dagli schemi, originale, senza rigide sovrastrutture ideologiche”.
Questo bisogno estremo di nascondere i propri veri istinti dietro il velo di un nobile ideale non ha toccato solo nomi importanti del passato, ma è proprio anche di personaggi dello star system – anche minori, al limite dell'insignificanza – con arie e velleità da intellettuali, del presente. Luca Barbareschi, attore da sempre schierato a destra (famosa la sua foto sottobraccio a Gianfranco Fini, in prima fila durante un corteo di Alleanza Nazionale), dopo un'analisi tutto sommato condivisibile sullo stato pietoso in cui versa la cultura in Italia (“la sinistra, con il suo carattere innovativo, è sempre stata dalla parte della cultura e dell'arte: musica, cinema, teatro. Un artista deve essere sempre innovatore e non conservatore. [...] Oggi i rapporti si sono rovesciati, la sinistra rappresenta la parte conservatrice”) conclude con uno scoppiettante “sono stato sempre un anarchico e mi riconosco nei valori della destra”.
Adriano Celentano, le cui doti canore e di showman non si discutono, ma che in quanto a messaggi non può essere che definito il qualunquista per eccellenza (per non voler rivangare la reazionaria canzone con la quale vinse il Festival di Sanremo nel 1970, Chi non lavora non fa l'amore, vero e proprio inno al crumiraggio in un periodo di contestazione giovanile e di lotte di fabbrica feroci, che lo resero inviso al pubblico dei giovanissimi e non solo) è unanimemente qualificato come “spirito anarchico”, “anarchico sentimentale” e “il più simpatico e anarchico conduttore”. Persino il giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco, con il curriculum che si ritrova (negli anni scrive per la rivista di destra Proposta, per il Secolo d'Italia, organo del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, per Il Giornale di Feltri, per Il Foglio di Ferrara, per Panorama, anche se non disdegna puntate sull'altra sponda scrivendo per Repubblica e per Il Fatto Quotidiano) da Edoardo Sylos Labini viene identificato come “anarchico del pensiero”.
Per non parlare del critico d'arte malato di presenzialismo televisivo, l'arrogante, insolente tuttologo del nulla, Vittorio Sgarbi, che solo qualche tempo fa in pieno dibattito parlamentare e non solo, sull'estensione dei diritti – di cui oggi possono godere solo le famiglie tradizionali in regola con i sacramenti dettati da Santa Madre Chiesa – alle coppie di fatto, indifferentemente se omo o etero, ha perso una buona occasione per tacere profferendo la banalità secondo la quale “la famiglia è un padre e una madre. E una madre non può essere uno con la barba o i baffi”. Dimostrando peraltro di non essere ferrato nemmeno nella propria materia, la storia dell'arte, ignorando l'esistenza della stupenda tela di José de Ribera, La mujer barbuda, conservata nell'Hospital de Tavera in Toledo, nella quale campeggia una tradizionalissima coppia formata da un marito e da una moglie, la nobildonna Magdalena Ventura, mentre allatta il suo pargolo, mammella ben in vista come anche la foltissima peluria che le incornicia il viso, immagine che la fa somigliare tanto a un hipster di quelli in voga ai giorni nostri. Finanche Sgarbi, dicevo, per il volgo è un fulgido esempio di “spirito anarchico e provocatore”. E si potrebbe andare avanti all'infinito, visto che di esempi di tal genere ve ne sono a bizzeffe.
La minaccia neofascista nella confusione
Tutto ciò sta a dimostrare che c'è molta confusione intorno al termine e al concetto di anarchia: per i più è sinonimo di caos, di disordine assoluto (ignorando che in realtà trattasi del suo esatto contrario, e cioè un ordine perfetto, ineluttabile quando regnano la giustizia sociale e l'uguaglianza assoluta tra gli uomini), per altri è la maschera di bell'aspetto dietro la quale celare una vergogna, un peccato originale, è il comodo paravento utilizzato per dissimulare la propria impresentabilità (come se, paradossalmente, a un anarchico fossero concesse libertà e licenze che ad altri sono negate).
È evidente che sarebbe opportuno ricominciare a intervenire incisivamente nel dibattito in corso nelle odierne società, correggendo l'errata percezione e colmando le lacune storico-filosofiche, nonché lessicali, riguardo all'ideale anarchico. Magari riproponendo un testo fondamentale come Al caffè, di Errico Malatesta, sorta di ABC che attraverso lo strumento del dialogo calmo ed equilibrato spiega a interlocutori di estrazione popolare, con dichiarato intento educativo e con parole semplici, la via (e i metodi) per ottenere una società di uguali, senza sfruttatori né sfruttati, senza autoritarismi di alcun genere, senza istituzioni e centri di potere che impongano regole, spesso contrarie all'utilità comune e al buon senso, con la forza.
È tra le crepe di questa confusione, anche linguistica, che si insinua più subdola che mai la minaccia neofascista, a volte occultata da una comprensibile disaffezione popolare, o addirittura da rigetto, per la politica di Palazzo. La storia è stata artatamente distorta, posta in malo modo nel dimenticatoio, gli eventi sono stati gettati in un frullatore e il risultato è un magma indistinto, insapore, incolore, ma dall'odore nauseante, una poltiglia che non permette di riconoscere più chi ha fatto cosa, appiattendo i giudizi ed equiparando le parti in causa (come non ricordare a tal proposito le parole del tutto fuori luogo dell'ex presidente della Camera Luciano Violante che nel corso dell'intervento per il suo insediamento, in un impeto di pacificazione nazionale si spinse così in là da mettere sullo stesso piano le ragioni dei partigiani – che combatterono contro l'invasore nazista e i suoi alleati repubblichini – e quelle dei “ragazzi di Salò”, che dei tedeschi erano alleati e cani da guardia, e che si macchiarono di inenarrabili violenze, definendoli “giovani animati di estremo amore per la Patria”).
L'antifascismo non va archiviato
In questo clima di trionfo del revisionismo, non sono pochi a sostenere che fascismo e antifascismo siano termini del passato, appartenenti a quel secolo che qualcuno, sperando in una memoria di pari lunghezza, ha voluto definire “breve”, termini che non ha più senso neppure pronunciare. Eppure oggi ci sono giovani che si definiscono “fascisti del terzo millennio”, e come l'ideologia alla quale si rifanno, sono violenti, xenofobi, omofobi, razzisti. Dunque, non è ancora arrivato il momento di archiviare la pratica dell'antifascismo, ma di attualizzarla rendendola efficace per le emergenze correnti. In pratica, un antifascismo del terzo millennio.
L'humus nel quale il neofascismo cresce e si sviluppa è costituito da tutte quelle persone che, nel corso di una conversazione, non si sa perché si sentono in obbligo di precisare che “non fanno politica”, accompagnando quasi sempre questa affermazione con l'aggiunta di essere “né di destra, né di sinistra” (a tal riguardo mi piace ricordare quanto sostenuto dallo scrittore francese Serge Quadruppani, il quale afferma che “Ci sono due modi di essere “né i destra, né di sinistra”: un modo di destra e uno di sinistra”). Alcuni di essi, per un madornale equivoco che però ha almeno un precedente storico riconosciuto, quello del Fronte dell'Uomo Qualunque, confondono il loro qualunquismo con il rifiuto di ogni autorità costituita, sistema dei partiti incluso, e si autopromuovono ad “anarchici”. Per esperienza personale tendo a diffidare di tali soggetti i quali, politica la fanno eccome, e se è assolutamente vero che non sono di sinistra, è altrettanto certo che tendenzialmente sono quasi sempre di destra.
Ora, se fare politica significa partecipare attivamente alla vita della comunità, proponendo secondo il proprio pensiero scelte per migliorare l'esistenza di tutti coloro che a quella collettività appartengono, com'è possibile che alcuni individui possano non voler “fare politica”? Ogni atto umano è inevitabilmente politico: informarsi quotidianamente scegliendo la fonte delle notizie, iscrivere il proprio figlio a una scuola pubblica o privata, propendere per l'utilizzo di fonti energetiche rinnovabili o per il nucleare, attuare o meno la raccolta differenziata dei rifiuti, decidere di pagare o di evadere le tasse, ma anche essere solidali o infischiarsene di chi è bisognoso, essere pro o contro le guerre, pro o contro la pena di morte, tutte queste sono, consapevolmente o meno, azioni politiche. Dunque, è impossibile “starne fuori”, scegliere di essere indifferenti, pensando di cavarsela non sentendo su di sé il peso della colpevolezza in caso di eventuali scelte errate o di sconfitta. Non è così.
Anche non scegliere è una scelta
Il non scegliere ha comunque un peso ed è quasi sempre
la forza che fa pendere la bilancia dalla parte sbagliata. “L'indifferenza
opera potentemente nella storia. – scriveva Gramsci –
Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è
ciò su cui non si può contare, è ciò
che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti;
è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e
la strozza”.
È un'illusione quella di pensare di non schierarsi, e
ben lo dice il compianto Fabrizio De André nella Canzone
del maggio, quando rivolgendosi alla folla disinteressata
urla il suo personalissimo j'accuse: “per quanto
voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti!”
Giuseppe Ciarallo
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