Un caso a parte: i Kina
L'ultima canzone che trovate in questo libro riassume perfettamente
il groviglio di frustrazioni, malessere, rabbia e rimpianti
che ci si porta ancora dentro oggi, qui, adesso. È “Questi
anni”, scritta da Gianpiero dei Kina, una canzone che
occupa un posto del tutto speciale nel cuore e nella testa di
tanti compagni. È una canzone di ieri che canta di oggi,
un'altra porta aperta da attraversare per non dimenticare. È
la canzone che secondo noi, più e forse meglio di altre,
è riuscita ad andare dritta fino in fondo nel cuore della
bestia.
Stefano Gaggione, Nel cuore della bestia
Stefano Giaccone ed io descrivevamo così in “Nel
cuore della bestia” (ed. Zero in Condotta, 1996) una canzone
dei Kina: l'avevamo sentita e cantata tante e ancora tante volte,
da soli e in compagnia, versione elettrica oppure unplugged.
Nel libro raccoglievamo i nostri punti di vista, le nostre riflessioni
ed esperienze nel mondo della musica bastarda, aggiungendo al
mucchio dei pensieri una raccolta di ritagli da cassette, fanzine,
dischi e volantini. Desideravamo documentare e discutere sul
cortocircuito socioculturale innescato in Italia negli anni
Ottanta tra punk ed anarchia, e proprio quella l'abbiamo chiamata
una canzone speciale. Perché per noi era così:
un pizzico di tristezza, mista a consapevolezza e orgoglio.
La conoscete senz'altro anche voi, fa:
So ancora guardare in alto e perdermi nel cielo
mentre vibro assieme ad un torrente
e penso all'acciaio che ci stringe
Questi anni stan correndo via come macchine impazzite
li senti arrivare, ti volti e sono già lontani
ti chiedi cosa è successo
La rabbia di quei giorni brucia ancora dentro
ma forse tanto veleno poi è tornato dentro di noi
Gli altri stanno ancora ridendo e noi qui, a guardarci dentro
No, sono sempre io
non mi cambierete quello che ho dentro
forse ho un'altra faccia, ho più cicatrici di prima
sorrido un po' meno, forse penso di più
Non mi chiedere se ho vinto o se ho perso
non mi chiedere se ho vinto o se ho perso
Che sensazione strana incontrare Gianpiero Capra l'altro giorno:
mi sembrava di essere dentro a una di quelle storie televisive
con le macchine del tempo, dove ci si rivede da ragazzi per
qualche ora. È stato divertente: non certo il nostro
uno di quegli incontri dove ci si abbraccia occhi umidi sospirando
al cielo: “oh, com'eravamo giovani, allora!”, neanche
ci siamo messi lì a raccontare la strada disseminata
di sfighe e l'imbarazzo dei capelli bianchi, né a sorridere
ebeti davanti alle foto dei figli dentro lo smartphone.
Forse chi ci stava a guardare vedeva solo due ultracinquantenni
ingrigiti che scodinzolavano, ciascuno con i suoi sogni più
o meno infranti e le belle idee ancora accatastate nella cantina
sotterranea personale, ben chiusa a chiave. Lui suonava il basso
con i Kina, nel gruppo anche Alberto Vetrella chitarra e Sergio
Milani batteria; una trentina abbondante d'anni prima si era
tutti insieme a Torino, complici dell'incontro i Franti, poi
al Virus occupato a Milano per un concerto.
Di lì a breve i tre avrebbero registrato e fatto circolare
una cassetta con una dozzina di pezzi “Nessuno schema
nella mia vita”, la prima di molte uscite a venire.
Era roba davvero difficile da incasellare in un genere musicale
specifico: anarcopunk senz'altro come atteggiamento tiramenti
e sonorità, eppure ogni loro disco costituiva un episodio
decisamente a sé, un oggetto solare e speranzoso e luminoso
in quel periodo di dischi neri urlati desolatamente uguali,
i bambini morti di fame in copertina e il rumore delle bombe
dentro i solchi.
Del primo incontro, oltre al suono di quei pezzi semplici che
puntavano dritto al cuore mi era rimasta impressa la loro maniera
di muoversi, di parlare, di guardarti in faccia: eravamo differenti,
ma anche no. Forse era perché venivano dalla montagna,
da Aosta, e io invece dalla riva del mare. Oppure era solo perché,
anche se di poco, erano tutt'e tre più giovani di me
e il fatto di suonare era per loro proprio una questione di
sopravvivenza, mentre io invece avevo già dovuto imparare,
pagando cara la lezione, come ammorbidire gli spigoli. Collaboravo
già con la A/Rivista e mi è venuto spontaneo e
naturale proporli per un concerto collettivo con Franti e Contrazione
al convegno internazionale anarchico a Venezia; poi la cosa
come sapete s'è fatta, una serata memorabile di gioia
ruvida ed eccitazione. Me la sogno ancora ogni tanto, quella
sera.
Come
dicevo qualche riga fa, i Kina sono stati davvero un caso a
parte nel panorama punk anarchico italiano: mentre il grosso
del giro si sfaldava mettendosi in ginocchio davanti ai nuovi
miti hardcore americani oppure pogando all'antica gli anthem
inglesi, loro sono andati avanti per anni, dritti per la loro
strada. E non è stata solo una questione di canzoni da
inventarsi e dischi da fare: i Kina hanno mandato avanti fino
al 1997 il gruppo e Blu Bus, con ogni probabilità l'etichetta
discografica indipendente italiana più attiva, hanno
preso parte e/o fatto da colonna sonora praticamente a tutte
le manifestazioni e hanno suonato per chiunque gli abbia offerto
ospitalità e un po' di spiccioli per la benzina. Blu
Bus ha significato un sostegno forte e concreto a decine di
gruppi, non solo punk, che sono riusciti a pubblicare e diffondere
materiale che diversamente sarebbe potuto soltanto rimanere
sommerso. Senza Blu Bus e senza i Kina, senza Impact, Ariadigolpe,
Tempo Zero, Eversor, Inzirli, Teatro Quotidiano, Snowdrops,
Detriti …saremmo stati un paese senz'altro più
triste, più grigio, più silenzioso e spento.
Un passaggio di testimone
In metà del libro “Come macchine impazzite”
(ed. Agenzia X, 2015) Gianpiero racconta i Kina, cioè
quella che per lui e compagni era la vita normale, e che invece
per noi assomiglia di più a un'avventura.
Nell'altra metà del libro c'è pressappoco la stessa
storia ambientata in pressappoco gli stessi posti, raccontata
però da Stephania Giacobone, che ha 25 anni meno di Gianpiero
(e direi trenta meno di me). Non so quanto l'incastro tra le
due versioni sia naturale o artificiale, frutto cioè
di un qualche ragionamento redazionale, ma l'insieme funziona:
Stephania scrive assai bene una storia che comincia con un vecchio
volantino attaccato su un muro, storia che scopri essere “bella”
senza essere necessariamente esposta in uno stile “carino”,
e che trovo sarebbe potuta restare in piedi anche in maniera
autonoma.
Forse lo scritto da Gianpiero, preso da solo, sarebbe stato
sufficiente a realizzare un libretto smilzo (e veloce, diretto,
senza smarronamenti e giri inutili di discorsi: ecco, proprio
come le canzoni dei Kina). Mettiamo che ci sia stata l'intenzione
di creare un ipotetico passaggio di testimone nelle mani di
una generazione successiva, ma sta ultima frase quasi quasi
la cancello perché mi convince poco anzi niente. Se leggete
il libro capite il perché della pistola in copertina.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
|