La storia
narrata
Dante cantastorie
Narrazione,
ci torno spesso su queste pagine. Se vi è una grande
tradizione abbandonata che non è un problema estetico,
un avvicendarsi di mode e consuetudini, è questa: la
vocazione narrativa della canzone italiana.
È una vocazione profonda, radicata nelle ossa della poesia
popolare, conosciuta e studiata negli ambienti accademici, ostaggio
e preda degli armadi chiusi a tre mandate di chi costruisce
carriere e potere sul sapere di tutti.
È una vocazione però tristemente evitata dai cantautori
delle ultime generazioni: favole o racconti morali che fossero
“Marinella” e “Dolcenera”, “La
locomotiva” e “Piazza Alimonda”, “Titanic”
e “Il bandito e il campione”, assolvevano con stile
mitico, ironico, distaccato o metaforico all'intenzione di cantare
le storie ancora presente nella generazione di De André,
Guccini, De Gregori, per fare opera di poesia impegnata nel
reale, fare il punto sulla memoria.
Un popolo che non ha un nutrito numero di storie condivise è
un povero ammasso. Leggendo il più colto e da sempre
il più popolare, il più grande poeta della nostra
storia letteraria Dante Alighieri, si ha l'impressione che egli
compenda continuamente la minuta storia recente e, se invece
di interrogare Cleopatra o Didone, nel quinto canto dell'”Inferno”,
si attarda su una torbida vicenda di corna e sangue della cronaca
minuta, o più avanti nel quinto del “Purgatorio”,
distillando sei soli versi, perpetua ab aeterno la memoria
dell'ancor più misteriosa Pia dei Tolomei (e non cederemo
alla tentazione di costruire un ponte col moderno “femminicidio”),
lo fa anche perché i suoi versi si rivolgevano a un uditorio
(era recitato nei consessi popolari, e lo sapeva benissimo...)
in grado di cogliere i suoi più evasivi accenni.
Erano genti in grado di recepire e perpetuare le storie, quelle
di Dante... e noi, che di loro saremmo gli eredi? Che patrimonio
comune abbiamo? Quale scudo ci protegge dalla ruggine dell'oblio
generalizzato?
Muratori Carlo cantatore siciliano
Vi voglio segnalare la più recente opera di uno dei
migliori cantori d'Italia, lui si chiama Carlo Muratori, e il
disco di recentissima uscita si chiama “Sale”.
Muratori è un classico appartato della canzone italiana
attivo sin dalla metà degli anni '70 con un gruppo folk
come i “Cilliri”, poi autore, interprete e compositore
di dischi sempre nuovi e sempre intinti nella grazia di un uomo
di grandi intuizioni, generosa vena e sapienti collaborazioni
(felicissima quella con il genio dell'organetto Riccardo Tesi).
Muratori è un non-gattopardo, uno che non ricorre agli
aggiustamenti per vivere tranquillo, un uomo di cortesia d'altri
tempi, ma nei cui occhi brilla la fiamma di chi ha imparato
a vivere con la propria passione e il proprio orgoglio provando
a non farsene bruciare, a volte lottando a volte soffrendo,
sempre in rotta con sé e col mondo. Di questa Sicilia
popolare - culla di poesia e insieme vaso di Pandora - Muratori
è uno degli ambasciatori più titolati, con le
gambe ben piantate sull'Isola, ma non prigioniero dello Stretto
(i suoi versi in Lingua o Dialetto suonano altrettanto bene)
e con una consapevolezza musicale che si arricchisce nel confronto.
Il suo disco “Sale” esce per un prestigioso editore
di memorie e documenti del repertorio tradizionale - Squilibri
- che fa libri ricchi di supporti allegati (CD e DVD) e a cui
dobbiamo, fra le altre, due opere di rilevanza mondiale “Son
sei sorelle”, la raccolta definitiva delle registrazioni
tradizionali di Roberto de Simone, e “Sentite buona gente”
il libro e il video di uno spettacolo fondamentale, una vera
scoperta di Schliemann dell'etno-musicologia.
Squilibri non è però prettamente un'etichetta
discografica, e questo già un senso suo ce l'ha. “Sale”
di Carlo Muratori si propone così come il taccuino di
un viaggio dentro e fuori di sé, per la Sicilia interiore
e per quella esteriore, un'opera di grande maturità e
calma bellezza. In questa Rubrica non faccio recensioni di dischi,
nemmeno di quelli che mi sembrano maiuscoli, e a questa piccola
regola non derogo, se parlo di “Sale” è perché
il disco culmina in un trittico di canti che rientra pienamente
nel nostro discorso sui conti in musica, le storie condivise
alla periferia dell'Impero e delle vulgate comuni.
Sale, sangue e pistacchi. La memoria di Bronte
Il film aveva reso nota la vicenda sin dall'anno della mia
nascita (1972) per le generazione generosa dei sessantottini,
tanto che ricordo che mio padre me ne parlava come di un potente
antidoto contro la rilucente leggenda garibaldina che, vista
da noi del Sud, non è poi così cristallina, “Bronte:
cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”
di Florestano Vancini. Nell'estate del 1860, mentre Garibaldi
si appressa, cavalcando incontrastato per tutta la Sicilia,
alla fine di un Regno e (ahimé) all'inizio di un altro,
le popolazioni contadine di alcune città, oppresse da
secoli di una servitù indegna, scoppiano in violente
jacqueries sgozzando alcuni possidenti e - come da proclami
del Generale guerrigliero - spartendosi le terre. A Bronte si
insedia una dualità fra un'anima più sottoproletaria
e violenta incarnata dal carbonaio Calogero Gasparazzo e una
più borghese e pacificatrice incarnata dall'avvocato
Nicolò Lombardo, antico patriota liberale. Ma il luogotenente
di Garibaldi Nino Bixio - inviato a reprimere le rivolte e forse
anche a tranquillizzare i latifondisti inglesi della locale
“ducea di Nelson”, come inglesi erano anche gli
“sponsor” dello sbarco a Marsala - insedia un tribunale
di guerra che con un processo farsa condanna a morte proprio
i meno violenti dei ribelli fra cui l'avvocato Lombardo e persino
lo scemo del paese Nunzio Fraiunco, la cui unica colpa era stata
battere sul tamburo e preconizzare la fine del potere dei “cappelli”
(i possidenti).
Per
tutto il disco “Sale” di Carlo Muratori si sbriciola
poco a poco la materia salina che dal mare si deposita sulla
terra, che ristagna nelle grotte, che si fa parola e canto.
“Sale” in moltissimi sensi: palato, conservazione,
bruciore, sapidità e poi “salire” in montagna
e guardare lo schianto del mare sulle rive e quello della Storia
sugli uomini, e poi le “sale” delle case che abitiamo,
la memoria disidratata come un pesce sotto sale, che accoglie
l'acqua fresca della musica per tornare a essere nutrimento
della nostra identità. “Bronte”, che per
noi è diventata la denominazione dell'origine che orgogliosamente
testimonia la genuinità del prodotto in gelateria, verde
come il terzo colore di quella bandiera bianca di sale e macchiata
di un sangue rimosso. “Sale” arriva così
per cantare Bronte, incorniciata da due brani più o meno
patriottici di tradizione orale coevi ai fatti, che lì
risultano tristemente ironici o tragicamente grotteschi, preceduta
dalla citazione dell'arringa che lo stesso avvocato Lombardo
pronunciò davanti al Tribunale di guerra (così
com'era recitata nel Film), la canzone “Che dici Nicò”
è un capolavoro di fremente indignazione, un brano di
poesia civile cantata dopo 150 anni di ulteriori soprusi neocoloniali,
complicità mafiose, rivendicazioni contadine stroncate
nel sangue e nel terrore... c'è tutto questo nell'incedere
calmo ma non rassegnato della voce di Muratori, che è
una sveglia che squilla sull'orgoglio futuro dei siciliani che
dovranno condividere anche questa vecchia storia, di sale, sangue
e pistacchi, se vogliono sapere chi sono.
PCSP di Alberto Prunetti
Se in questa rubrica non si fanno recensioni di dischi, ancor
meno se ne fanno di libri, ma anche di un libro (che poi è
la riscrittura di una narrazione uscita già anni fa)
vorrei parlarvi, perché anche questo libro è una
potente trasfusione nella nostra memoria anemica.
Alberto Prunetti è un grande scrittore, se non si era
capito prima, certamente lo abbiamo tutti saputo dopo l'uscita
di “Amianto” un libro meraviglioso, personale e
collettivo, una storia di infanzia operaia, un “romanzo
della formazione” e del disfacimento che culmina nella
miseria di morte per mesotelioma del padre del protagonista
e di una generazione che aveva effettivamente creduto al lavoro
come mezzo di affrancamento di una Classe, e che ha pagato salatissimo
il biglietto di questo cinema, di questa illusione di Capitalismo
e sfruttamento. “Bestemmiando e piangendo” (come
mi avevano preavvisato) ho divorato quel libro in poche ore.
Questo ora lo sappiamo tutti e dunque possiamo tornare a leggere
quanto di già importante Prunetti aveva scritto o tradotto
(cose che Alberto fa con la medesima militante foga). Rigoroso
quanto si può e cazzone quanto basta, Prunetti è
uno splendido affabulatore, un meraviglioso commensale e un
divertentissimo provocatore, maremmano fino alle budella. Appunto
di storie di Maremma e di anarchia questo “PCSP”
(accronimo di “Piccola Controstoria Popolare”...
ma perché “piccola” poi?) tratta.
Uscito nel 2003 col titolo di “Potassa”, questo
libro ripreso, tagliato e allargato, è una vivacissima
sarabanda giocata sulle ore, le fughe, le intemperanze e l'indomabile
vitalità di alcuni antifascisti maremmani dell'estrazione
più popolare che si può, come Domenico Marchettini
comunista e feritore di latifondisti, che aggredisce e insegue
gli squadristi trincetto in pugno, capace di far perdere le
tracce per boschi ed anfratti. Disertori libertari della Grande
Guerra si mescolano a socialisti e vecchi anarchici che mordono
il tallone ai brigadieri nel polverone di una rissa di paese,
e i toponimi che ricorrono nel rigodon di queste pagine sono
quelli stessi che trentacinque anni dopo i fatti narrati in
questo libro, tornano nei racconti straziati di tragedie minerarie
di Bianciardi: Gavorrano, Roccatederighi, Tatti, Montemassi,
Potassa... “PCSP” è un confusionario poema
della fame di azione, di giustizia, di vino, di sangue che ci
cala nel bel mezzo di un groviglio in cui è difficilissimo
schierarsi col cervello - per l'intemperanza e l'animosità
di tutti i protagonisti - e inevitabile farlo col cuore. La
voce stessa del narratore è una voce estremamente compromessa,
perentoria, che unisce continuamente la propria esperienza alle
sue mitologie controculturali e corre su e giù per la
scalinata degli anni, come un'interiezione, fra le pieghe del
tempo e una bestemmia nei bordi rosicchiati delle evasive carte
giudiziarie.
Alessio Lega
|