guerra
Un secolo fa, sull'altipiano
testi di Steven Forti e di Sergio Secondiano Sacchi
Sull'altipiano di Asiago, un secolo fa, si moriva per una bandiera. O per un'altra. Dipendeva in quale fronte ci si trovasse. C'era anche Emilio Lussu. In Un anno sull'altipiano ricorda la sua esperienza nelle trincee della Grande guerra. Uno spettacolo di uno storico e di un cantautore ci riportano a quel libro e a quell'altipiano. E alle logiche assurde della guerra, allora come oggi.
Quando
penso alla guerra di trincea
di Steven Forti
Scabbia, gelo, sigarette, grappa. E morte.
Quando penso alla guerra di trincea, mi ritornano alla mente
le immagini di Uomini contro. Lo sguardo penetrante di
Gian Maria Volontè, quel suo cipiglio, quella sua dirittura
morale che lo porta davanti ad un plotone. Non come l'Alberto
Sordi e il Vittorio Gassman de La grande guerra monicelliana.
Ragioni e modi sono diversi, anche se la fine è la stessa.
Un plotone che spara. E chi si è visto, non si rivede.
Che si parli una lingua o che se ne parli un'altra, che si indossi
una divisa o che se ne indossi un'altra, che si difenda una
bandiera o che se ne difenda un'altra. Una vita, delle vite
concluse per sempre. Finite. Kaputt. Quella del finale è
una delle libertà che si prese Francesco Rosi nel trasportare
sulla pellicola Un anno sull'altipiano, romanzo e diario
di un uomo che quell'esperienza l'aveva vissuta per davvero.
Emilio Lussu non morì fucilato. La pelle la portò
a casa, dopo Caporetto e dopo il Piave.
Non fu l'unica sua lotta, sia chiaro. Lussu ha attraversato
il Novecento come un coltello taglia il pane: la Grande guerra,
certo, ma poi la lotta contro il fascismo nella sua Sardegna
e nell'esilio francese, la guerra di Spagna con i repubblicani,
la Resistenza, mentre a Salò Mussolini viveva il suo
ultimo atto. E l'impegno per costruire un nuovo paese dopo l'aprile
del 1945.
Un anno sull'altipiano Lussu lo scrisse in un sanatorio
svizzero nell'inverno tra il 1936 e il 1937. Nella Confederazione
Elvetica ce lo avevano mandato perché si curasse da una
tubercolosi contratta nel confino di Lipari. Perché il
confino non era una villeggiatura, checché ne dicesse
il transfuga Dino Fiorelli, pratese polemico e controverso come
il suo concittadino Curzio Malaparte. Fiorelli nel 1938 scrisse
su La Verità di Nicola Bombacci, l'ex Lenin di
Romagna convertitosi al “genio mussoliniano”, una
serie di articoli intitolati “L'isola dell'Inferno”.
Fiorelli parlava di Ponza, dov'era stato per qualche tempo,
ma lo stesso diceva di Lipari. E da Lipari Lussu riuscì
a scappare nel 1929, insieme a Carlo Rosselli e Francesco Fausto
Nitti, su un motoscafo che lo portò a Tunisi. E di lì
poi a Parigi. A parlare di fughe in barca per il Mediterraneo,
mi ritorna in mente ancora Gian Maria Volontè. In barca
a vela verso la Corsica, per portare all'estero un Oreste Scalzone
ridotto come uno scheletro dalle carceri dell'Italia repubblicana.
La fuga era un'altra, i tempi pure.
|
La copertina del libro tratto dallo spettacolo di Steven
Forti e Carlo Doneddu. Lo spettacolo è stato messo in
scena a Barcellona e in Italia con una tournée ad ottobre
dello scorso anno |
Lipari dunque, poi la fuga avventurosa. E infine Parigi, capitale,
malgré tout, degli antifascisti esiliati. C'era
anche Nerina Zotti, giovane bolognese che gestiva una locanda
dove si faceva spedire le lettere il vecchio Filippo Turati.
È lì, in quella Parigi, più precisamente
in un hotel di Montmartre, che nell'agosto del 1929 Lussu fonda
“Giustizia e Libertà”, insieme ai fratelli
Rosselli, a Nitti, a Cianca e a Salvemini. Con i primi andrà
in Spagna in quel torrido Juillet 1936 che cantava Serge Utgé-Royo.
Gaetano Salvemini, invece, lo manderà in Svizzera a curarsi,
dopo che sul Monte Pelato in non pochi erano stati ammazzati
dalla mitraglia dei franchisti. E Salvemini, che era stato pure
lui interventista, gli chiederà di scrivere un libro
sulla sua esperienza nelle trincee della Grande guerra. Lo pregherà,
insisterà. Salvemini quel libro lo vorrebbe scrivere
lui perché in quello snodo del '14 sa bene che si decise
molto più che l'ingresso in una guerra. Ma Salvemini
al fronte non vi era andato e quel libro non lo poteva scrivere.
Lussu di libri ne aveva già scritti. Nel 1930 uscì
La catena. Due anni dopo, Marcia su Roma e dintorni.
Ripensava, ricordava e rifletteva sull'ultimo decennio, tra
biennio rosso, squadracce fasciste, instaurazione della dittatura,
carcere ed esilio, ma non si spingeva a quel buco nero del Novecento
che aveva segnato non solo la sua vita, ma quella di milioni
di uomini e di donne. E la storia tutta. Vi ritornerà
solo alla fine del '36, dai monti svizzeri. E scriverà
di getto.
Quella di Lussu non è la prosa ironica di Gabriel Chevallier,
né quella caustica del primo martire dadaista, Jacques
Vaché. In Un anno sull'altipiano non si ritrova
lo scherno aristocratico di Drieu La Rochelle, lo sguardo d'oltre
oceano del giovane Hemingway o quel culto della violenza, intriso
di superomismo, del reduce Ernst Jünger. Non v'è
nemmeno il ricordo dell'esperienza bellica tale come si era
impresso in Italia nelle pagine di altri ex combattenti: il
filibustiere Curzio Malaparte o l'alpino Pietro Jahier. Ma nemmeno
il libero pensatore Mario Mariani. Sì, qualcosa c'è,
forse, di Mariani, ma solo qualcosa. Anche Mariani, alla fine
degli anni venti, dovette percorrere la strada dell'esilio,
prima in Belgio, poi in America Latina, per evitare bastonature,
olio di ricino e carceri. E se qualcosa c'è nel Lussu
dell'altipiano, per quanto diverso, e non solo per le latitudini,
è il Remarque di Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Non tanto per il pacifismo. Anche quello. Ma non solo quello.
Sì, quando penso alla guerra di trincea penso a Volontè.
E per forza di cose penso alle pagine di Emilio Lussu. E quando
ho ascoltato il disco di un coraggioso musicista e cantautore
sardo, Carlo Doneddu, sono ritornato a Lussu. Un'altra volta.
Un anno sull'altipiano. Opera da due soldi, questo il
titolo del disco dei Figli di Iubal, una band che per ora è
andata in letargo, ma magari, un giorno, si risveglia e riprende
a scorazzare, come gli orsi a primavera. Un disco uscito dieci
anni fa, ormai, dove Doneddu rilegge Lussu ai tempi della guerra
dell'Irak.
Con Carlo ci siamo visti, ne abbiamo parlato, ci abbiamo bevuto
sopra. Vino catalano, mirto e aguardiente. E abbiamo
riportato la storia al punto di partenza. Lussu al tempo di
Lussu. A un secolo di distanza. Su quell'altipiano, tra Trento
e Vicenza. Nel 1916-1917. Tra muli e bombe a mano, tra Achtung,
italienisch! e Abbasso la guerra! Tra scabbia, gelo,
sigarette e grappa. Lussu ai tempi di Lussu. Ai tempi di quella
guerra mondiale porta d'ingresso del Novecento, secolo di odi
e di orrori, di passioni e di amori. Come le vite che lo hanno
attraversato, quel secolo ormai finito. Perché è
la storia di un soldato quella che abbiamo raccontato in uno
spettacolo dove la prosa accompagna la canzone. Con la musica
e i testi di Carlo Doneddu e con un racconto scritto da me.
Steven Forti
Con la memoria
di Sergio Secondiano Sacchi
Ecco la prefazione di Un anno sull'altipiano,
il libro dello spettacolo di Steven Forti e Carlo Doneddu, pubblicato
a settembre dello scorso anno. Si tratta di un breve testo di
Sergio Secondiano Sacchi, storico membro del Club Tenco di Sanremo,
fondatore dell'associazione “Cose di Amilcare” a
Barcellona.
Come tutte le opere narrative affidate all'udito e alla vista,
i testi delle canzoni sono, innanzitutto, memoria. Personale
quando si rifanno a storie o sensazioni autobiografiche, letteraria
quando si tratta di canzoni slegate dalla propria intimità
personale e quindi considerate di “mestiere” (absit
iniuria verbis, anzi). E questo perché esiste anche
il ricordo narrativo e linguistico, che potremmo definire “tecnico”.
Quando, e se, la canzone riesce a raggiungere un auditorio più
o meno vasto, diventa essa stessa memoria, occasione di riflessione,
trasformandosi anche in elemento storico e in riferimento linguistico
da utilizzare come preziosa traccia di ricostruzione temporale
o psicologica.
Se, rievocando un fatto di cronaca, la canzone Per i morti
di Reggio Emilia illustra una generazione che si affaccia
al boom economico restando profondamente ancorata ai valori
della Resistenza, il linguaggio stilisticamente rivoluzionario
di Senza fine ci mostra quanto quella stessa generazione
si stia spogliando di tanti orpelli espressivi che hanno così
a lungo condizionato la vita pubblica italiana. Ecco due canzoni
che, molto meglio di tanti scritti sull'argomento, sanno illustrarci
il primo periodo di significativo cambiamento nella vita quotidiana
della Repubblica italiana. Fa una certa impressione, ora che
i benemeriti programmi storici della Rai ci permettono di riascoltare
e rivedere spezzoni documentaristici di quegli anni, comparare
l'asciuttezza espressiva di Gino Paoli con l'intonazione ridondante
di una qualsiasi personaggio politico, o comunque pubblico,
del tempo, anche quando è intento a leggere un semplicissimo
comunicato.
La canzone stessa diventa strumento d'interpretazione della
realtà: se Dio è morto fotografa la rottura
di valori di cui, improvvisamente, le nuove generazioni si fanno
portatrici, canzoni come Non ho l'età o Fatti
mandare dalla mamma a prendere il latte, antecedenti di
qualche anno, ci fanno capire quanto non si sia trattato di
una naturale evoluzione della società, ma di una improvvisa
e profonda frattura che ha riguardato linguaggi, costumi e ideali.
A volte, poi, la canzone diventa rievocativa, quando narra un
fatto appartenente a una memoria spesso impropriamente chiamata “collettiva” (anche quando la ridotta dimensione
dell'avvenimento dovrebbe suggerire il più appropriato
aggettivo “condivisa”). Si tratta di quelle canzoni
ricostruttive che, parlando di politica, di storia, di sport,
di spettacolo o di letteratura, sono in grado di restituire
le tensioni emotive di un determinato periodo e di ricreare
quelle atmosfere dove logos e mythos non si scontrano, ma finiscono
per edificarsi a vicenda. E lo fanno, a volte, parlando di eroi
quotidiani, non ha importanza se grandi o piccoli. Non ha importanza
perché anche alcuni semplici fatti privati possono essere
in grado di rievocare, se non proprio di descrivere, un'intera
epopea: l'anonima partenza dell'Amerigo gucciniano dall'Appennino
toscano, in un mattino qualsiasi, contiene tutti gli ingredienti
epici e storici del gigantesco racconto di intere generazioni
che hanno alimentato l'alluvione migratoria americana di inizio
secolo. Da quella porta verde che si chiude, da quell'ultimo
caffè d'orzo straripano le speranze, i sogni, le tensioni
(e le future disillusioni) offerte da una nuova frontiera.
Questo Un anno sull'altipiano, frutto dell'inedita collaborazione
tra un cantautore come Carlo Doneddu e uno storico come Steven
Forti, innesta ulteriori sviluppi, perché il lavoro non
si muove soltanto sulla connessione esistente tra canzone e
letteratura, punto di partenza dell'operazione. Le invenzioni
musicali e linguistiche di Doneddu dilatano il testo di Emilio
Lussu proiettandolo addirittura nell'attualità, con la
brigata Sassari mandata in Irak, come nel disco dei Figli di
Iubal. Nello spettacolo, invece, la narrazione resta esclusivamente
nel contesto storico originario, restituendo allo scrittore
la sua dimensione biografica, espressione di una generazione,
partita volontaria per la Grande Guerra, che ha visto naufragare
in breve tempo i propri illusori entusiasmi e che ha contemporaneamente
maturato, proprio al fronte, una nuova coscienza politica ed
etica. Questo allestimento teatrale mostra proprio, e sottolinea,
come una parte della Resistenza nasca proprio nelle trincee
della Prima guerra mondiale, quelle stesse da cui è nata
la retorica nazionalista del fascismo.
E, così facendo, l'analisi dell'umile canzone può
essere sottratta all'alveo, spesso riduttivo e sterile, della “critica musicale” per entrare a far parte, a pieno
diritto, delle praterie dell'antropologia culturale.
Sergio Secondiano Sacchi
|