società
Se si abolisse il diritto penale
di Enrico Torriano
Non è sempre esistito. Non è un sistema connaturato nell'esistenza dello Stato. E se solo pensassimo di poterne fare a meno? Un'ipotesi “provocatoria” sulla quale riflettere.
Siamo abituati a pensare al diritto penale come ad un sistema connaturato nell'esistenza dello Stato. Ma in realtà il diritto penale non è sempre esistito. Era puro strumento di repressione dei nemici interni ed esterni in epoca precristiana, aveva una funzione del tutto marginale nei sistemi giuridici, pure per altri versi molto sviluppati, dei Greci e dei Romani, non ebbe significativo sviluppo nel primo Medio Evo. C'è chi sostiene che sarebbe possibile farne a meno ai nostri tempi. Ma senza si starebbe meglio o peggio?
Origini e ascesa del diritto penale
Secondo Georg Rusche e Otto Kirchheimer, autori del fondamentale
volume Pena e struttura sociale, scritto negli anni Trenta,
censurato dal regime nazista (i due dovettero riparare negli
Stati Uniti) ed infine rivalutato negli anni Sessanta, nel primo
Medio Evo il diritto penale non esisteva. Come strumento di
difesa della gerarchia sociale, costituivano una sufficiente
garanzia la tradizione, un equilibrato sistema di dipendenza
sociale e la celebrazione religiosa dell'ordine stabilito, mentre
nei rapporti tra soggetti uguali per status sociale e per censo
vigevano la faida e la c.d. penance. Quest'ultimo era
lo strumento più interessante: se qualcuno commetteva
un reato contro la decenza, la moralità o la religione,
oppure uccideva o feriva un'altra persona (le violazioni del
diritto di proprietà non avevano molto peso in una società
agricola), si teneva un raduno solenne di uomini liberi in cui
si pronunciava il giudizio e si costringeva il colpevole a pagare
una somma che lo esentava dal timore della vendetta da parte
della persona offesa. Preservare la pace sociale era in sostanza
l'obiettivo primario da perseguire1.
Si trattava dunque di una specie di arbitrato privato, all'interno
del quale le distinzioni di classe si riflettevano sulla misura
della penance. A lungo andare, le frequenti difficoltà
economiche del reo comportarono l'affiancamento alla pena pecuniaria
di una pena corporale, che poteva anche consistere nella segregazione
con privazione o forte limitazione di cibo fino a quando non
interveniva il perdono o un'intercessione vescovile, come per
esempio prevedeva un editto della città di Sion del 13382.
Secondo i citati autori, il carattere privato di questo rudimentale diritto penale fu gradatamente trasformato in strumento di dominio a seguito del rafforzamento delle autorità centrali che soppiantarono le signorie locali, anche perché gli introiti rappresentati dalle multe e dalle confische si dimostrarono una ricca sorgente di reddito per le casse dei nuovi soggetti di potere.
Le prime necessità che si presentarono a questo nuovo
potere centralizzato furono quelle di meglio statuire i comportamenti
punibili e di passare da una concezione di pena intesa come
retribuzione alla collettività o alla persona danneggiata
dal reato a quella di equivalente ad un'offesa a Dio, di cui
il potere terreno era legittimo rappresentante. Questo equivalente
del danno prodotto dal reato si realizzava nella privazione
di quei beni socialmente avvertiti come valori: la vita, l'integrità
fisica, il denaro, lo status sociale3.
Il diritto penale e l'offesa al potere
La sussunzione del comportamento trasgressivo ad un'offesa
al potere comporta una conseguenza basilare: ora il delitto,
oltre la vittima immediata, attacca direttamente il sovrano.
L'intervento del sovrano non è più, dunque, un
arbitrato fra due avversari, né solo un'azione finalizzata
a far rispettare i diritti di ciascuno: è una replica
diretta a colui che lo ha offeso. Pertanto, il castigo non può
identificarsi e neppure commisurarsi alla riparazione del danno;
nella punizione deve sempre aversi almeno una parte che è
del principe, e, anche quando si combina con l'aspetto riparatorio,
questa parte costituisce l'elemento più importante della
liquidazione penale del delitto4.
Il diritto penale va trasformandosi da “tecnica della
composizione” a “tecnica della coazione”5.
È l'epoca dei grandi supplizi. Il monarca ristabilisce
simbolicamente la sua supremazia mediante lo scempio del corpo
del trasgressore. Ma arriva anche l'epoca della società
mercantile. Se l'illegalismo nella società basata sulla
proprietà fondiaria era mal sopportato, nei riguardi
della proprietà commerciale e industriale diventa intollerabile:
lo sviluppo dei porti e l'apparizione dei grandi depositi dove
si accumulano merci, materie prime, utensili e manufatti, difficili
da sorvegliare ed esposti ai furti, necessitano di una repressione
rigorosa6. La composizione privata
di violazioni, ancora applicabile ai tipici illegalismi della
borghesia mercantile, che risolveva con transazioni e accomodamenti
le frodi, le evasioni fiscali e le operazioni commerciali irregolari,
non viene più permessa per i reati come il furto tipici
delle classi subalterne; la gran parte dei fatti criminosi consiste
in reati contro la proprietà, commessi da non - proprietari,
nei cui confronti la pena pecuniaria è insufficiente.
Per contro, l'abbondante disponibilità di forza lavoro
conferisce alla vita umana uno scarso valore. L'insieme di questi
fattori spiega come nel giro di poco tempo i grandi supplizi
divennero la pena principale. Praticamente ogni reato era punibile
con la morte e la questione essenziale era il modo, più
o meno atroce e doloroso, in cui questa avrebbe dovuto essere
inflitta7.
Il diritto penale nella società capitalistica
Quando si cominciò a considerare seriamente la possibilità
di sfruttare il lavoro dei condannati, i metodi punitivi cominciarono
a subire un graduale ma profondo mutamento: dalla fine del XVI
secolo nacquero i lavori forzati, la servitù sulle galere,
la deportazione nelle colonie, la casa di correzione. Fino a
quando queste pene costituirono un vantaggio economico, vennero
applicate diffusamente, poi decaddero: al loro fianco, era nata
la fabbrica, nella quale però i rapporti tra il capitalista
e i proletari erano codificati rigidamente in rapporti giuridici
svincolati dall'essere questi ultimi etichettati come criminali:
con il consolidarsi della società capitalistica, il diritto
penale passava la mano alla coazione insita nel rapporto di
lavoro8. Secondo la nota teoria
del giurista sovietico Evgenij B. Pasukanis, è in questo
momento e con questa chiave di lettura che nasce la pena detentiva
tout court: nella società feudale, in cui non
si era ancora storicizzata l'idea del lavoro salariato, la pena
retributiva non era in grado di trovare nella privazione del
tempo l'equivalente del reato; “perchè potesse
affiorare l'idea della possibilità di espiare un delitto
con un quantum di libertà astrattamente predeterminato,
era necessario che tutte le forme della ricchezza venissero
ridotte alla forma più semplice ed astratta del lavoro
umano misurato nel tempo”9.
Così il carcere diventa il luogo in cui “si sta
peggio che fuori”, secondo il principio della c.d. “less
eligibility”: il livello di esistenza garantito all'interno
del carcere dev'essere sempre inferiore a quello minimo del
lavoratore occupato esterno, in modo che il lavoro peggio pagato
sia comunque preferibile (eligible) alla condizione carceraria,
e ciò al duplice scopo di costringere al lavoro e di
salvaguardare la deterrenza della pena. Questo spiega come mai
in momenti di elevata disoccupazione il regime penitenziario
venga inasprito: altrimenti il carcere rischierebbe di perdere
il suo potere deterrente10. All'interno
del penitenziario operano quelle forze che Foucault sintetizza
sotto il termine di “disciplina”: il loro scopo
è educare le masse di ex contadini e artigiani attraverso
l'apprendimento coattivo delle regole del salario e trasformarli
in classe operaia. Ma quando, nella seconda metà del
XIX secolo, nei paesi a capitalismo più avanzato questa
funzione viene a cessare, quando il controllo sociale e l'egemonia
del capitale sul lavoro si esercitano con strumenti diversi
dall'internamento, il carcere perde il suo ruolo iniziale di
macchina di disciplina e diventa l'erede di ciò che aveva
negato: diventa mero strumento di annientamento e di distruzione11.
Ma diventa anche, e qui sembra risorgere in un nuovo ruolo,
fabbrica essa stessa di crimine e di criminali: la prigione
fallisce nel ridurre i crimini, ma riesce assai bene a produrre
la delinquenza e il delinquente come soggetto patologizzato,
confinato in un ambiente apparentemente marginalizzato ma controllato
dal centro12. La “prigionizzazione”
del recluso, che è l'opposto stesso della sua riabilitazione,
diventa così l'ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento13.
Il carcere, attraverso un meccanismo di selezione, recluta la
popolazione criminale, che suo tramite viene punita e nei cui
confronti viene così ribadito il valore della norma violata
e il potere di irrogare la sanzione14.
Dalla metà del XX secolo emergono poi nuove istanze: la parità tra i sessi, la questione giovanile, i rapporti tra gli abitanti della metropoli. Il diritto penale è impotente rispetto a queste tematiche e non riesce a dare risposte. La sua crisi è ormai completa e definitiva, il controllo sociale è ormai “altrove”, eppure proprio in questa sua nudità, in questo suo sopravvivere senza più alcun fondamento trova la forza per essere sempre più richiesto, sempre più riproposto come soluzione per i conflitti sociali.
Le voci critiche
Di fronte agli elevati costi umani, sociali ed economici del
diritto penale sono sorte, a partire dagli anni Settanta, voci
critiche che propugnavano di ridurre il ricorso ad esso fino
alla sua totale abolizione. Storicamente non è una posizione
nuova: fin dalla seconda metà dell'Ottocento i pensatori
anarchici si erano espressi in questa direzione. Basti pensare
a Kropotkin e alla sua conferenza tenuta a Parigi nel 1887 e
denominata On ne peut pas améliorer les prisons:
“Un'unica risposta è possibile alla domanda: che
cosa possiamo fare per perfezionare il sistema penale? Niente.
È impossibile perfezionare una prigione. Con l'eccezione
di pochi trascurabili cambiamenti, non vi è altro assolutamente
da fare che distruggerla”15.
Ma gli anarchici, mettendo in discussione l'esistenza stessa
dello Stato, ne contestavano la legittimità di punire
come coerente corollario, tanto che i due discorsi, il politico
e il giuridico, finiscono con l'essere indissolubilmente intrecciati
anche, per esempio, in Proudhon e in Malatesta16.
La novità è che la posizione abolizionista viene
ora assunta da giuristi, criminologi e filosofi che, pur muovendo
da concezioni libertarie o comunque antistatualistiche, non
ne fanno necessariamente un discorso politico.
I pilastri del pensiero abolizionista, che ha visto tra i suoi precursori gli olandesi Louk Hulsman e Herman Bianchi e i norvegesi Thomas Mathiesen e Nils Christie, sono sostanzialmente quattro:
- la pena, specialmente nelle sue manifestazioni più drastiche, è violenza istituzionale;
- gli organi che agiscono ai diversi livelli della giustizia penale non rappresentano e tutelano interessi comuni, ma prevalentemente interessi di gruppi minoritari socialmente avvantaggiati;
- la giustizia penale è diretta prevalentemente contro i gruppi sociali più deboli, come risulta dalla composizione della popolazione carceraria, nonostante i comportamenti socialmente negativi siano diffusi fra tutti gli strati sociali, compresi quelli dominanti, dai quali spesso provengono violazioni molto gravi (si pensi agli inquinamenti devastanti per l'ambiente);
- il sistema punitivo produce più problemi di quanti pretende di risolvere e, reprimendo i conflitti anziché trovarne una soluzione, fa sì che questi si ripresentino o che altri ne sorgano.
Il punto di partenza degli abolizionisti è la critica
alla struttura penale così com'è: un apparato
burocratico, gestito da organi neutri rispetto alla vittima
e al reo, che danno risposte incomprensibili rimanendo sempre
estranei al fatto. In particolare, in Hulsman è forte
l'accento sull'elevata astrattezza della giustizia penale, poiché
essa crea tra varie situazioni diverse sotto il profilo umano
un legame del tutto artificioso, costituito dalla competenza
formale del sistema di giustizia criminale17,
e sulla sua natura essenzialmente burocratica, incapace di interpretare
il fatto in senso evolutivo e di instaurare un rapporto umano
tra i suoi protagonisti e imbevuta di formalismi astratti ed
impersonali: in un certo senso - scrive Hulsman - il sistema
penale affronta problemi che non esistono18.
Nello stesso senso si muove il discorso di Christie: il crimine
viene ad esistere solo in quanto l'atto in questione passa attraverso
le procedure, altamente formalizzate, dei giudici, della polizia
e delle prigioni, mentre scompare l'interpretazione proposta
dai suoi autori19.
L'abolizionismo si presenta dunque come critica negativa e scettica
nei confronti del suo sistema di riferimento (il diritto penale),
ma di fatto non intenzionata a costruire oggi alternative per
il domani20. Mira invece a mettere
il risalto il fallimento del diritto penale, tanto netto da non
permettere di trovarne una giustificazione materiale (e non ideologica,
perché questa è tutta un'altra faccenda). Più
che sul suo spessore scientifico, a volta discutibile, è
opportuno valutarlo sulla base della forza morale e politica che
l'ispira; più che una teoria scientifica, è da considerarsi
come un approccio a un problema21.
Il diritto penale e i suoi destinatari
Il diritto penale viene solitamente giustificato dalla necessità
delle società organizzate di reprimere e combattere ogni
forma di violenza. Ma - nota Alain Brossat - è improprio
definire il diritto come ciò che sospende e rifiuta la
violenza: ogni sovranità ha alle sue spalle una violenza
fondatrice che la stabilisce e stabilisce, di conseguenza, un
diritto che conserva il ricordo di questo momento fondatore22.
Di fatto, è impossibile isolare la violenza punitiva,
intesa come violenza istituzionale, dalla violenza strutturale
e dell'ingiustizia dei rapporti di potere e di proprietà
senza perdere di vista il contesto in cui queste si muovono23.
Pur con nuovi idoli, il diritto penale, concepito in un clima
di teologia scolastica, conserva una certa rappresentazione
religiosa del mondo, con un'idea di castigo comportante l'esistenza
di un punto assoluto24. La conseguenza
è che il suo scopo non è quello di aiutare o curare
la gente, ma di farla soffrire; e il dolore è inflitto
ad edificazione di persone diverse da quelle condannate, in
omaggio a ciò che viene chiamato “prevenzione generale”25.
Il reo è dunque un soggetto esclusivamente da colpire,
ad onta dei propositi rieducazionali. Ma anche le vittime dei
reati non se la passano meglio. Hulsman nota che la vittima,
una volta che l'azione pubblica si è messa in moto, non
può più accettare proposte conciliative, proporre
incontri con il reo, partecipare alle sanzioni che saranno adottate;
ignorerà le conseguenze reali di esse sulla vita di quest'uomo
e dei suoi familiari. “Eppure è stata la sua faccenda
ad innescare il procedimento penale; e forse non aveva desiderato
tutto quel male”26. La
vittima è doppiamente perdente: di fronte all'aggressore
e di fronte allo Stato, che la esclude da ogni possibilità
di partecipare al conflitto di cui è protagonista, gestito
invece da professionisti opportunamente designati27.
Non trae nessun vantaggio dall'incarcerazione del reo, non ricava
risarcimenti né simbolici né materiali se non
in casi bagatellari e trascurabili28.
Di fatto, la vittima è trascurata dall'attuale sistema
penale, che anzi nella realtà processuale la vede più
come un impiccio che un protagonista della vicenda.
In questa insensibilità del diritto penale sta il vero
bersaglio degli abolizionisti: in questo suo definire comportamenti
e situazioni da un punto di vista esterno e burocratico, senza
ascoltare gli interessati, senza conoscere quello che si giudica,
in questo suo funzionare lontano dalla realtà della gente:
in ciò è da considerarsi un sistema totalitario29.
Un linguaggio di specialisti e le sue alternative
La presa in carico del conflitto da parte di specialisti fondamentalmente
estranei ad esso (polizia, magistrati, servizi sociali) porta
alla cristallizzazione di un linguaggio artificioso e fortemente
ideologizzato che incide pesantemente sui rapporti sociali.
Eliminare il concetto stesso di reato - sostiene Hulsman - costringerebbe
invece a rinnovare il discorso su ciò che viene considerato
fenomeno criminale e sulla reazione sociale che esso suscita30.
Herman Bianchi suggerisce di definire il reato in termini di
torto e di parlare di diritto riparatorio anziché di
diritto penale, in modo da definire il reo non come un individuo
aprioristicamente malvagio, ma come un debitore il cui dovere
è di assumersi l'onere della riparazione31.
Ciò potrebbe condurre al passaggio da un diritto etico,
totalizzante e monoculturale a un diritto dei beni e delle relazioni32.
Evidentemente, però, non basta cambiare linguaggio. Gli
abolizionisti puntano il dito anche sulla pretesa che il diritto
penale ha di risolvere i conflitti. Si dà per acquisito
che esso protegga dai reati, quando chiunque può constatare
che non è affatto così. Ricorrere agli strumenti
del diritto civile aiuterebbe invece la vittima, la responsabilizzerebbe
senza lasciarla sola: d'altro canto, raramente la vittima vede
una differenza tra diritto penale e diritto civile, che per
Hulsman è spesso artificiosa: “quando un ipermercato
è vittima di un taccheggio, la causa è penale.
Ma quando un salariato è vittima di una risoluzione arbitraria
del contratto di lavoro, questa sarà sempre una causa
civile. Eppure, l'atto dalla conseguenze più gravi non
è forse il secondo?”33.
Ciò apre una serie ulteriore di problemi. Se tra il reo
e la vittima esiste una grande disparità economica ed
organizzativa, si rischia che gli interessi del più debole,
se non opportunamente affiancato da un contesto collettivo,
soccombano, mentre la riparazione del torto, per essere tale,
non dovrebbe tradursi nella prevaricazione di una parte sull'altra.
È stato fatto notare che ci sono comunità in cui
il potere maschile è preponderante e le donne maltrattate
potrebbero non essere adeguatamente tutelate34.
Ma non è detto che l'intervento del diritto penale faccia
meglio, se la supremazia maschile è riprodotta all'interno
delle istituzioni. Del resto, è davvero possibile trovare
un punto di incontro e conciliazione tra una ragazzina violentata
e il suo stupratore? C'è chi ritiene di sì35.
A volte, gruppi devianti creano problemi ad un'intera comunità:
è concepibile un diritto ad essere risarcita anche in
capo ad essa?36.
Per gli abolizionisti, la stessa idea del dover necessariamente
risolvere il conflitto è sbagliata. È più
opportuno “gestire” il conflitto, convivere con
esso, arrivare ad un coinvolgimento della collettività,
che dovrebbe essere partecipe e non mera spettatrice; il conflitto
non è necessariamente un fenomeno negativo, può
essere qualcosa di utile per progredire37.
Gli abolizionisti ritengono peraltro necessarie riforme sociali
profonde affinché il diritto penale possa scomparire:
la legalizzazione del gioco d'azzardo, della droga e della prostituzione
toglierebbe risorse economiche alla criminalità organizzata,
la semplificazione e la trasparenza della pubblica amministrazione
eliminerebbero i crimini dei colletti bianchi, un'industrializzazione
veramente rispettosa dell'ambiente eviterebbe gli inquinamenti,
investimenti sulla sanità e sull'istruzione potrebbero
ridurre le differenze sociali, solitamente cause della devianza.
Christie dimostra, dati alla mano, come vi sia una netta differenza
tra gli incarcerati del Canada (dove c'è un welfare
che funziona) e degli Stati Uniti38.
Il discorso sociale si riflette sul tema della risocializzazione
del reo. Tanto meno l'autorità è accettata e la
società percepita come giusta, tanto meno si potrà
definire giusta la pena: punire un giovane che una volta scarcerato
tornerà senza prospettive di lavoro in un quartiere povero,
emarginato e dominato dagli spacciatori è solo un trattamento
stigmatizzante: il successo del trattamento non dipende dalla
sanzione, ma in larga misura dal modello di società,
ovvero da fattori di tipo extrapenitenziario39.
L'aspetto più criticato del diritto penale è naturalmente
la pena detentiva. Le stesse misure alternative al carcere non
sono viste molto favorevolmente, in quanto comunque pensate
in funzione di esso e potenzialmente in grado di attirare soggetti
che altrimenti resterebbero fuori dal sistema criminale40.
In pratica, esprimono non meno punizione, ma più fantasia
nell'arte di punire diversamente41.
La sostituzione del carcere con un risarcimento di natura civilistica,
perfino se necessario concepito come lavoro riparatorio, è
indicata come più utile dagli abolizionisti e di riflesso
accusata di inefficace deterrenza dai loro detrattori. Una posizione
radicale viene invece assunta da Brossat: “La domanda
“cosa mettereste al posto della prigione” tende
a far adottare al cittadino lo sguardo dell'autorità
(...), implica l'abbandono di ogni prospettiva critica (...)
ed esorta a un ricondizionamento dello sguardo e dell'intelligenza,
il cui effetto è di rendere l'uomo ordinario incapace
di gettare un altro sguardo (che non sia quello della polizia
o dello Stato) su chi infrange l'ordine, sui reati e sui crimini”42.
Da qui la forte critica sociale: “L'ordine delle cose
che produce la divisione tra ladri e derubati, “asociali”
e poliziotti (...) non lo abbiamo votato. Dunque è un
abuso intimarci di prendere posizione su ciò che è
funzionale a mantenere quest'ordine e sui mezzi per punire coloro
che quest'ordine infrangono”43.
Cosa rimane
La legislazione europea degli ultimi anni è andata in
direzione opposta a quanto invocato dagli abolizionisti: il
ricorso ad un diritto penale svuotato di scopi ma fortemente
ideologizzato ha caratterizzato l'intervento dei singoli stati
anche in materie di evidente matrice sociale, come l'immigrazione
e la tossicodipendenza. Si può dire in questo senso che
gli auspici di questi teorici controcorrente sono caduti nel
vuoto.
D'altronde, le teorie abolizionistiche si sono gradatamente
concentrate quasi esclusivamente sulla soppressione della pena
detentiva e sulla riduzione del numero dei reati. Christie e
Mathiesen hanno in particolare segnalato il pericolo che ad
una contrazione totale del sistema penale subentri il ricorso
a misure punitive introdotte con una nuova etichetta, dirette
a svolgere la stessa funzione ma senza le garanzie e le misure
di controllo che la legislazione penalistica novecentesca ha
apportato44. Usciti dal diritto
penale, gli spazi per comprimere le libertà individuali
potrebbero ampliarsi anziché ridursi: si pensi al ricorso
alla psichiatrizzazione dei dissidenti nell'Unione Sovietica
o alle attuali realtà dei CIE per i migranti.
Perché qui sta il paradosso del diritto penale. In esso
si esprime compiutamente la violenza punitiva dello Stato, ma,
nel contempo, solo al suo interno si sono sviluppati meccanismi
di tutela individuale estranei ad altri settori giuridici. Gli
stessi elementi di burocratizzazione tipici del diritto penale
sono spesso la risultanza dell'introduzione di garanzie come
la riserva di legge, la tassatività, il divieto di retroattività,
l'obbligo di assistenza legale, o alla rilevanza di istituti
ancorati ad un principio di colpevolezza adattato alla personalità
del reo (circostanze attenuanti, caratteristiche dell'elemento
soggettivo del reato): le eredità storicamente più
preziose del diritto penale borghese, che, nel suo riprodurre
le disuguaglianze tipiche della società capitalistica,
ha comunque fornito gli strumenti per formalizzare il conflitto45.
Chiedersi se l'abolizione del diritto penale debba precedere
o seguire la creazione di una società più giusta
è domandarsi se è nato, o dovrà nascere,
prima l'uovo o la gallina; o se è meglio l'uovo oggi
o la gallina domani. Forse tra i due, paiono suggerire le recenti
posizioni dell'abolizionismo, ormai privo di alcuni dei suoi
padri passati a miglior vita, è meglio scegliere il pulcino:
sgonfiare l'insostenibile elefantiasi del diritto penale e combattere
la cause sociali della devianza sono due strategie che, procedendo
di pari passo, potrebbero condurre a far sì che le persone
possano prendere coscienza dei problemi sociali e li gestiscano,
all'interno di un contesto collettivo, in nome della propria
libertà individuale.
Enrico Torriano
Note
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- G. Rusche - O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale,
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- D. Melossi - M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit.,
pag. 81.
- M. Pavarini, Appendice a Pena e Struttura sociale,
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- Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle
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- Per una disamina, anche critica, del pensiero anarchico sul
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è consultabile gratuitamente in www.inventati.org/apm/abolizionismo/hulsman/hulsman.pdf.
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è consultabile gratuitamente in www.inventati.org/apm/abolizionismo/modica/modica.pdf.
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- A. Brossat, Scarcerare la società, cit., pag.
120.
- N. Christie, Una modica quantità di crimine,
cit., pag. 159; T. Mathiesen, Perché il carcere?,
cit., pag. 193.
- M. Pavarini, La crisi della prevenzione speciale,
cit., pag. 194.
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