La
Megamacchina ovvero la scienza al servizio del capitale
La tecnologia non si è inserita nelle nostre esistenze
e nel sistema economico che domina il mondo in poche brevi tappe:
è un'intera architettura ideologica che è andata
strutturandosi e che oggi vediamo prevalere.
L'idea che le tecniche debbano essere al servizio dell'uomo
costituisce il quadro semplice ed efficacissimo del trionfo
della tecnica, che all'inizio è semplicemente un prolungamento
della mano. La crescita della complessità delle tecniche,
coniugandosi all'elaborazione di un discorso tecnologico che
la giustificava, ha fatto sì che oggi le tecnologie non
siano più estensioni della sola mano, ma di tutto il
corpo e perfino del nostro cervello. L'espressione più
compiuta di questo fatto sono gli algoritmi, che permettono
di pensare soluzioni a problemi che non saremmo in grado di
risolvere, se non ricorrendo a innumerevoli equazioni: il mito
del Big Data ne è la personificazione quasi divina.
Andrebbe tutto benissimo, nel migliore dei mondi, se questo
salto di qualità, dalla mano al cervello, si fosse attuato
senza nessuna conseguenza se non un miglioramento – accreditato
dei cittadini dei paesi industrializzati – del nostro
livello di vita, come segnala Marcuse. Ora, le tecnologie si
sono gradualmente emancipate, non dall'umano, come si legge
troppo spesso in una visione totalizzante, ma da coloro che
non sono più in grado di comprenderle e che rappresentano
indubbiamente l'immensa maggioranza dell'umanità, ma
non l'umanità in sé. È così che
alla massa degli ignoranti formata da noi gli esperti appaiono
i padroni del mondo.
Tale è il modello della Megamacchina, descritta da Lewis
Mumford in un'opera che probabilmente è destinata a essere
a lungo la descrizione profetica del mondo contemporaneo, Il
mito della macchina. Il potere ora è faccenda che
riguarda gli esseri umani che l'incarnano, gli esperti che conoscono
la parte della Megamacchina al cui controllo sono stati formati,
e riguarda parimenti l'incapacità di questi stessi esperti
di esprimere un punto di vista globale sul sistema, senza dimenticare,
ovviamente, l'accettazione passiva da parte delle masse del
dominio di costoro grazie a questo sistema,
Le masse, infatti, sono contente dei vantaggi procurati dalla
Megamacchina, essenzialmente grazie all'innalzamento del livello
di vita nei paesi industrializzati, sebbene oggi la paura prevalga
sulla soddisfazione – ma la paura è ancora un'alleata
della Megamacchina, perché è paura di perdere
ciò che è stato acquisito. Gli esperti, per parte
loro, sono restii a tentare un approccio globale al sistema,
perché se lo facessero perderebbero il riconoscimento
delle proprie competenze da parte dei loro pari e si abbasserebbero
al rango di allarmisti o di cittadini comuni che non incidono
sul sistema nel suo insieme.
Così, la Megamacchina si definisce non solo come un
modo di produzione, incarnato da esseri umani che la servono
e l'accettano, ma anche come un discorso sul potere, un discorso
politico che nasconde la realtà del dominio dietro alla
razionalità della tecnologia attuata e accettata degli
esseri umani.
Ne deriva che la razionalità politica non è più
comprensibile ai cittadini, proprio perché è dominata
da un'altra razionalità, occulta: quella di un sistema
economico dominato da realtà tecnologiche. Tra tali realtà,
l'immediatezza nata da internet e la modalità di governo
tramite gli algoritmi svolgono un ruolo centrale, ma l'industria
nucleare, le biotecnologie o l'industria del petrolio, senza
dimenticare l'industria culturale, sono state a loro volta protagoniste,
da circa un secolo, dell'emergere di questo modello politico
fondato sulla razionalità tecnologica.
Un ritorno alla democrazia autentica comporta non solo scelte
politiche, sociali e culturali, ma anche tecnologiche. Le tecnologie
utilizzate quotidianamente dagli esseri umani devono diventare
comprensibili da parte di coloro che vorranno fare lo sforzo
di capirle.
Si tratta non di sapere se può esistere una scienza emancipatrice,
ma di immaginarsi se sia possibile che una scienza sia emancipatrice
se la società non è prima emancipata dal dominio
della razionalità tecnologica.
Philippe Godard
Arbois (Francia)
traduzione di Guido Lagomarsino
Controreplica.../Dubbi, che
la storia conferma
Sullo scorso numero Domenico
“Mimmo” Pucciarelli aveva criticato la vignetta
di Anarchick apparsa in
“A” 404 (febbraio 2016). Di seguito avevamo
pubblicato la replica
di Roberto Ambrosoli, padre di Anarchik. Ora i due tornano
a replicarsi.
Quando mi innamorai dell'anarchia, seguii quelle che erano da
tempo le mie aspirazioni personali, tra esse l'antimilitarismo
e per conseguenza l'idea che non avrei mai fatto la guerra.
Qualsiasi guerra? Si qualsiasi guerra, perlomeno in teoria,
che poi se fossi un curdo, se fossi un siriano, se vivessi in
un'altra regione del mondo dove le armi spianano la strada della
«pace»... non so cosa farei.
Probabilmente cercherei di fare comunque qualcosa contro la
guerra, ma tutto ciò mi sembra un opzione teorica, bazzecole
difronte alla realtà, quella che uccide con le armi fabbricate
dalle nostre care industrie d'armamento...
Roberto fa poi il parallelo tra la guerra della CNT/FAI e lo
spirito libertario che coinvolse milioni di persone a tentare
di costruire una società libertaria, e «l'organizzazione
sociale dichiaratamente libertaria» degli amici curdi
nel territorio da loro conquistato.
Due brevi considerazioni: che il PKK un partito marxista autoritario
diventi di un colpo «bookchiniano», è probabile,
ma nella realtà non credo che sia tutto cosi chiaro e
semplice, e mi chiedo cosa farebbero Mimmo e Roberto se vivessero
in quella regione. Io non sarei capace di prendere le armi,
non saprei uccidere qualcuno, non saprei ubbidire ciecamente
agli ordini venuti da leader naturali o rappresentanti del popolo...
E poi non mi basta pensare che ci siano delle similitudine tra
la guerra del PKK di oggi e quella della CNT/FAI di ieri, per
«aderire»...
Da tempo sappiamo che anche nelle Spagna rivoluzionaria non
tutto «era libertario», e non solo a causa della
guerra. E sappiamo che delle contraddizioni esistono nella lotta
dei curdi.
Tutto ciò non mi ha impedito per quarant'anni, di far
conoscere la storia della Spagna rossa e nera, e di partecipare
ultimamente a una manifestazione e un dibattito insieme ai curdi
qui a Lyon.
Caro Roberto, io avevo rilevato nel tuo disegno che il nostro
Anarchik aveva espresso un'opinione, come dire, un po' sbrigativa
su un argomento sul quale da quarant'anni cerco di riflettere.
Infine, per non portarla per le lunghe, non credo che abbia
le energie e la possibilità di proporre in queste poche
righe delle «argomentate contestazioni» per farti
cambiare opinione. Non era questo il mio obbiettivo, ma solo
quello di esprimere dei dubbi su un'affermazione espressa da
un caro amico, dei dubbi che purtroppo la storia spesso conferma...
purtroppo.
Domenico “Mimmo” Pucciarelli
Lyon (Francia)
...e controcontroreplica/Ma
il PKK mi piace molto più di altri
Prima considerazione. Che il PKK sia passato da un'impostazione
marxista autoritaria a una libertaria mi sembra un fatto di
per sé positivo, e comunque non semplicemente “probabile”,
ma certo, stante ciò che sappiamo sull'organizzazione
vigente nelle zone che controlla. “Di un colpo”?
Mica tanto. La valutazione di questo passaggio dovrebbe essere
integrata da qualche considerazione sulla storia personale di
Oçalan, in particolare sulla sua disgraziata “avventura”
italiana, quando la sinistra del nostro paese ignorò
ipocritamente la sua richiesta di asilo e “permise”
che fosse trasferito nel carcere turco dove tuttora si trova
(la storia è nota). Proprio in virtù di quell'organizzazione,
comunque, credo che Mimmo non sarebbe obbligato ad ammazzare
nessuno né a “obbedire ciecamente” agli ordini,
perché la partecipazione alle milizie combattenti è
volontaria (come nella citata Spagna rivoluzionaria).
Seconda considerazione, sulle “contraddizioni”.
Certo ce ne sono nel PKK come ce n'erano nella CNT/FAI. Le prime
sono abbastanza “vaghe” al momento, più “intuibili”
che veramente documentate (cioè provenienti da fonti
non sospette). Sento riferimenti all'uso di attentati kamikaze
(contro obiettivi militari, comunque, non popolazioni civili)
o alla resistenza opposta da curdi maschi alla parità
tra i sessi, o ancora a un certo “culto della personalità”
per Oçalan. Non mi sembrano tali da compromettere la
mia adesione complessiva alla lotta (in tutti i sensi) del PKK.
Ce ne sono altre, più gravi, che giustificano la reticenza
di Mimmo a “aderire”? Vorrei conoscerle, altrimenti
mi sentirei autorizzato a rimandare al mittente l'accusa di
un giudizio “sbrigativo”.
Le seconde (la partecipazione al governo, per dirne una, e non
da poco) sono state ampiamente elencate, soppesate e criticate,
in ambito anarchico e libertario, e non hanno impedito agli
anarchici (Mimmo compreso, a quanto pare) di “aderire”
al senso complessivo di quel grande evento rivoluzionario, attivamente
prima, andando a combattere, e ideologicamente dopo, commentandolo
e traendone insegnamenti.
In conclusione, vorrei fare una mia considerazione. La questione
(diciamo così) mediorientale (Isis, dittature varie,
fondamentalismo islamico, terrorismo, interessi occidentali,
chi è amico/nemico di chi e via discorrendo) non è
una semplice questione di “gusti” personali, sulla
base dei quali decidere “da che parte stare”. Perché
decidere “da che parte stare” (almeno sul piano
ideologico/teorico, dal punto di vista anarchico) è importante,
se non vogliamo restare intrappolati nelle contrapposizioni
delle interpretazioni ufficiali. Bad guys contro good
guys, ma chi sono gli uni e gli altri? E, prima ancora,
ci sono, in questo maledetto inferno d'interessi contrapposti,
dei good guys? Good per noi s'intende. Ci sono,
rappresentati dalle opposizioni laiche alle varie dittature
(religiose più o meno criminali, “democratiche”
più o meno criminali ...), la cui esistenza e attività,
in Iran come in Turchia o altrove, è regolarmente oscurata
e sottovalutata dalla rappresentazione che del conflitto ci
viene offerta quotidianamente dai media. E tra queste opposizioni
(che, se “vincessero”, porterebbero a soluzioni
dense di sviluppi internazionali) ce ne sono alcune che a noi
dovrebbero piacere molto più di altre, il PKK
ad esempio, per i motivi già esposti. La battuta di Anarchik,
caro Mimmo, semplificava un po' il problema, forse, ma non era
affatto “sbrigativa”. Baci.
Roberto Ambrosoli
Torino
Botta.../Il carcere è
una malattia o una medicina?
Ho scoperto la mia anima anarchica da quasi venticinque anni
(oggi ne ho 58) senza sforzi in maniera del tutto naturale come
respirare, semplicemente specchiandomi nelle letture di certi
autori cari al nostro amico fragile Faber da cui fui ispirato.
Trovo mie molte argomentazioni che trattano dei Rom, di Ecologia,
dei Profughi, delle Guerre, delle Donne, delle Prevaricazioni
a tutti i livelli e mi schiero ad oltranza in difesa dei più
deboli.
C'è, però, un argomento che faccio fatica ad accettare
in quanto fondamento della dottrina libertaria, ed è
quello relativo al carcere che si vorrebbe eliminato. Fortunatamente
per me, fino ad ora non ho avuto modo di sperimentare un soggiorno
nelle patrie galere, ma da quello che leggo e ho modo di ascoltare
ritengo che ci siano tutte le premesse legate alle condizioni
di inumana vivibilità per sprangarne gli accessi in entrata
e raderli al suolo. Tuttavia, vorrei che qualcuno/a mi spiegasse
perché un omicida a 360 gradi, accertato a 360 gradi,
non debba pagare un debito morale con la collettività
umana raccolto tra i suoi pensieri in un luogo sorvegliato per
un numero di anni proporzionato al suo crimine? E i delitti
commessi sugli animali li lasciamo impuniti perché gli
animali sono vite di serie B? Chiaramente i crimini commessi
non hanno lo stesso peso pur essendo di uguale stampo e meriterebbero
una lettura differente e una diversa sanzione, per cui oltre
ai muri, andrebbero rasi al suolo anche gli attuali giudizi
di valutazione.
Consideriamo ad esempio i politici o i top-manager nostrani,
presi con le mani nel sacco per una tangente o attivamente coinvolti
in un'azione di malaffare per un arricchimento personale durante
la gestione di un evento. Questi figli della Lupa Furba, andrebbero
messi in carcere senza alcuna possibilità di uscirne
se non altro per aver voluto arraffare l'impossibile. Figli
di Topona che godono di stipendi che non so, che nuotano in
mezzo a privilegi che non conosco, che legano a carriere immeritate
i propri figli e difendono il proprio status con tutti i mezzi
leciti e illeciti di cui dispongono, hanno la faccia tosta di
strafottere quando intorno a loro si perde un posto di lavoro
e la povertà attanaglia più famiglie rassegnate
a vedere i propri figli senza futuro.
Un saluto da un convinto @narchico incazzato!
Pasquale Palazzo
Cava dei Tirreni (Sa)
...e risposta/Un ergastolano
incazzato risponde a un anarchico incazzato
Ciao Pasquale,
la redazione di “A” mi ha chiesto se mi andava di
rispondere alla tua lettera dal titolo: “Il carcere è
una malattia o una medicina?” Inizio a risponderti citando
questa frase di William James: “Non si potrebbe concepire
una punizione più diabolica di quella di vederci strappati
dalla società e di essere totalmente ignorati dai membri
che la compongono”. Avrai già capito che per me
il carcere è una malattia che ti porta lentamente alla
morte interiore e aggiunge solo male ad altro male.
Penso anche che non dovrebbe essere facile mandare qualcuno
in carcere sapendo che in Italia la galera è il luogo
più illegale di qualsiasi altro posto, eppure nel nostro
paese si fa di tutto per risolvere i problemi sociali con le
pene carcerarie. Sono però anche d'accordo con te che
chi si rende colpevole di gravi reati finanziari e di corruzione
dev'essere severamente punito, ma non certo con o più
galera, ma con pene alternative al carcere, levandogli il maltolto.
Credo che questo lo sappiano anche i nostri politici, che non
basta alzare le pene per fare diminuire la piccola o grande
criminalità, altrimenti sarebbe tutto troppo semplice
e lo farebbero tutti i paesi e nazioni.
È vero piuttosto il contrario: proprio gli stati che
hanno la pena di morte o le pene più alte sono quelli
che producono più violenza sociale. La classe politica
lo sa, ma per un po' di consenso o per un pugno di voti si venderebbe
l'anima al diavolo. Già le nostre “Patrie Galere”
nella stragrande maggioranza sono piene di emarginati sociali,
extracomunitari e tossicodipendenti. Adesso, per esempio, dopo
l'ultima legge liberticida sul reato di omicidio stradale, le
carceri si riempiranno anche di “pirati della strada”.
E molti di loro andando in galera perderanno il lavoro e probabilmente
qualcuno anche la famiglia. Poi quando usciranno non gli rimarrà
altro che fare quello che il carcere gli avrà insegnato
di fare. E probabilmente in seguito diventeranno disadattati
o dei veri e propri delinquenti.
Credo che la frequenza di ricorrere sempre e comunque al carcere
per risolvere qualsiasi problema sia un segno di debolezza o
di vigliaccheria. Se già per chi ha fatto delle scelte
di vita sbagliate per mestiere le pene carcerarie non sono un
deterrente, come potranno mai esserlo per le persone che non
fanno una vera e propria scelta deviante o delinquenziale? In
tutti i casi io credo che si sbagli chi pensa che mandando delle
persone in carcere ci possa essere più sicurezza o giustizia
sociale, e di grosso. Pasquale, penso che il carcere nella maggioranza
dei casi rechi più danni che benefici, perché
quando sei chiuso in una cella è ancora più difficile
crearsi un'educazione o una sensibilità civica. Soprattutto
per questo penso che le prigioni dovrebbero servire per difendersi
e a fermare le persone più pericolose, ma non certo per
scontare solo una pena afflittiva fine a se stessa. Certi reati
non li punirei mai con il carcere, lo farei molto più
duramente con pene risarcitorie educative e intelligenti. Credo
che sarebbe più utile per la società punire chi
fa un reato senza mandarlo in carcere, obbligandolo ad accudire
disabili o anziani, che non farlo stare chiuso in una cella
per anni e anni senza fare nulla.
Pasquale, per tanti anni ho lottato una guerra spietata contro
l'Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) e con una
pena disumana che non finisce mai o finisce nel 9.999. Oggi
leggevo che molti veterani quando rientrano in patria dalla
guerra si trovano nei guai con la giustizia, nonostante prima
non avessero mai avuto precedenti penali, né trascorsi
criminali o devianti. Queste parole mi hanno fatto pensare che
se nell'anno 9.999 uscirò non sarà facile per
me rientrare di nuovo nella vita e nella società, perché
in questi venticinque anni di carcere ho provato tanta sofferenza.
E ho paura che non riuscirò più a liberarmi dalle
catene interiori che mi sono creato per sopravvivere.
Ti mando un sorriso anarchico fra le sbarre.
Carmelo Musumeci
casa circondariale di Padova
A proposito di prostituzione,
porno e libertà
Il lavoro rende liberi, io ci credo davvero. Credo che il lavoro
nobiliti quando si coniuga con ciò per cui la persona
vive, la propria passione. Sappiamo bene che nel mondo dell'impiego
questa circostanza è molto remota, però, a mio
parere, il lavoro mantiene comunque una connotazione positiva
e cioé grazie ad esso le persone possono compiere traiettorie
di miglioramento sociale ed economico. Sono d'accordo quindi
con Marvi Maggio
(“A” 404, febbraio 2016) quando afferma che la subordinazione
al lavoro viene accettata per necessità di disporre di
un reddito, ma sono assolutamente scettico quando afferma che
tale subordinazione provoca molta sofferenza. Dipende dai contesti.
A me sembra che nella cronaca quotidiana sia piuttosto il contrario.
Sui giornali si afferma cioé che sia la mancanza di lavoro
più che il lavoro stesso a creare una condizione di sofferenza
diffusa.
Ma vorrei oggi parlare d'altro, di sesso e di due sue manifestazioni:
prostituzione e pornografia.
Credo che un paese che regolamenti la prostituzione in maniera
tale da permettere a chi lavora nel settore di essere al riparo
da violenze di strada e ricatti e di poter quindi, come ogni
altra attività, versare le tasse e contribuire pertanto
alla vita collettiva e alla salvaguardia della propria (in chiave
pensionistica) sia un paese dicevo, che si possa reputare civile.
Questo traguardo non metterebbe automaticamente fuori gioco
la compravendita sessuale in mezzo alle strade, dove i soggetti
che offrono tali prestazioni sono spesso e malvolentieri vittime
di tratta e quindi al di fuori di qualsiasi orizzonte di riscatto,
ma aiuterebbe a far comprendere che lo stato si muove in una
direzione di riconoscimento di questa professione e quindi cerca
di inquadrarla a scapito di queste realtà che oggi sono
preponderanti e un domani potrebbero essere marginali.
Questo passaggio di paradigma potrebbe essere percorso domani,
semplicemente riconoscendo ai/alle professionisti/e del sesso
la stessa partita IVA che ogni libero professionista abilita
per lavorare in questo regime del mercato del lavoro. Il famoso
popolo delle partite IVA non credo si scandalizzerebbe e forse
il gettito fiscale prodotto dai/lle professionisti/e del sesso
potrebbe far scendere quello da sciacalli che strozza sul nascere
la voglia di lavorare per migliorare la propria condizione e
dare un futuro alle prossime generazioni. Oggi, al contrario,
si lavora per dare un presente allo stato.
Immaginiamo che ciò che ho proposto sia una realtà
conclamata. Un/a professionista del sesso è tale perché
ha scelto di vendere il proprio corpo per attraversare più
agevolmente la propria esistenza. Avrebbe potuto lavorare nella
ristorazione, nell'educazione, nelle risorse umane, nei trasporti
etc. etc ebbene, un mero calcolo economico l'ha convinta/o che
nessuno di questi impieghi avrebbe permesso di mettere da parte
lo stesso gruzzolo che vendendosi al miglior offerente. Io credo
che questa scelta vada rispettata, senza moralismi rivoluzionari
di sorta che mettano in mora la facoltà di ognuno di
noi di disporre del proprio corpo senza nuocere, ma non è
proprio questo il caso, al prossimo. Queste persone insomma
non decidono di essere servi, ma, come agenti economici razionali,
massimizzano la loro felicità e se hanno deciso che questa
sia la via appropriata (attenzione possono sempre cambiare mestiere)
che questa via venga rispettata senza che le venga attribuito
un alone di dominazione e violenza che viene a decadere nel
momento stesso nel quale alla vera dominazione arbitraria, si
sostituisce una semplice transazione economica che livella tutto
questo retaggio primitivo e lo converte in uno snodo sul quale
due volontà si stringono in un patto. Tu vendi ed io
sono interessato e compro.
Una persona che ha deciso di lavorare in questa industria non
sarebbe in questo caso “un oggetto vuoto pronto ad assumere
i desideri di altri come suoi”, ma un soggetto pienamente
consapevole della propria scelta che se ha deciso di assumere
desideri di altri come propri, lo ha fatto in seguito ad un
patto economico ben chiaro (e non in una cornice di asimmetria)
ed entro dei limiti di agibilità ben codificati e conosciuti
da entrambe le parti. Vorrei ragionare su quanto affermato nell'articolo
al quale rispondo: “Se la compravendita nel mercato capitalista
è sempre intrisa di rapporti dissimmetrici e ineguali
fra venditore e compratore, la compravendita di sesso è
sempre intrisa di rapporti disimmetrici e iniqui fra uomini
e donne”.
Se analizziamo questa frase credo sia utile ricordare quella
malizia che i più vecchi insegnavano sul test a crocette
per ottenere la patente, ossia, tutte le frasi che contengono
MAI o SEMPRE sono false: io non vedo il decantato rapporto asimmetrico
fra venditore e compratore quando vado in libreria e mi compro
A e se comunque rapporto asimmetrico debba essere, questo è
sempre a favore di chi vende, di chi mette a disposizione un
bene (una rivista o il proprio corpo) e ne decide la vendita
per un certo prezzo. Quando un uomo va con una prostituta sa
benissimo che il rapporto sessuale che si produrrà sarà
solo un simulacro di quello che avviene quando invece del denaro
vi è il sentimento. Tale rapporto si produrrà
in circostanze altamente codificate, dove la prostituta decide
cosa è accettabile e cosa non lo è, chi vende
insomma, delimita in anticipo, durante la contrattazione, il
terreno sul quale è disposto a darsi e quello che invece
rimane fuori dall'accordo.
Nell'articolo pubblicato su “A” 404 oltre all'argomento
prostituzione si affrontava anche quello del porno. Io credo
in prima istanza che sia molto fuorviante liquidare entrambi
come: “ prodotto della sopraffazione [...] intrisi di
rapporti asimmetrici e iniqui fra donne e uomini.” Spiegare
questi fenomeni come se fossero la stessa cosa credo non sia
utile a carpire le dimensioni concrete di entrambi ed in aggiunta
io non percepisco questa violenza, se l'ho spiegato prima per
la prostituzione, neanche a livello d'industria pornografica.
Nuovamente un soggetto economico razionale compie una scelta.
Dov'è allora la violenza nello scegliere di essere pagati
per fare dei film che la gente guarda? Si potrà rimproverare
che nella filmografia pornografica le immagini riproducono modelli
di dominio dell'uomo sulla donna o viceversa, beh in questo
caso credo che non sia colpevolizzando un'espressione della
società che si giochi a favore delle supposte vittime:
se esistono tali meccanismi questi vengono originati al di fuori
dei set in questione, e se sono davvero pericolosi perché
nuocciono ad un pieno e completo sviluppo della propria sessualità
è perché sono pervasivi della vita di tutti i
giorni, perché si inscrivono in ogni relazione interpersonale,
non certo perché vivendo in un mondo di commercio chi
ha fiutato l'affare lo ha sviluppato per quel che è:
a una domanda una corrispettiva offerta.
Io credo che voler separare la sessualità dalla società
nella quale si produce sia come voler affermare che il giornalista
debba essere obiettivo. Una fandonia pazzesca. Come il giornalista
onesto ammette quest'impossibilità e la esplicita dichiarando
la propria formazione e le proprie simpatia e a partire da quel
momento il lettore ha gli strumenti per pesare l'analisi giornalistica
proposta, allo stesso modo è impossibile scindere un
rapporto sessuale dalle dinamiche di potere che sussistono al
di fuori del letto. Secondo me, concludendo, bisogna interrogarsi
su tali dinamiche, criticarle, superarle, ma a me resta oscuro
il significato di questa frase: “il cambiamento rivoluzionario
è che la sessualità sia un rapporto fra persone
che esula dagli scambi economici e di potere”. Non è
sufficiente che vi sia sentimento, anzi onestà nei sentimenti,
che non per forza devono essere di amore, ma che le persone
che si uniscono sessualmente debbano essere reciprocamente onesti
sul motivo della loro unione?”
Fabrizio Dentini
Marseille (Francia)
Ricordando
Enrico Maltini/ Un impegno lungo una vita contro le menzogne
del Potere
Nella
notte tra sabato 26 e domenica 27 marzo scorsi, a Milano,
è morto Enrico Maltini. Era nato a Roma nel 1939,
aveva 77 anni. Andato in ospedale per alcuni controlli,
era stato ricoverato per un tumore all'ultimo stadio.
Nel giro di poco più di un mese è sopraggiunta
la fine.
Quattro giorni prima eravamo andati, Aurora e io, a trovarlo
all'ospedale di Niguarda. L'avevamo trovato visibilmente
sofferente ma lucido, ironico e impegnato. Parlava con
(nemmeno) un filo di voce: difficile il dialogo Scherzammo,
per quanto si possa in simili situazioni. Parlammo della
seconda edizione, riveduta e ampliata, del libro E
a finestra c'è la morti. Pinelli: chi c'era quella
notte (Zero in Condotta, 2013) scritto con Gabriele
Fuga, edizione che è in via di preparazione. Gli
chiesi di darcene un'anticipazione per “A”,
come avevamo fatto con la prima edizione: “non credo
che ci sarò” mi disse con un sorriso amaro.
Aveva sul comodino un librone Rizzoli I nemici della
Repubblica – storia degli anni di piombo, di
Valdimiro Satta: “un caso patetico – mi disse
– uno che si imbatte nelle responsabilità
di tanti politici e personaggi vari, ma li giustifica
tutti, e con loro tutte le Istituzioni, perché
poverini non avevano capito, non volevano far del male.”
Enrico mi fece vedere una serie di appunti che stava prendendo,
citazioni riprese dal testo, sue osservazioni. “Magari,
se riesco, te ne mando una recensione per “A”,
sai qui non ho il computer. Vedremo.”
Quella recensione non la leggeremo mai.
Piazza Fontana, gli anni di piombo, le stragi. In sostanza,
il filo rosso (o rosso-nero, se preferite) di questa persona
che per gran parte della sua vita si è occupato,
da varie e differenti angolature, della violenza del potere,
della solidarietà con i perseguitati e gli innocenti,
della verità storica offuscata da quella politica
imposta dai potenti di turno. Un ricercatore non professionale,
quindi non un accademico – lo era su un altro fronte,
quello di docente universitario nella facoltà di
Agraria. Una persona convinta del compito che si era scelto,
appassionato, rigoroso, metodico. Quante migliaia di pagine
di libri, sentenze, atti giudiziari, carte di polizia,
ecc. si è letto nel corso di decenni, al punto
da diventare quasi un archivio egli stesso. Quando non
ci si ricordava un nome, una circostanza, bastava un mail
o una telefonata all'Enrico (con l'articolo, alla lombarda)
per trovare una piccola soluzione.
Dietro questa massa e messe di nomi, episodi, ecc. saltava
fuori inevitabilmente la passione, la volontà di
non regalare all'avversario nemmeno una pagina di storia,
costruita sulla menzogna, gli omissis, la confusione voluta.
Quell'istanza di verità che ha segnato la vita
di Enrico.
Dopo l'esaurimento della sua esperienza all'interno dei
Gruppi Anarchici Federati, con lo scioglimento del gruppo
Milano 2 intorno alla metà degli anni ‘70,
Enrico è rimasto un “cane sciolto”,
un compagno, uno spirito libero, che di volta in volta
si è relazionato con i compagni con cui condivideva
una battaglia concreta.
Enrico ha continuato fino all'ultimo, in questo impegno
contro le menzogne del Potere con la P maiuscola. Un impegno
che abbiamo sempre condiviso, nel reciproco rispetto.
Perchè era ed è nel DNA di “A”.
Paolo
Finzi
P.s.
In questo numero pubblichiamo l'ultimo contributo (postumo)
di Enrico ad “A”. Le
bozze però gliele avevamo portate in ospedale e
le ha corrette lui. Se qualcuno trova un errore, sa con
chi prendersela.
|
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Massimiliano Tittarelli (Jesi
– An) 10,00; Roberto Chiacchiaro (Cinisello
Balsamo – Mi) 10,00; Paolo Facchi (Casatenovo
– Lc) 10,00; Pierfrancesco Borsetta (Milano)
35,00; Alessandro Castaldi (Colle Val d'Elsa –
Si) 100,00; Diego Fiorani (Concesio – Bs) 10,00;
Giuseppe Loche (Casalmaggiore – Cr) ricordando
Aldo Braibanti, 20,00; Roberto Foco (Alessandria)
15,00; Massimo Ortalli (Imola – Bo) 20,00; Mauro
Pappagallo (Torino) 10,00; Aurora e Paolo (Milano)
ricordando Amelia Pastorelli e Alfonso Failla, 500,00;
Fabiana Antonioli (Torino) “dalle vendite del
Capro di Sabatino”, 50,00; Silvio Sant (Milano)
10,00. Totale € 800,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Paolo
Vedovato (Bergamo); Verena De Monte (Bolzano); Alessandro
Cantini (Andora – Sv); a/m Mauro Decortes, Bruno
Riva (Savosa – Svizzera); Gianmarco Catalano
(Catania); Cariddi Di Domenico (Livorno) ricordando
Armida Toncelli e Muzio Muto; Giulio Canziani (Castano
Primo – Mi). Totale €
700,00.
|
|