migranti
No Border. Ci proviamo
con testi di Maria Matteo, Giulio D'Errico, Samuel Lisse, Emma Zaza e Ludovico per il freespot di Ventimiglia
Identificare, sgomberare, ricollocare. Come nell'ultimo anno sono stati accolti i migranti, tra Frontex, campi profughi e centri di detenzione amministrativa. Pubblichiamo un articolo-quadro e tre resoconti di attivisti impegnati in altrettanti avamposti della Fortezza Europa: Lesbo (Grecia), Calais (Francia) e Ventimiglia (Italia).
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Lesbo (Grecia), 25 ottobre 2015 - I migranti si avvicinano alla costa nord dell'isola greca. La Turchia è visibile sullo sfondo |
La guerra in casa
di Maria Matteo
Un argine all'odio c'è. Sono i No Border
che aiutano a bucare le frontiere, portano qualcosa da mangiare,
si mettono di traverso per impedire le deportazioni.
Bombe nei ristoranti, allo stadio, in aeroporto, in metropolitana, in una sala concerti.
Oggi esco, prendo l'autobus e forse non arrivo al lavoro. Domani c'è un esplosione e mio figlio non torna più.
Queste cose una volta succedevano in posti lontani, pericolosi, posti dove la guerra è “un'abitudine”. Come se fosse possibile assuefarsi all'orrore.
Da qualche tempo la guerra è venuta a cercarci a casa. La convinzione che la guerra fosse altrove, passo a passo, si sta frantumando. Ma tenace resta l'illusione che sia possibile ricacciarla indietro. Chiudendo le frontiere, cacciando gli immigrati, sigillando i quartieri poveri, mettendo le città in mano ai militari, piazzando telecamere e orecchie elettroniche ovunque.
Le nostre scarne libertà vengono frantumate pezzo a pezzo senza che la maggior parte della gente reagisca. La paura è un'arma potente. Chi governa ne profitta per prendersi più potere, per proclamare lo stato di eccezione permanente, per mettere sotto controllo ogni forma di insorgenza sociale.
Quando tutti sono nel mirino, non c'è né riparo né protezione. Se il nemico è disposto a morire pur di uccidere, prima o poi colpisce di nuovo. Se l'obiettivo è il terrore, lo si raggiunge facilmente.
Dopo gli attentati dello scorso novembre Hollande ha reagito bombardando le città irachene controllate dall'Isis ed ha proclamato lo stato di emergenza. Doveva durare una settimana, rischia di estendersi all'infinito. L'eccezione diventa norma.
Una formula semplice quella di Hollande. Vendetta fuori dai confini, militari nelle strade di casa propria.
Mentre scrivo non si è ancora spenta l'eco delle esplosioni all'aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles. La capitale belga, i suoi quartieri più poveri, dove vivono gli immigrati di ieri e di oggi, sono stretti in una morsa dalla polizia.
Si moltiplicano le polemiche sulle “falle” dell'intelligence belga, per mantenere l'illusione che gli attentati possano essere realmente prevenuti ed impediti. Chi li attua ha dalla sua la scelta di rinunciare a tutto, anche alla vita.
In questi ultimi decenni il fondamentalismo islamico è stato tollerato, foraggiato, sostenuto da paesi non islamici, convinti di poter usare questi scomodi alleati senza scottarsi le mani.
Dalle Torri Gemelle in poi sappiamo che non è così: i fautori del jihad globale non esitano ad esportare la guerra negli Stati Uniti e in Europa. Non esitano a proporre la loro propaganda agli esiliati delle metropoli, agli immigrati senza diritti, ai nuovi cittadini senza cittadinanza reale, ai nipoti del colonialismo che vivono in Europa.
Chi muore per uccidere ragazzi che ballano, chi spara sino all'ultimo colpo in un ristorante affollato, non modifica le politiche dei governi europei ma mostra in un'ultima tragica fiammata una potenza straordinaria, capace di sedurre altri, di allargare le fila di chi si arruola e di chi, sommessamente, plaude.
Come Crociati e Saraceni
A Torino, nella zona di porta Palazzo, nei negozietti a ridosso del più grande mercato d'Europa, sino a qualche anno fa vendevano sottobanco lampade che rappresentavano le Twin Towers spezzate da un aereo. La gran parte degli acquirenti e dei venditori credo abbia continuato la propria vita all'ombra della Mole. Resta il fatto che quel soprammobile kitsch fa mostra di sé in qualche salotto torinese. Un simbolo di rivincita, che nulla muta nella materialità del vivere, ma consente a chi l'acquista di condividere una briciola di quella potenza suicida.
Spargere morte per le strade d'Europa serve ad infrangere il mito della forza invincibile dell'Occidente, ad alimentare un immaginario di rivalsa, offrendo uno spazio simbolico dove Crociati e Saraceni tornano a sfidarsi dopo il lungo buio coloniale.
La religione diventa la solida roccaforte che cementa l'identità e un senso di comunità che gli Stati nazionali, figli della spartizione coloniale, non danno a sufficienza. Specie in Europa la cesura di classe perde importanza nella fratellanza del jihad globale e le istituzioni caritative islamiche colmano il vuoto determinato dalla scomparsa progressiva del welfare.
Il corrispondente del Fatto quotidiano da Idomeni, villaggio greco al confine con la Macedonia, racconta dei profughi intrappolati nel fango, tra filo spinato ed un fiume in piena e scrive: “Non ci odiano ancora”. Fino a quando i profughi di guerre sostenute e foraggiate dall'Europa, dagli Stati Uniti, dalla Russia non odieranno chi ci vive?
Sino a quando i profughi rinchiusi in campi di detenzione in Grecia, intrappolati in Turchia, strangolati dai trafficanti d'uomini, non odieranno gli europei, i cui governi stanno pagando quello turco perché spranghi le frontiere, impedisca le partenze, chiuda in trappola uomini, donne e bambini? I profughi e gli emigranti diventano facile preda di sfruttamento, violenza, soprusi. Amnesy International scrive che nei campi con il marchio Ue in Turchia, i diritti umani sono solo una favola amara, le cronache riportano storie di lavoro nero, paghe da fame, ricatto continuo.
Poco importa. Esternalizzare la brutalità, affidare alla Turchia il lavoro sporco è una pratica che l'Italia sperimentò con successo pagando la Libia di Gheddafi perché serrasse le frontiere, impedisse le partenze, accogliesse con disinvoltura i respinti in barba alle convenzioni internazionali sui richiedenti asilo. Queste scelte hanno un prezzo ben più alto dei milioni di euro versati oggi alla Turchia.
Svuotare il mare con un cucchiaino
Sino a quando non ci odieranno? Sino a quando non accuseranno tutti quelli che vivono al di là del filo spinato di essere responsabili delle loro vite sospese, ricattate, senza futuro?
Un argine all'odio c'è. Sono i No Border che aiutano a bucare le frontiere, portano qualcosa da mangiare, si mettono di traverso per impedire le deportazioni.
Sono i tanti greci che aiutano con cibo, medicine, abiti, la gente in viaggio.
È come svuotare il mare con un cucchiaino ma lascia comunque il segno, spezza l'accerchiamento, mostra il volto dei nemici delle frontiere, allude a relazioni politiche e sociali che rendano pratica viva la libertà, l'eguaglianza, la solidarietà.
Non c'è più spazio per le parole, perché le parole sono state usurate, abusate, logorate. In nome dell'umanità si bombarda, si tortura, si stupra, si incarcera. I corpi dilaniati che la pornografia mediatica ci mostra con finto pudore sono l'immagine della democrazia reale, che ha annegato nel sangue il proprio nucleo assiologico. “È una bestemmia questa libertà!” Così suona una canzone che ricorda la disperata rivolta della gente del Meridione d'Italia beffata dalla retorica risorgimentale, divenuta feroce occupazione militare savoiarda.
Un canto simile potrebbe echeggiare tra le rovine delle città bombardate in Iraq, in Siria, in Afganistan.
Ma non è la cifra della jihad, perché la libertà tradita, la dignità calpestata si traducono in rigetto dell'autodeterminazione delle persone, in adesione ad una religione che offre il quadro concettuale per combattere la libertà, combatterne l'idea, combatterne le manifestazioni concrete.
La bestemmia diventa la libertà stessa.
Le donne ne sono le principali vittime, perché la libertà femminile è in sé una sfida a un ordine eminentemente patriarcale, che trova la propria massima espressione nella guerra. La ferocia del Califfato verso le donne e le bambine è un fenomeno violentemente reattivo, il terreno sul quale si gioca una partita di potere in paesi dove la libertà femminile aveva pur compiuto qualche passo.
Nella stessa area geografica, nei cantoni del Rojava, dove prevale un'impostazione laica e libertaria delle relazioni sociali, la libertà femminile è uno dei cardini delle esperienze di autogoverno.
Sbaglia chi considera l'Islam radicale un fenomeno antimoderno, perché della modernità mutua sia l'apparato tecnologico, sia l'assunzione di un'economia di mercato, sia l'attitudine a costruire un apparato amministrativo statale.
Il nucleo fondante dell'Isis è la chiara consapevolezza che la propria forza è nella negazione di ogni relativismo, di ogni diversità. Perché distruggere le vestigia in pietra di antiche civiltà, rimaste intatte durante centinaia di anni dal diffondersi dell'islam? Perché tanto accanimento contro minoranze etniche e religiose radicate in Iraq da millenni, come i cristiani della piana di Ninive e gli ezidi di Shengal?
Semplice. Quando la libertà diventa in sé una bestemmia, le donne vanno ridotte in schiavitù, i non islamici e il passato preislamico vanno eliminati. Non c'è spazio per null'altro. Altrimenti non si spiegherebbe la follia strategica di aver fatto saltare gli equilibri in Iraq, mandando per aria una rete di alleanze, sin troppo disponibili con le milizie islamiste in Siria.
Il lessico della libertà
I sintomi che qualcosa di nuovo e inquietante stesse maturando
anche in Europa c'erano tutti già dieci anni fa. La grande
rivolta delle banlieue francesi del 2005 scatenò
sociologi e politologi, tifosi delle rivolte e amici dell'ordine
costituito. Vennero spesi fiumi di parole per una rivolta che
non prese mai la parola, neppure quella spuria di qualche improvvisato
leader. Nulla. Parlavano le auto bruciate. Per quasi due mesi
sembrava una gara, che infiammò, nel senso letterale,
le periferie dell'Esagono.
Eppure. Bastava dare un'occhiata a questi minorenni, quasi tutti
maschi, che radevano al suolo le proprie scuole, le proprie
cabine telefoniche, le auto dei propri parenti e vicini.
Già allora le parole erano a zero, non c'era lessico
comune, se non una generica inimicizia per la polizia, che mai
divenne alleanza con i sovversivi.
Quando i fuochi si stavano attenuando gruppi di ragazzi di banlieue
attaccarono un corteo di studenti in lotta, picchiandoli e depredandoli.
Niente parole. Le parole disponibili erano andate tutte a male.
Dieci anni dopo, la jihad fornisce il lessico comune. Oggi non
bruciano solo le auto.
Da qui bisogna ripartire. Il lessico della libertà ha
bisogno di pratica, di condivisione, di lotte comuni lungo la
cesura di classe, lungo il precipizio della crisi. Crisi economica,
ecologica, di prospettive.
Serve una casa comune, dove le comunità in lotta si inventino
i propri spazi, luoghi, relazioni. Servono mattoni. Il lessico
di una libertà che non suoni come bestemmia si nutre
dalle mani delle anziane donne di Idomeni, che cuciono abiti
e nutrono chi fugge dalla guerra.
Maria Matteo
Fronteggiare
Frontex
di Giulio D'Errico
Fino alla fine di marzo le esperienze di solidarietà
di base sull'isola di Lesbo (Grecia) hanno cercato di porre
un rimedio al sistema ufficiale di gestione dei flussi migratori.
Ecco la testimonianza di un volontario, prima che il centro
di raccolta fosse trasformato in una campo di detenzione.
Raccontare le esperienze di solidarietà che nell'ultimo
anno e mezzo hanno visto la luce a Lesbo e in diverse altre
zone in Grecia è un compito arduo. Al di fuori e contro
i circuiti ufficiali di gestione dell'emergenza rifugiati –
Frontex, campi profughi gestiti dall'UNHCR e ONG accreditate
a lavorarvi all'interno, per intenderci – si sono sviluppate
una miriade di diverse esperienze, in un vastissimo spettro
per quel che riguarda dimensioni, caratteristiche, motivazioni,
credenze e convinzioni. Queste esperienze hanno un arco di vita
molto diverso l'uno dall'altra e anche le loro azioni sono cambiate
nel tempo a seconda delle esigenze e delle possibilità.
Lesbo è stato un fortissimo punto d'attrazione per attivisti
e volontari da diverse parti del mondo. A migliaia sono giunti
sull'isola negli ultimi 12 mesi, chi per qualche settimana,
chi per qualche mese, creando gruppi la cui composizione è
estremamente fluida e cangiante.
Dall'estate del 2015 Lesbo è diventata il principale
punto di arrivo per coloro che cercano di raggiungere l'Europa
dal Medio Oriente e non solo. Il conflitto siriano e iracheno
ha costretto centinaia di migliaia di persone a lasciare i propri
paesi d'origine e raggiungere via terra la Turchia. Tanti percorrono
viaggi simili da Afghanistan, Pakistan e Iran. La Turchia è
ormai uno scalo quasi obbligato anche per chi cerca migliori
possibilità dal Nord Africa. Raggiunte le coste Turche,
le isole greche, avamposto della Fortezza Europa, sono ben visibili,
e tra queste Lesbo è una delle più vicine.
Proprio a causa di questa vicinanza anche il ruolo degli scafisti,
tanto sbandierato dai media, si è modificato. A differenza
dei lunghissimi viaggi attraverso il mediterraneo, per raggiungere
Lesbo bastano poche ore di navigazione e quindi la conduzione
delle barche viene affidata agli stessi migranti, che spesso
il mare non l'hanno praticamente mai visto. Per ogni viaggio,
che costa dai 700 euro in su a persona, i trafficanti affidano
la navigazione a una persona che viaggerà sì gratis,
ma accollandosi più o meno consapevolmente la responsabilità
delle vite di coloro che viaggiano con lui e rischi penali molto
grandi.
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Lesbo (Grecia), 25 ottobre 2015 - Una famiglia di migranti
appena approdata sull'isola |
Gestione informale e burocrazia
Moria è un piccolo villaggio a pochi chilometri dal principale
centro e porto dell'isola: Mitilene.
Qui sorge il centro di accoglienza e detenzione, principale
hotspot di Frontex, qui si svolgono le procedure per
poter essere registrati come richiedenti asilo e ottenere i
documenti necessari a transitare fuori dall'isola e, almeno
in teoria, nel resto dell'Europa. Nel corso degli ultimi sei
mesi questa possibilità è stata concessa a sempre
meno persone e il criterio è puramente geografico. La
registrazione è permessa in base alla nazionalità
di appartenenza e, col tempo, le nazionalità accettate
sono andate diminuendo. Per primi è toccato ai paesi
del nord Africa, poi a quelli del Corno D'Africa, poi a Iran
e Pakistan e infine all'Afghanistan. Dalla sera alla mattina,
numerose persone si sono viste rifiutate; è stata loro
negatala possibilità di ottenere qualsivoglia documento
di transito, pur essendo già sbarcate da tempo e in coda
per la registrazione.
Dai primi mesi del nuovo anno queste procedure sono aperte solo
a Siriani e Iracheni.
La capienza di 700 persone dell'hotspot di Moria è
stata raggiunta e superata quasi immediatamente. Le prime tende
al di fuori del filo spinato del campo ufficiale hanno fatto
la loro comparsa fin dalla scorsa estate. Niente cibo, niente
acqua, nessun servizio sanitario. Una collina di ulivi in cui
accamparsi in attesa di essere passati allo scanner delle procedure
di registrazione di Frontex. Solo dopo sono arrivati i volontari.
Con arrivi quotidiani di migliaia di persone, questo campo informale
si è presto riempito; soprusi e violenze non si sono
fatte attendere, come anche i traffici di acqua, cibo, schede
sim e telefoni a prezzi esorbitanti, con ricorrenti visite,
non proprio amichevoli, delle forze dell'ordine greche.
Per affrontare la situazione è stata creata un'associazione
con il preciso scopo di affittare il campo su cui queste tende
sorgevano e garantire così a chi ci viveva la sicurezza
di evitare un possibile sgombero, soprattutto data la vicinanza
con il campo ufficiale.
Nei mesi successivi Afghan Hill (uno dei nomi con cui è
stata chiamata questa collina) si è riempita di persone
e situazioni, di strutture di supporto e reti di solidarietà.
Attivisti da tutto il mondo hanno fatto dell'isola greca la
loro destinazione, creando servizi igienici, cucine, information
points, centri di consulenza legale e psicologica, corsi
di lingua e giochi per bambini.
Il campo si è formato per “strati”, a seconda
delle energie, delle volontà, delle capacità e
dei bisogni di chi lo attraversava. Gruppi di attivisti, piccole
associazioni dai più svariati connotati hanno saputo
e potuto muoversi autonomamente, collaborando, confrontandosi
e alle volte scontrandosi tra loro e con le sempre diverse persone
che vi arrivavano. L'assenza di una gestione dall'alto ha permesso
per lungo tempo a ogni situazione di ritagliarsi il proprio
spazio, con le proprie regole e i propri tempi. Il continuo
ricambio di gruppi e persone crea situazioni molto diverse le
une dalle altre, nelle dinamiche interne come nelle relazioni
con l'esterno, che in questo caso è rappresentato dalla
municipalità e dalle organizzazioni che lavorano con
e per Frontex.
I vari attori in gioco hanno pratiche e orientamenti molto diversi
gli uni dagli altri e gli equilibri tra le diverse anime sono
spesso fragili. Il maggior attrito si ha tra quelle componenti
che puntano puramente sull'ottimizzazione dei “servizi”
offerti e quelle più “rivendicative”, che
nell'attivismo all'interno di Afghan Hill vedono anche l'occasione
per creare reti di solidarietà più stabili che,
dove possibile, rompano la barriera volontario/migrante. Le
assemblee di coordinamento possono essere lunghe ed estenuanti,
ripercorrendo dinamiche non nuove alla gran parte dei luoghi
autogestiti, ma esasperate dall'emergenzialità della
situazione.
I rapporti con l'UNHCR e le grandi ONG che lavorano all'interno
del campo profughi ufficiale cambiano da gruppo a gruppo, ma
sono generalmente ridotti al minimo. I lunghi incontri iniziali
hanno reso subito evidenti le distanze tra le pratiche burocratiche
di gestione dell'emergenza profughi da una parte e il confronto
diretto con i fallimenti di questa gestione dall'altra.
I muri e il filo spinato del campo dividono due visioni del
mondo completamente differenti. All'interno, le grandi organizzazioni
non governative sono impegnate nel supporto alle politiche di
Frontex e, perse all'interno di un labirinto di interminabili
meeting ufficiali, preventivi di spesa e carte bollate, riescono
ad essere nel contempo inumane, inefficienti e dispendiose.
All'esterno, la mancanza di mezzi ha dato spazio alla creatività
e al desiderio di supportare il bisogno e il diritto al movimento
delle persone. Si conta che almeno 500.000 persone siano sbarcate
sull'isola nel 2015 e almeno 80.000 nei primi due mesi del 2016,
nonostante la neve e l'inverno siano arrivati anche qui.
Le procedure di registrazione spesso comportano giorni di coda
e attesa. Le persone in attesa, proprio per quella burocraticità
delle ONG multinazionali accreditate dall'Unione Europea, che
possono lavorare esclusivamente all'interno del campo ufficiale,
sono lasciate senza cibo, acqua o riparo indipendentemente dall'età
o dalle condizioni climatiche ad aspettare il loro turno.
Un aspetto particolarmente importante su cui lavorano alcuni
dei gruppi di Afghan Hill è quello della condivisione
delle informazioni. Nel meccanismo di funzionamento di Frontex,
le informazioni hanno un valore particolarmente alto, in particolare
la loro mancata comunicazione.
Le comunicazioni ufficiali ai migranti, al momento della registrazione,
sono scarse e mutevoli. A seconda del luogo e del momento politico,
ai richiedenti asilo vengono consigliate le soluzioni più
diverse: vengono suggeriti campi di transito sulla terraferma,
che poi risulta quantomeno complicato lasciare, le notizie sulle
situazioni ai diversi confini vengono taciute. L'assenza di
adeguata informazione ha il solo scopo di aumentare il controllo
sui flussi migratori. Le comunità migranti hanno ovviamente
i propri canali di informazione e comunicazione, spesso interni
ai diversi gruppi nazionali o locali. Queste reti comunicative
si affidano però spesso a informazioni datate e raramente
confermate. Al loro interno la propagazione di rumors
è altissima e riguarda gli argomenti più disparati:
dal rischio di vedersi requisiti i propri averi al confine di
alcuni stati, all'impossibilità di raggiungere le destinazioni
desiderate; dalla possibilità di continuare a praticare
le proprie credenze, alle minacce di rimpatrio forzato nel paese
di provenienza. Queste reti inoltre sono quelle su cui si innestano
le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri
umani.
Una condivisione, la più ampia possibile, delle informazioni
è la chiave per permettere a chiunque di fare delle scelte
consapevoli, valutando rischi e possibilità delle diverse
opzioni a disposizione, legali o illegali. La difficoltà
di fornire un quadro puntuale e preciso è alta. Il lavoro
degli attivisti è quello di un continuo controllo incrociato
delle diverse fonti ufficiali, di una ricerca con i migranti
delle voci che hanno sentito e delle notizie in loro possesso,
in modo da verificarle e la pubblicazione di continui bollettini
multilingue con le informazioni più aggiornate. Il contesto
muta quotidianamente: a livello dell'Unione Europea, tra accordi
annunciati e poi rinviati, prese di posizione e voci contrastanti
si assiste a un continuo braccio di ferro tra i diversi stati
e con la Turchia; sempre più paesi europei, prime vittime
delle proprie derive securitarie e xenofobe, annunciano la chiusura
delle proprie frontiere, costruiscono muri e schierano eserciti;
il governo greco sfoggia i muscoli per paura di venir tagliato
fuori da Schengen, costruendo sempre più campi di detenzione
e accoglienza sul suo territorio, rinforzando i controlli sulle
coste e respingendo le barche in arrivo.
L'importanza della solidarietà
Afghan Hill non è l'unica realtà presente a Lesbo.
Vi sono altre centinaia di gruppi che lavorano sull'isola. Gruppi
di attivisti controllano le coste per avvistare le barche in
arrivo e limitare il più possibile nuove tragedie. Altri
gruppi si occupano degli spostamenti o dei rifornimenti per
i diversi piccoli accampamenti presenti. Altri supportano i
minori non accompagnati o le famiglie più bisognose.
Come si diceva all'inizio, raccontare delle esperienze di solidarietà
di base espresse sull'isola è un compito arduo. La dinamicità
della situazione e la difficoltà di reperire informazioni
sono solo parte del problema. Alcune delle attività stesse
possono proseguire e funzionare solo in quanto restano all'interno
di un cono d'ombra, senza essere sotto i riflettori. Ancora
più difficile è però attivarsi, in particolar
modo da una prospettiva anarchica e libertaria, in una solidarietà
pratica a supporto del diritto di movimento delle persone. Solidarietà
che si esplica in un sostegno umano verso persone che si trovano
in una situazione di emergenza, ma che - da un altro punto di
vista - difficilmente riesce ad essere qualcosa di più
di un rimedio agli aspetti più orribili di un sistema
inumano come quello della gestione dei flussi migratori di Frontex.
Una scelta difficile, ma l'unica possibile. Si possono immaginare
prospettive diverse che sappiano coniugare l'idea di un mondo
senza confini e il sostegno concreto a chi attualmente vive
una situazione drammatica?
Giulio D'Errico
Finzione
umanitaria
di Samuel Lisse e Emma Zaza
A Parigi e Calais la gestione dei flussi migratori
avviene attraverso sgomberi dei campi in continua e spontanea
formazione.
La riconduzione forzata in centri di accoglienza e di detenzione
amministrativa viene investita di significati umanitari. Ma
la strategia è di disperdere i migranti per rompere i
legami di solidarietà e di lotta.
È il maggio del 2015, e la prefettura di Parigi assieme
al comune annunciano sui media lo sgombero del campo dei migranti
e delle migranti instaurato ormai da mesi nel quartiere popolare
La Chapelle, a nord della capitale. La maggior parte sono afghani,
sudanesi, siriani. Centinaia di persone che (soprav)vivono in
piccole tende da campeggio sotto il ponte della metropolitana
sopraelevata, linea 2.
Un pugno di compagni, da anni attivi contro i centri di detenzione
amministrativa (CRA francesi, CIE italiani) e le aggressioni
nel quartiere, decide di lanciare un presidio. L'idea è
di prendere qualche contatto e di cominciare ad organizzare
una lotta comune, i migranti con i compagni.
Il 2 giugno, sotto il sole pallido parigino, centinaia di forze
dell'ordine sgomberano il campo, aiutati da alcune associazioni
umanitarie ammiccanti al loro gioco. La maggior parte dei migranti
e delle migranti sono smistati nei “centri d'accoglienza”
(CARA italiani). Parigi si sbarazza della “miseria migrante”
e lascia piazza pulita all'orda dei turisti in arrivo per le
vacanze estive.
Ma il presidio a qualcosa era pur servito: la sera stessa si
organizza la diffusione di volantini nel quartiere. Si rincontrano
tanti di quelli e quelle che la mattina stessa erano stati sgomberati,
tornati qui alla ricerca di solidarietà politica e materiale.
La Chapelle è già luogo e simbolo della lotta
dei e delle migranti in città. Sotto le luci arancioni
dei boulevard parigini, si decide di organizzare un'assemblea
per l'indomani.
Una lunga serie di occupazioni e di accampamenti in strada si
susseguono, rincorsi da sgomberi subdoli (nella promessa di
una soluzione migliore inesistente) e violenti (nelle dimostrazioni
di forza di uno dei corpi polizieschi più armato d'Europa).
Il campo si fa mobilitazione mobile: quotidianamente la polizia
sgombera abbozzi di campo, molesta i migranti del quartiere,
blocca le strade, aumenta i controlli, espelle le occupazioni
temporanee nate da manifestazioni determinate sotto il fumo
dei lacrimogeni e le minacce degli arresti. Pertanto, la determinazione
dei migranti e dei compagni non si affievolisce: la rivendicazione
resta quella dei permessi di soggiorno e di una dimora degna,
stralci di una giustizia sociale rubata.
Così la mobilitazione mobile si fa sostegno politico:
gli abitanti del quartiere accorrono solidali con doni materiali
e presenza militante. Se, nascosti e nascoste sotto i binari
della metropolitana, la lotta migrante era invisibile al parigino
indaffarato, la presenza in strada ha fatto finalmente emergere
una solidarietà inaspettata, quanto tanto attesa. Nella
metropoli normata, normalizzata, appiattita e controllata, il
disturbo nelle strade resta ancora un'azione e un gesto politico
importante che riesce ad imporsi, per disturbare l'ordine imposto,
per sbattere in prima pagina la realtà di migliaia di
persone che da sempre attraversano il paese, ma che recentemente
hanno trovato muri sempre più alti e indifferenza sempre
più accecante.
Sono lontane le giornate di lotta dei «sans-papiers»
francesi degli anni '70, seguite poi dagli scioperi degli
anni '90, quando le rivendicazioni dei precari del lavoro
migrante si facevano sentire. Oggi, l'arrivo di migliaia di
persone senza uno «statuto sociale particolare»,
senza lo statuto da «lavoratore» da sfruttare, senza
la casellina burocratica tanto necessaria ai governi per la
gestione delle vite umane, sembra non bastare. Essere migrante
sembra quasi significhi non esistere, al di là delle
contrattazioni internazionali.
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Calais (Francia), 1 settembre 2015 - Due migranti cercano
una strada per raggiungere i traghetti diretti nel Regno Unito |
Migrante buono, migrante cattivo
Ma ciò che, più di tutto, ha reso complessa la
lotta dei e delle migranti nella primavera e estate parigina
del 2015 é stato il sostegno dei compagni, la solidarietà
degli abitanti. La risposta del comune e della prefettura si
farà sentire sonoramente nelle settimane seguenti.
Siamo ai primi di giugno, e il campo si sposta dalle ombre della
metropolitana alla luce del parchetto urbano: il giardino dell'Eole.
Tra la decina di espulsioni e proprio quando una forma di campo
autogestito diviene concreta in questo parchetto al nord di
Parigi, stigmatizzato dalla presenza di qualche spacciatore,
la pratica dello smistamento nei centri di accoglienza si fa
più frequente. Il comune, con l'aiuto di Emmaus e della
Croce Rossa, arriva sui campi con bus vuoti: direzione CARA.
La dispersione avviene nel silenzio.
Pur considerando che la soluzione dei centri di accoglienza
fosse soddisfacente per una parte dei migranti in strada da
mesi, a volte da anni, il fatto che una gran parte di loro lasciasse
tali strutture solo qualche giorno dopo, date le condizioni
di «accoglienza», ci impone di porre uno sguardo
critico al fenomeno. Senza farsi troppe illusioni, i CARA portano
fondamentalmente una logica di dispersione dei e delle migranti
e delle forze in lotta, spesso in periferie lontane, il tutto
mascherato dalla truffa umanitaria. Purtroppo, i CARA riescono
in ciò che la repressione e le continue espulsioni da
parte delle forze dell'ordine non sono riuscite a fare: rompere
la dinamica di lotta, intaccare i legami di solidarietà.
D'altra parte, la strategia dei centri di accoglienza maschera
l'obiettivo principale della strategia governativa. Mentre a
Milano si giocava a nascondere i migranti in vetrine opacizzate
della Stazione Centrale e a Roma si cercava di rincorrerli in
giro per le strade, in Francia già si inscenava palesemente
la distinzione tra il “buono” e il “cattivo”
migrante, “accolto” contro “espulso”.
Lo scoppio della guerra in Siria é stato accompagnato
da una finta ripartizione tra i rifugiati di guerra (ricordiamo,
una guerra alimentata da russi, europei e americani) e i “sans-papiers”
d'altrove, i quali vedono il loro potere rivendicativo sciogliersi
davanti a manovre burocratico-legislative nazionali ed internazionali.
Le recenti negoziazioni tra Europa e Turchia, stanno però
dimostrando quanto la bugia fosse grossa, la beffa inimmaginabile.
L'Europa fortino razzista non ammette neanche più spazio
ai “buoni migranti”.
I centri di accoglienza non sono “una soluzione umanitaria
controcorrente alle politiche europee di guerra ai migranti”,
come i poteri locali parigini hanno cercato di vendere durante
questi mesi di mobilitazione. Per noi rappresentano quegli spot
in cui si richiedono domande di asilo in una logica totalmente
individualizzante, chiudendo la morsa su coloro i quali hanno
lasciato le loro impronte altrove. Sono quelle prigioni che
spossessano totalmente i migranti e le migranti delle loro vite:
orari imposti, coprifuoco, attività di svago pietose.
Sono quei muri che si vedono solo in TV, da cui risuonano le
proteste (scioperi della fame, blocchi alle entrate, comunicati)
contro le condizioni di vita, il razzismo del personale, la
lentezza delle domande di asilo.
Accoglienza e aiuto autogestito
Purtroppo ciò non ci sorprende: la promessa economica
che la gestione dei centri di accoglienza rappresenta per le
associazioni umanitarie gestori del loro funzionamento (Emmaus,
Coalia, Croce Rossa, Gruppo SOS) non le fanno retrocedere di
un passo.
Il funzionamento dei centri di accoglienza é dunque agli
antipodi di quello che si é costruito nei campi parigini:
una lotta autorganizzata, fatta di assemblee e manifestazioni
autonome e senza bandiere di partito, costruita attraverso pratiche
d'autogestione del quotidiano (cucina, gestione dei doni), basata
sul funzionamento orizzontale. Ma non mentiamoci, é stato
tutt'altro che semplice: le differenze linguistiche, le traiettorie
personali di ogni migrante, il riflusso continuo delle persone
sul campo, la stanchezza, la mancanza di mezzi materiali del
movimento parigino, le molestie incessanti delle forze dell'ordine
e dei poteri pubblici, hanno affievolito enormemente gli spiriti
in lotta. Pertanto, sempre si é cercato di mettere in
pratica quell'idea rivoluzionaria e libertaria per cui la lotta
si costruisce con la solidarietà reciproca, non con il
paternalismo, né con la carità e il razzismo.
Ciò che difatti ha complicato, e in realtà impedito,
l'autorganizzazione orizzontale tra migranti e compagni é
stato l'arrivo di individui alla ricerca di fama in una logica
caritativa, toccando il suo culmine nell'occupazione del liceo
Jean Quarré, sempre nel nord di Parigi. Questi, erano
i giorni in cui la foto di Aylan Kurdi, bimbo siriano di tre
anni trovato morto sulle spiagge turche, era sulle prime pagine
di tutti i giornali. La logica umanitaria e «politicarda»
ha preso il sopravvento e al grido compassionevole del «siamo
tutti migranti» si é spenta la lotta. Le assemblee
impedite, le manifestazioni additate come pericolose. Alcuni
hanno addirittura negoziato dei posti nei centri di accoglienza,
alle spalle dei migranti. Altri ancora, gestiscono oggi organizzazioni
umanitarie, le stesse che traggono profitto dalle rotte migranti.
Il 23 ottobre 2015 il liceo é stato dunque sgomberato.
Al suo posto oggi si erge un ennesimo centro di accoglienza
gestito da Emmaus, al danno la beffa. Sotto la promessa di un
non intervento delle forze dell'ordine, il mattino seguente
le pattuglie adibite all'operazione di sgombero circondavano
l'ex-liceo occupato, accompagnando le associazioni nel loro
infame lavoro di smistamento delle vite umane. Tra le 1200 persone
che vi vivevano, diverse centinaia non trovarono dimora.
Da allora diversi alti campi si sono formati, poi dispersi,
poi ricreati, poi soppressi, in diversi angoli di Parigi. Talvolta
cercando di costruire un rapporto di forza, altre volte nell'attesa
di una risposta o semplicemente in cerca di dimora. E anche
se, dopo il campo dell'Eole, dopo l'occupazione del liceo Quarré,
gli sgomberi si fanno sempre più frequenti, la determinazione
dei migranti é ancora più forte della loro repressione.
Ma la storia di Parigi è solo la punta dell'iceberg della
politica repressiva e razzista francese. Essa trova il suo macabro
splendore nella regione del Nord-Pas-de-Calais. Proprio qui,
lontano dai riflettori delle televisioni, lo stato fa il suo
gioco più sporco. Se in città, come a Parigi,
la presenza dei migranti per strada, davanti gli occhi di tutti,
svela le contraddizioni dello stato fantoccio dei diritti umani,
alle frontiere francesi il messaggio repressivo suona forte
e chiaro.
Ma come arginare 7000 persone in cammino?
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Calais (Francia) - La polizia francese all'interno del campo
migranti “La giungla” |
La più grossa bidonville d'Europa
Calais é una piccola città di frontiera, un po'
come Ventimiglia, solo che dall'altra parte delle griglie ci
sono 50km di mare e di speranza che dividono la Francia dall'Inghilterra.
Dal 2008 questa cittadina di 70.000 abitanti ha visto la nascita
di diversi campi temporanei vicino al porto, di donne, uomini
e bambini che vogliono raggiungere la tanto sognata Gran Bretagna.
Nel 2005, in seguito a diverse espulsioni, lo stato prende le
redini della situazione. Il campo che oggi viene chiamato «La
giungla» é il risultato dell'emarginazione dei
migranti fuori i confini della città abitata, lontano
dagli occhi dei calesiani, fuori dalle occupazioni urbane. L'accettazione
dell'«illegalità migrante» da parte dello
stato, emarginandoli in un campo lontano dalla città,
serviva solo a salvare la faccia da cartolina di una piccola
città tranquilla e benestante. Il governo francese aveva
però mal calcolato l'ondata migratoria che ha invaso
massicciamente l'Europa negli ultimi anni. Da essere un campo
di centinaia di persone, Calais é diventata del 2015
la più grossa “bidonville” d'Europa con i
suoi 7000 abitanti.
Tra la zona nord più formale e la zona sud più
informale, al centro del vasto campo di fango e capanne si erge
il centro d'accoglienza Jules Ferry. Al suo fianco, un campo
di bianchi container circondati da reti. Entrambi opera dell'associazione
La Vie Active, entrambi accessibili attraverso le impronte digitali.
Piuttosto che difendere la causa dei migranti, ecco l'ennesima
associazione che lavora da piccola operaia dello stato per meglio
gestire la “informalità”.
Nel marzo 2016, “La giungla” di Calais é
finita sotto espulsione e i container bianchi sono stati occupati
da qualche centinaio di migranti. Sotto l'ordine del ministro
dell'interno e del prefetto della regione, lo sgombero é
iniziato e con lui le proteste dei e delle migranti. Tra scioperi
della fame, labbra cucite in segno di protesta e fuoco alle
capanne, i migranti hanno gridato libertà. Hurriya
Paris, e ancora hurriya! Le ruspe della Francia, come quelle
tanto sognate da Salvini, hanno distrutto il loro stesso operato
di 10 anni fa. Davanti a loro, una guerriglia di chi non ha
più nulla da perdere, se non un briciolo di rivendicazione.
Difficile poter dire oggi cosa ne sarà di Calais, ma
di certo l'espulsione prevista in qualche giornata é
durata diverse settimane grazie alla resistenza dei e delle
migranti. A loro fianco i compagni, i famigerati No-Border,
capro espiatorio dello stato, additato al fine di negare la
capacità di resistenza e di autorganizzazione dei e delle
migranti. Si sente parlare di qualche associazione, ammettiamolo
pure, ma solo posizionate contro la violenza degli sgomberi
da parte della polizia, non di certo per riaccendere la miccia
della lotta.
Se dunque diverse sono le situazioni, le rivendicazioni e le
pratiche tra la lotta a Calais e quella a Parigi, certo é
che certi elementi sono pur sempre riconducibili. O se non altro
emerge il bisogno di trovare delle strategie di lotta comuni,
da Calais a Parigi, verso Marsiglia, Ventimiglia, poi in fondo,
giù per lo stivale, oltre tutti i confini, attraverso
i freespot sorti come figli e figlie della solidarietà.
Oggi, a Parigi, un campo di un centinaio di migranti si trova,
di nuovo, sotto i binari della metropolitana sopraelevata. Questa
volta a Stalingrad, a solo una fermata da La Chapelle.
Sembra che la storia si ripeta, e allora diverse discussioni
sono in corso per continuare ad immaginare e a concretizzare
una lotta autonoma e autorganizzata dai e dalle migranti, assieme
ai compagni e alle compagne, sotto una prospettiva comune. Una
nuova estate sta arrivando, e con lei tutti i migranti e le
migranti che verranno espulsi dai centri di accoglienza, passato
l'inverno. Le copie in bianco e nero di “Merhaba”,
il nuovo giornale di lotta scritto dai migranti in lotta a Parigi,
scivola tra mani stanche e determinate, nell'attesa di ricominciare.
Ciò che è certo, è che nulla è finito!
Hurriya Paris, e ancora hurriya!
Samuel Lisse e Emma Zaza
Ventimiglia
maledetta
di Ludovico per il freespot di Ventimiglia
Tra passeur e polizia, la situazione a
Ventimiglia è la stessa da quasi un anno. Nei mesi scorsi
è nato un freespot, luogo dove praticare il mutuo
aiuto fuori da logiche umanitarie e continuare a monitorare
la repressione in corso.
I luoghi di frontiera sono luoghi maledetti, dove si concentrano
contraddizioni e violenze. Oggi questi luoghi sono ovunque,
ma i confini nazionali rimangono degli ottimi osservatori della
guerra in corso. Il confine italo-francese non è ancora
una frontiera impossibile. Passare non implica sempre rischi
altissimi, e Ventimiglia viene raccontata dai migranti che l'hanno
attraversata come una frontiera sostanzialmente facile, il cui
ricordo non è dei più brutti. Il problema è
che l'Europa oggi, Francia in testa, sta facendo la guerra alle
persone in arrivo, e i confini sono tanti quante le divise che
puoi incontrare sulla tua strada.
La scorsa estate una folla di giornalisti era stata richiamata
a Ponte San Ludovico dalla resistenza sugli scogli di tante
donne e uomini che non erano disposte a rassegnarsi e tornare
indietro. Andrea Deaglio ci ha mostrato in un recente documentario
(Show. All this to the World, Mu Film, 2015), che racconta
il primo tentativo di sgombero della pineta dei Balzi Rossi,
tanto la violenza poliziesca, quanto quella dei media, invadenti
e pieni di sé, capaci di trasformare la dignità
di chi lotta in pornografia della miseria. Oggi, spente le telecamere
e ripiegati i pochi appunti, non c'è giornalista che
trovi interessante ciò che accade tra Ventimiglia e la
Costa Azzurra. Qui oltretutto non sono nemmeno passati molti
siriani, e della guerra in Darfur non se ne parla più
dall'ultimo concerto di Bono.
A Ventimiglia la situazione, rispetto a quest'estate, non è
cambiata molto. Se, come dicevamo, questo non è ancora
un luogo dove si muore tutti i giorni, ciò non significa
che il dispositivo di confine non continui ad essere violento
e infame. Uomini e mezzi sono disposti strategicamente nei luoghi
del transito, tipicamente treni e stazioni. Quando si arriva
a Ventimiglia il controllo sui migranti si intensifica e può
persino capitare di incontrare agenti della PAF (Police aux
frontieres, polizia di frontiera) sui binari. La militarizzazione
della scorsa estate è riuscita ad allontanare quel tanto
di solidarietà che la città era riuscita a esprimere
e oggi la stazione è uno di quei luoghi dove l'eccezionalità
del fatto è la vita di chi la abita. Si vive anche in
stazione, tra la gente di passaggio e gli sguardi attenti di
passeur (che, dietro compenso, portano i migranti oltre
il confine, ndr) e polizia. Fanno un po' il gioco delle
parti, ma tutti sanno che gli uni fanno il gioco degli altri
e che gli altri glielo lasciano fare. Nonostante ciò
si vive e si cerca di passare.
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Ventimiglia (Italia) - Alcuni migranti sugli scogli prima
dello sgombero avvenuto lo scorso 30 settembre |
Con un po' di fortuna chi prova a partire riesce a salire
su un treno, direzione Francia, senza essere fermato alla partenza,
ma appena oltre confine si trova la stazione di Menton Garavan.
In questa piccola stazione della “Perle de la France”
(E. Reclus), avvengono quotidianamente controlli di polizia
su base etnica. È la macchina dei respingimenti, il cui
primo filtro è il colore della pelle, il secondo un pezzo
di carta. I non-bianchi senza la carta giusta verranno fatti
scendere dal treno e dopo qualche ora nelle mani della polizia,
prima francese e poi italiana, si ritroveranno al punto di partenza.
Noi la chiamiamo deportazione. Se per qualche ragione si riescono
a schivare gli agenti della CRS (Compagnies Républicaines
de Sécurité, sempre presenti con almeno un paio
di camionette) a Garavan, nel proseguio del viaggio, a Nizza,
Cannes o in qualche altra amena località della ricca
(e per lo più fascista, aggiungeremmo noi!) Costa Azzurra
ci si può sempre imbattere in controlli alle stazioni,
e conseguenti deportazioni in Italia. Un confine diffuso quindi,
che usa come valvola di sfogo la criminalità organizzata
dei passeur, legittimando al contempo la militarizzazione
del territorio con il contrasto al traffico di esseri umani.
Ventimiglia-Nizza costa almeno cento euro a un migrante che
si affida ai passeur, a fronte dei pochi euro che un
europeo spende sui mezzi pubblici per la stessa tratta. Per
un non-bianco senza soldi la faccenda si complica, e capita
di rimanere bloccati anche per diverse settimane, provando e
riprovando a eludere i controlli razziali. In qualche modo si
passa, ma al costo di notti insonni, giornate a pancia vuota
e un numero variabile di deportazioni. Non è molto umana
l'accoglienza a Ventimiglia, e l'umanitario sta dalla parte
di chi scheda, controlla e deporta.
Affianco alla stazione di Ventimiglia si trova il centro di
accoglienza della Croce Rossa Italiana. Nato nei giorni della
cosiddetta “emergenza” della scorsa estate il centro
da temporaneo è diventato permanente e oggi viene definito
“centro per richiedenti asilo”, come se i migranti
arrivassero al confine con la Francia per chiedere asilo in
Italia. Se prima la Croce Rossa si limitava a collaborare alle
deportazioni riportando i migranti respinti dalla frontiera
alla stazione di Ventimiglia, ma senza chiedere l'identificazione
di chi trovava accoglienza tra le sue mura, oggi anche una brandina
e un pasto si pagano con l'identificazione in Questura. La CRI
passa così dall'essere designato come gestore unico della
“emergenza” a essere ufficialmente parte del dispositivo
di frontiera. E i suoi volontari, o meglio militi, non si capacitano
del fatto di non essere così amati dai migranti...
La delega umanitaria alla CRI è stata per le autorità
il modo migliore per provare a delegittimare prima e reprimere
poi tutte le azioni di solidarietà che in questi mesi
si sono espresse tanto in forma spontanea quanto autorganizzata.
Dal provvedimento che vieta la distribuzione del cibo - emanato
dal sindaco di Ventimiglia - (divieto di distribuire cibo) ai
fogli di via, dalle denunce per occupazione dei Balzi Rossi
agli avvisi orali di pericolosità, diversi sono stati
i tentativi di distruggere quegli spazi di vita e lotta comune
nati contro la chiusura delle frontiere. Pare faccia molta paura
che un bianco parli con un nero, specie se questo parlare crea
nuove relazioni e possibilità di ribellarsi.
Con tutti gli sforzi fatti possiamo tranquillamente affermare
che il comando militare ha fallito. Alle interdizioni territoriali
abbiamo risposto disegnando geografie altre, che eludono i loro
dispositivi amministrativi e i loro controlli. Non siamo gente
che si fa fermare da un confine, e spesso constatiamo come i
nostri nemici siano in realtà tigri di carta. A settembre
sembrava che gli hotspot avrebbero fermato i flussi e
risolto definitivamente la cosiddetta “crisi” migratoria.
Sappiamo che così non è stato, e anche per questo
diamo il nostro contributo. Perché i piani di chi governa
continuino a fallire.
Poco fuori da Ventimiglia è nato nei mesi scorsi il freespot,
spazio di solidarietà attiva e osservatorio di confine.
Un luogo dove praticare il mutuo aiuto fuori da logiche umanitarie
e continuare a monitorare la repressione in corso, dove prendere
fiato durante il viaggio, riorganizzarsi e rilanciare la lotta.
Sappiamo che la nostra lotta non si gioca nei pochi chilometri
che ci separano dalla Francia e crediamo che il nostro agire
abbia un senso solo se inteso su un piano transnazionale.
Supportare il transito dei migranti, organizzarsi insieme per
abbattere le frontiere richiede uno sguardo ampio. Così
ci riguardano tanto i morti in Siria quanto quelli a Calais,
le lotte contro i centri di detenzione amministrativa così
come quelle contro lo sfruttamento. Se non incontrassimo sempre
nuovi amici avremmo l'impressione di essere circondati solo
dalla guerra, dai nostri nemici. Ma così non è.
Le nostre reti, informali, gioiose e sgangherate, crescono e
con esse la nostra capacità di resistere e contrattaccare.
L'estate si avvicina e saranno migliaia le persone che si rimetteranno
in viaggio. Il disegno del comando europeo è sempre più
esplicitamente razzista e totalitario. Non ci deve far paura
perché non possiamo permettere che si compia, a Ventimiglia
come altrove. Andiamo andando.
Ludovico per il freespot di Ventimiglia
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